Alla ricerca di ogni pretestuoso tormentone (che faccia tendenza e/o distinzione) infuria nell'opinione e nel media system nazional (popolare) la diatriba sulla genuflessione; applicata non già al gesto liturgico, bensì alla denuncia civile contro lo strisciante e, nei migliori dei contesti, latente impulso razzistico.
Diciamo subito, a titolo personale ed in rappresentanza del profilo della testata, che, su questo terreno, più denuncia c'è e meglio è.
Esaurita la doverosa premessa, aggiungiamo, però, una certa idiosincrasia ad accodarci alle mode dei gesti esibiti au caviar e pretesi coram populo (pena l'ostracismo nel girone dei razzisti).
Tutte le vite contano; a prescindere dal colore della pelle, del censo, della cultura e, prendendo l'abbrivio, per la riflessione che vogliamo fare qui, di che cosa uno campa.
Ecco, è per questa fattispecie che inviteremmo i praticanti dell'inginocchiamento e, in via eccezionale, noi stessi a riservare il gesto per un motivo di cui vale molto la pena.
Nei giorni scorsi in uno dei latifondi dell'Italia meridionale, in un contesto di temperature torride e di prestazioni lavorative molto simili al più bieco schiavismo, è morto Camara Fantamadi, aveva 27 anni e veniva dal Mali.
Era venuto in Italia, a fare i lavori che “gli italiani si rifiutano di fare” (per il vero centinaia di migliaia di connazionali si rifiutano, in omaggio al reddito di cittadinanza e ad un generalizzato e generoso assistenzialismo).
Fino a qualche anno fa (lo possiamo testimoniare da molti decenni, visto che abbiamo soggiornato per più volte con il compagno ed amico Franco Sanasi nella sua terra natale), quando ancora non si aveva percezione dei flussi migratori, i black erano i connazionali che occupavano nei latifondi pugliesi l'ultimo gradino della scala sociale.
Era la terra di Peppino Di Vittorio, prima attivo antagonista dello sfruttamento del latifondismo agrario e del caporalato (categorie non casualmente sintonizzate sul nascente fascismo) e, poi, autorevole ed amato leader del Sindacato bracciantile e della Confederazione sindacale.
Passano le decadi e forse anche i secoli, ma l'impulso a scambiare il lavoro umano con il lavoro bestiale (specialmente se finalizzato alla massimazione del profitto) non concede, a dispetto dell'evoluzione civile, tregua o sconti.
D'altro lato il “Tavoliere” è una terra baciata da Dio, per quanto riguarda la resa delle attività agricole ed orto frutticole.
Che hanno un apprezzato mercato nazionale ed estero. Fatto questo che, coi suoi margini se non cospicui sicuramente buoni, dovrebbe, quantomeno, indurre a moderare lo sfruttamento.
Ma questi margini non bastano. Per un'imprenditoria agraria da grandi numeri, per l'interferenza di molti corpi intermedi facilitatori dello sfruttamento (il caporalato e l'intermediazione più o meno legale), per un sistema distributivo frazionato e, come nel caso della grande distribuzione, onnivoro. Una grande distribuzione (non vorremmo ometterlo) che arrotonda i margini gestendo una logistica, speculare (come è avvenuto la settimana scorsa a Piacenza) ad un'ulteriore filiera di sfruttamento.
Ecco, proviamo a pensare anche a questo, quando entriamo in qualche centro commerciale e vediamo esposte delle isole di primizie a prezzi tutto sommato abbordabili. Le primizie che vengono raccolte da lavoratori, venuti dal Mali, acquartierati in orrende locations fatte di lamiere e cartoni, costretti a raggiungere in bicicletta quando ancora non si è fatto giorno un ambiente di lavoro a cielo aperto e a più di 40 gradi all'ombra. Ritornando, come faceva Camara, a sera, dopo 12-14 ore di lavoro retribuite a 6 euro all'ora (probabilmente senza istituti salariali, complementari e normativi).
Già si muore di lavoro. Non solo del lavoro, privo di tutelate antinfortunistiche (semplicemente, come nel caso della povera ventiduenne toscana, rimosse per velocizzare la produzione), ma del lavoro primordiale.
Camara, finito il suo lungo turno quotidiano; ha inforcato la bicicletta e si è diretto nell'abituro. Dove non arriverà. Ad un certo punto smesso di pedalare, ha appoggiato la bicicletta in terra e si è messo in ginocchio. Poi si è accasciato ed è morto, stroncato dalla fatica.
Scrive Repubblica che “Nel nostro Paese una media di oltre due lavoratori al giorno non fa ritorno a casa”. Vite invisibili, inosservate e dimenticabili; fin quando come nella fattispecie il combinato tra il limite della decenza e la rilevanza mediatica non proiettano l'intollerabilità nelle nostre coscienze.
Prima di Camara (ma in mezzo ce ne sono state tantissime altre di morti invisibili) ci fu, sempre in Puglia, il caso di Paola Clemente, 49nne salariata agricola addetta all'acinatura (patrocinata dal caporalato locale) dei vigneti. Stremata dall'usura di lavori disumani, dalla levataccia e dal trasferimento nei campi e, probabilmente, dal supplemento del lavoro domestico.
Il tutto per pochi euro, che finivano in un bilancio domestico sempre troppo magro, mentre il profitto imperturbabilmente era diretto, come sempre, alla catena di cui abbiamo detto.
Per due volte consecutive in occasione del 1° maggio abbiamo eletto Paola Clemente testimonial protagonista del dossier festa del lavoro de l'Eco del Popolo.
Non l'abbiamo persa di vista neanche in questa circostanza in cui abbiamo acceso i fari sulla vicenda tremenda di Camara; soprattutto, considerando (anche se il fatto non ce la restituirà in vita) che il datore di lavoro (sic, lo schiavista!) è stato rinviato a giudizio per omicidio colposo (insieme con altri 6 imputati).
Parva res, rispetto alle dimensioni ed alla gravità del fenomeno; parva, ma pur sempre un segno di inversione di una tendenza civile e monito a non girare più la testa dall'altra parte.
Già, perché, senza voler minimamente prendercela col ceto politico-istituzionale pugliese, registriamo che da decenni il riflettore della testimonianza civile e sociale ha trascurato i lavoratori “invisibili”, privilegiando l'utero in affitto, la xylella della vite e il no trivelle.
Ognuno ha, nella testimonianza civile, le sue priorità. Certamente Clemente, Fantamadi e i numerosi altri “invisibili” non hanno avuto modo di accorgersi del profilo di sinistra dei Governatori della Regione in cui hanno vissuto una breve e tribolata esistenza e sono morti.
Con il che (con il groppo in gola ed un incomprimibile incollerimento) finisco la riflessione chiedendo a me stesso e a chi mi leggerà se quanto denunciato possa appartenere all'ordine delle cose del terzo millennio e sia compatibile col più ampio contesto delle emancipazioni sociali raggiunte.