Page 226 - Emilio Zanoni - 1955 - Saggo storico
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In quella seduta si deliberò l’allargamento del C.L.N. a due rappresentanti per
partito in luogo di uno solo, come fino ad allora aveva consigliato la tattica
clandestina.
Il segno di riconoscimento degli insorti, esclusi naturalmente quelli propri di
ogni formazione, doveva essere una fascia bracciale tricolore con stampigliata la
sigla C.L.N.
L’incarico di preparare tali contrassegni venne preso dal delegato del Partito
Socialista. Per due notti consecutive donne patriottiche procedettero alla
confezione del distintivo adottato per la battaglia.
Uscendo da quella seduta del C.L.N. (si può dire che da allora il massimo organo
provinciale della liberazione sedette in permanenza) taluni membri ebbero la
netta sensazione che le cose potessero precipitare da un momento all’altro.
I primi spari dell’insurrezione in città si erano uditi in quel pomeriggio
provenienti, come si vedrà in seguito, dal popolare rione di S.Imerio, ove i
giovani arditi erano già in azione. Verso Piazza Castello e lungo l’attuale Via
Ghinaglia, sfilava una formazione di “bande nere” diretta alla stazione del
trenino di Edolo.
Probabilmente, secondo i piani di Graziani e Pavolini, defilavano verso la linea
arretrata di estrema difesa. Ma, evidentemente, anche se quelle truppe fossero
arrivate (e furono invece fermate dall’insurrezione nei pressi di Soncino) i
gerarchi di Dongo non sarebbero sfuggiti alla loro sorte.
Demoralizzati e in preda al panico gli squadristi delle brigate nere vedevano già
ovunque agguati e partigiani.
Infatti forse lo sbattere improvviso di una porta, nel silenzio della strada creato al
loro passaggio (ma mille volti maledicenti li spiavano dalle imposte socchiuse) o
forse un colpo d’arma da fuoco inavvertitamente esploso da qualcuno dei
briganti in prima fila, accese improvvisamente una sparatoria, come di plotone.
Riparandosi negli angiporti delle case, dietro gli spigoli, gli eroi, i “fidanzati
della morte”, sparavano alla cieca, all’aria, contro un nemico immaginario che
sentivano alle calcagna.
In quel frangente non c’era ancora alcun nemico. Ma tutto un popolo, tanti
giovani, febbrilmente in quelle ore scavavano in cantina le armi nascoste,
contavano cartucce, oliavano mitraglie sottratte al vecchio esercito, parlottavano
col capo distaccamento per preparare l’azione da svolgere appena se ne fosse
presentata l’occasione.
Il 24 aprile, con una situazione di demoralizzazione fascista ancor più evidente,
trascorse in città ancora calmo e tranquillo.
Del nuovo c’era in Piazza Sant’Agata: là dove nel 1848 alla gran guardia stavano
due pezzi d’artiglieria con le micce accese, oggi a protezione del comando
tedesco di Palazzo Trecchi erano stati collocati quattro mortai, con la bocca
rivolta due verso Corso Campi e due verso San Luca.
L’accresciuto via vai dei fuggiaschi dell’Emilia, il muoversi più concitato di
staffette e di pattuglie germaniche accrescevano la tensione pubblica e l’attesa

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