Page 51 - Emilio Zanoni - 1955 - Saggo storico
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lanzichenecchi al servizio della reazione, si erano date sin dall’inizio struttura,
organatura e mentalità affatto militare. Si aggiunga poi che mentre i “sovversivi”
bianchi e e rossi, accuratamente schedati nelle questure e nelle stazioni dei
Carabinieri, non potevano mai ottenere porto d’armi; i fascisti erano armati fino
ai denti, in taluni casi, andando a rifornirsi di armi nelle stesse caserme e depositi
ad opera di compiacenti concessioni burocratiche e governative.
Si aggiunga l’imponderabile dell’ambiente.
I fascisti infatti sentivano di agire su terreno propizio.
Accompagnati nelle loro imprese da agenti governativi, tutelati dalla burocrazia,
certi dell’impunità penale per la omertà della questura e le debolezze dei
magistrati simili al già ricordato procuratore del re di Cremona. La teppaglia
fascista generalmente non aveva nulla da perdere.
Giovinastri viziosi che passavano le ore in attesa delle “spedizioni punitive” fra
le case di piacere e i caffè, erano i candidati al facile eroismo di bastonatori di
inermi e di assassini di gente presa alle spalle.
Nonostante il clima infausto e nonostante che la situazione fosse ormai
periclitante, l’opposizione democratica si rivelò nelle due forme che avranno poi
un’importanza decisiva nel secondo Risorgimento: resistenza armata; alleanza
democratica tra forze affini per controbattere l’offensiva avversaria.
La resistenza sul campo, fatta in un primo tempo di isolati episodi, si andò man
mano organizzando fino a darsi una ossatura simile negli scopi a quella dei
gloriosi “volontari della libertà”.
Si cominciò da parte dei lavoratori e dei democratici, ad applicare in taluni casi,
la legge del “taglione”.
Non soltanto resistenza, là dove era possibile, contro le aggressioni, ma
controazioni manovrate e di forza contro le squadracce nere. C’era da combattere
su due fronti perché le forze dell’ordine intervenivano rapidamente quando si
trattava di agire contro le azioni popolari; ciò nonostante la ineguale battaglia si
andò accendendo dei bagliori delle volontà, venati alla fine dalla rabbia della
disperazione.
In molti paesi le bande nere che credevano di avere da compiere il solito lavoro
di bastonatura degli inermi e di atterrimento delle donne e dei bambini, si
trovarono di fronte raschi taglienti e canne dei fucili novantuno portati a casa dai
soldati contadini.
Fu la fuga allora degli eroici squadristi e il grido “a noi” che in tono di
implorazione echeggiava tra i fossati e le concimaie ove i valorosi si erano
acquattati.
Ciò a Derovere, alla “battaglia di Sospiro” e in talune località del Cremasco. Ciò
a Cremona alla difesa della “cooperativa Terrazzieri” e delle Case Popolari di
Porta Mosa, alla difesa della Cooperativa Carlo Marx fuori Porta Venezia e nella
lotta combattuta l’8 maggio 1922 (ultima libera celebrazione della festa del
lavoro) agli approcci della città per rompere il cerchio posto dalle squadracce
nere. E’ un episodio questo che merita di essere ricordato anche perché
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