Gli agnostici sanno, meglio dei dotati dei kit e paracadute forniti dal fidei donum, apprezzare il valore della vita (dell’aldiquà). Figurarsi, quindi, se possiamo non gioire per tutte quelle esistenze che, messe a repentaglio, vengono riacciuffate!
Ciò anticipato, gioiamo, appunto, per le preservate da immane pericolo e riconsegnate (con volo di Stato, con accoglienza da cerimoniale protocollare, con cheek up presso l’ospedale militare del Celio, con assidua assistenza psicologica) Vanessa Marzullo e Greta Ramelli. Rapite in Siria il 31 luglio 2014 e rilasciate (ma senza pagamento di alcun riscatto, come, direttamente dal paese dei balocchi, assicura Pinocchio) meno di una settimana fa.
Siamo, ripetiamo ad nauseam, felici per la loro riconquistata libertà (coartata da chi avrebbero potuto trarre beneficio o forse ne ha tratto). Ma, dato quel certo alone di opacità che cresce attorno all’affair, lo siamo, con qualche se e ma.
Il caso delle ventenni lombarde ormai non costituisce caso a sé stante né prerogativa nazionale; visto che, da qualche anno si è andata, purtroppo, incardinando e sviluppando una complessa filiera di cooperanti.
Sfornata da un variegato combinato, cui concorrono le organizzazioni non governative-ong (un bacino alimentato non marginalmente da mini-lauree specialistiche delle facoltà di scienze politiche), l’associazionismo pacifista e sociale, la galassia degli ambienti religiosi, i cosiddetti, ma senza offesa, cani sciolti.
L’espressione di questo afflato umanitario, fortemente incoraggiato dell’UHCR-ONU, che in tal modo mette a posto la coscienza della “casa-madre” a costo zero, risulta variegata quanto lo è il retroterra motivazionale.
Alcune ong, responsabilmente, operano, se non proprio da embedded, in regime di accreditamento e di collegamento presso gli organismi internazionali ed i paesi di provenienza. Non raramente, invece, non pochi si recano nei punti di crisi, per dare assistenza ai (motivano gli interessati e le ong di appartenenza) disperati di mezzo mondo. Autonomamente (senza darne notizia al Ministero degli Esteri, salvo poi rivolgersi al centro di crisi); quando non in conflitto con la mission ufficiale del Paese, impegnato nel medesimo scacchiere.
Il caso incipitario fu quello, dieci anni fa, delle due Simone (Simona Torretta e Simona Pari), rapite in Iraq.
Cooperavano in quota dell’ong “Un ponte per...". Nel pomeriggio del 7 settembre 2004 si trovavano a Bagdad (volendo essere precisi, in pieno centro della capitale), quando furono costrette a seguire un manipolo di miliziani.
La circostanza suscitò un vasto slancio mediatico-popolare: le solite fiaccolate e i soliti cortei (che non si negano mai a nessuno) con l’aggiunta dell’appello del capo dello Stato Ciampi, per il rilascio degli ostaggi. Fatto che avvenne dopo 19 giorni dal sequestro. Anche in quel caso le solite fonti ufficiali (in diretta da Collodi) negarono qualsiasi pagamento di riscatto. Tranquillizzate le coscienze, si sarebbe saputo qualcosa di più (dal Sunday Times, nota testata italiana-sic!) del gentlemen agreement tra la nostra intelligence ed il rapitore-liberatore (al Qaeda): un riscatto di 4 mln di euro. E tutti contenti: le due Simone, le relative famiglie e l’ong (per il pericolo scampato e metabolizzato, ma dopo), i relativi parroci (sempre incombenti in questa casistica), il terzo settore (cui appartengono le ong), il sistema mediatico (che rimedia alti indici di ascolto), il ceto politico-istituzionale (in veste di salvatore della patria) e, dulcis in fundo, i miliziani di al Qaeda. Che, particolare quasi irrilevante, erano, in quegli anni, i competitori (militari) della coalizione occidentale, schierata su quel terreno (con una folta presenza dell’Esercito Italiano). 4 mln di euro (soprattutto, cash ed esentasse) non erano poi male: avrebbero fatto comodo per potenziare gli armamenti e per reclutare altri miliziani.
