Page 163 - Emilio Zanoni - 1955 - Saggo storico
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ambito del “regno meridionale”, coi piccoli intrighi della capitale provvisoria e
con le deboli azioni dei movimenti antifascisti, per attingere ad una nuova
tribuna autorevole, Roma, donde essa potrà più agevolmente parlare all’Italia ed
al mondo. Secondariamente la liberazione di Roma galvanizza la resistenza ad un
impeto di assalto che assurge ad epopea nazionale: ovunque si spiega, levata da
gruppi di patrioti, la bandiera della indipendenza e della libertà.
I nazifascisti, disorientati, in un primo tempo perdono punti e terreno. Ridottisi
poi sulla trincea della esasperazione, acculati al muro delle loro responsabilità,
compiono quei gesti di cieco fanatismo e di irresponsabilità per i quali gli onesti
(se ancora ne esistono fra fautori e timidi fiancheggiatori della repubblica) si
ritraggono dalla scena e si pongono ad aspettare gli eventi.
Come era nel costume ridondantemente retorico del neo-fascismo, ereditato
nonostante le smentite repubblichine dall’apparato istrionesco di orpelli e parate
dell’epoca staraciana, la liberazione di Roma o (come i fascisti la chiamano)
“l’entrata dei barbari in Roma”, viene celebrata con riti tra il pagliaccesco e il
funerario.
Per tre giorni (lutto nazionale) tutti gli spettacoli sono sospesi a Cremona. Così
pure le manifestazioni sportive. Forse per dar tempo agli eventuali spettatori e
agli sportivi di accorrere a “liberar Roma dai liberatori”.
Dal quieto e sicuro eremo di Salò, ove trascorre gli ozii catulliani in compagnia
dell’amica romana, il dittatore della repubblica lancia agli italiani il manifesto
della riscossa.
Il ruggito del leone di altri tempi si è molto affievolito.
Il frasario è ancora quello, con venature e riboboli di lingua di marca francese,
ma il tema, anche se sforzato come di voce elevata oltre il suo timbro naturale,
non è quello di una volta. O, almeno, sono mutati lo stato d’animo degli
ascoltatori e l’ambiente dove si svolge la tragicommedia.
E’ difatti difficile immaginare la tragedia di un intero popolo, nel cui territorio si
combatte la più dura guerra che mai da secoli si sia scatenata, stando a rimirarla
da una villa borghese a specchio del lago nella penombra di verdi montagne.
Se la gerarchia fascista e il capo della gerarchia avessero avuto, diciamo, solo
una decima parte delle convinzioni di cui si proclamavano portatori, il loro
dovere sarebbe stato quello di trasferirsi, in massa e con urgenza, sul fronte di
Roma a segnare col sangue la loro ipotetica fede.
Fedeli fino all’ultimo al vecchio motto degli interventisti della prima guerra,
“armiamoci e partite”, essi preferiscono ancora una volta, rimanere in relativa
sicurezza (la sorte di Giovanni Gentile, di Resega, di Cappelli, di Pericle Ducati
insegni!) nella città il più a nord possibile per organizzare la difesa fino
all’estremo e spingere alla lotta i non troppo convinti seguaci.
Anche a Cremona non manca la pittoresca messa in scena del “ritorneremo”.
Gerarchi, sfollati, profughi e lance spezzate si riuniscono al Teatro “Littorio”.
La retorica dei ricordi romani ed imperiali fa spellar le mani nell’applauso alle
“ausiliarie” e ai G.N.R..

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