Page 145 - Emilio Zanoni - 1955 - Saggo storico
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alla storia, forse anche la mia, perché l’Italia viva”. L’Italia cui alludeva il
pletorico retore era, naturalmente, l’Italia fascista e repubblichina.
Il processo di Verona, in tutta l’Italia repubblichina, segnava l’inizio della
attività dei Tribunali Provinciali Rivoluzionari che erano stati la prima misura
colla quale il fascismo voleva vendicarsi dei suoi nemici dei 45 giorni.
Essi dovevano giudicare, sulla base del decreto emanato in proposito dal “duce”:

1) i fascisti che si erano resi colpevoli di violazione del giuramento fascista con
atti e con parole anche dopo il 25 luglio;

2) gli iscritti al partito che avessero, nello stesso periodo di tempo,compiuto atti
contro il fascismo su persone e simboli.

Ce n’era abbastanza per poter deferire al tribunale provinciale rivoluzionario tutti
gli abitanti della città e provincia sulla base, si noti bene, di norme a carattere
retroattivo ed emanate da un organo che non aveva alcuna veste giuridica per
farlo.
L’attività di questi Tribunali, finché si limitò ad esaminare le denunce dei fatti
del 25 luglio, si ridusse a una burletta: anni e anni di reclusione affibbiati dai
giudici ad accusati convinti che, per lo svolgersi futuro degli eventi, avrebbero
scontato ben poco della pena.
Tragica divenne quando codesti Tribunali cominciarono a funzionare contro
partigiani, patrioti sorpresi colle armi alla mano o impegnati nella cospirazione
antinazista.
Il Tribunale Provinciale rivoluzionario di Cremona si riunì, nella sala della corte
d’Assise della città, il 15 febbraio 1944. Esso, naturalmente, non era costituito da
giudici di carriera ma da elementi faziosi di altre città, onde far credere a una
imparzialità impossibile ed onde (più sicuramente) rendere più difficile in un
tempo futuro la ricerca dei giudici da parte del legittimo potere giudiziario.
Presidente del Tribunale era l’Avv. Corrado di Venezia, giudici certi Chiais e
Paladino, pubblico accusatore; l’avvocato Armando Aprile.
I dibattiti eran seguiti da un folto pubblico di fascisti ai quali si mescolavano i
soliti curiosi.
Dalla parete era stato tolto (pare in gara di tiro a segno a colpi di pistola) il
ritratto del precedente Capo dello Stato e sostituito da quello del “duce”.
Il 15 febbraio fu la volta di due cittadini cremaschi: Romolo Calzi e Giuseppe
Maccarinelli, imputati di manifestazione antifascista a Crema e di violenze su
cose e simboli del fascismo.
Il Calzi venne condannato a sette anni di reclusione, il Maccarinelli (pel quale
l’ameno pubblico accusatore aveva chiesto addirittura la pena di morte) a
trent’anni.
Che tali condanne fossero sentite dalla cittadinanza come qualcosa di innaturale,
contrario al buon senso e giuridicamente infondato, lo percepì lo stesso

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