E, siccome le disgrazie non vengono una tantum, ecco servito caldo caldo, solo un anno appresso, il sequestro di Giuliana Sgrena.
Qui non si trattava di indignarsi per due sciacquette di un ong.
La rapita, infatti, apparteneva (ed appartiene tuttora, perché dopo la liberazione dal sequestro si è rituffata nella testimonianza politica: candidata trombata per le Europee del 2009 con Sinistra e Libertà; membro del coordinamento nazionale di SEL; di nuovo candidata e trombata nelle Europee del 2014 per la Lista L'Altra Europa con Tsipras) al coté della gauche au caviar.
Nonostante avesse, durante la luna di miele della riottenuta libertà, confessato di aver un padre (tenetevi forte!) socialista, i suoi approdi militanti e professionali furono sempre agli antipodi: testimonianza femminista e pacifista/arcobaleno (nel senso di antioccidentale, israelofobica e, ça va sans dire, filo palestinese) e giornalismo militante (il manifesto, dal 1988).
Ispirata dallo slancio del giornalismo militante, che, dalle zone di guerra, dà voce, presso i lettori e l’opinione pubblica occidentali, alle ragioni di chi, in Somalia ed Afghanistan, combatte l’opposto campo frequentemente islamico (ma di altra setta) e quasi sempre occidentale, la Sgrena, in omaggio a tale interpretazione della professione giornalistica, si muovva in modo non protetto (si fida di un basista/tassista indigeno, tra l’altro).
Rebus sic stantibus, il 4 febbraio 2005 avviene un sequestro rituale; ad opera della Jihad islamica a Baghdad (Iraq).
Cortei, fiaccolate, petizioni paiono non bastare. Intervengono, per la sua liberazione, un appello del capo dello stato Carlo Azeglio Ciampi e, dal letto d’agonia, una forte sollecitudine di Papa Giovanni Paolo II.
Sarebbe stata liberata, giusto giusto, un mese dopo; a seguito del solito riscatto, pagato e negato, di 5 mln di euro. Ma il malloppo non sarebbe stato sufficiente. Sarebbe occorso anche il sangue. Di un fedele servitore dello Sato, Nicola Calipari, agente del SISMI.
Curiosamente, la liberazione della giornalista da sempre testimone delle ragioni antimilitariste (è venuta a Cremona a ribadirle nello scorso ottobre), che, come viene costantemente osservato “ha orrore delle divise, ma non se servono a salvare lei “, comportò l’uccisione del cinquantaduenne stimato ufficiale italiano.
Per la cronaca, va aggiunto che un altro cooperante, Giovanni Lo Porto venne sequestrato in Pakistan tre anni fa.
Dopo di che, la striscia dei sequestri, immaginata dal terrorismo islamico per tenere sulla corda, attraverso la tensione prodotta nell’opinione pubblica occidentale dall’orrore dei sequestri e, sempre più frequentemente, dall’uccisione degli ostaggi, e, last but not least, per alimentare il finanziamento di una strategia a crescita esponenziale di destabilizzazione universale, appare inarrestabile.
Ci vanno di mezzo tanto i religiosi missionari, impegnati, come il gesuita veneto padre Paolo dall’Oglio, a mantenere accesa l’esile fiamma delle comunità cattoliche in Siria, quanto i contractors che operano per conto delle imprese italiane.
La loro è una presenza, utile all’economia nazionale e, a lungo andare, anche al progresso dei paesi in cui sono chiamati ad operare.
La loro vita ed il loro lavoro vanno protetti sia dalle imprese, di cui fanno parte, sia dallo Stato.
Si può dire altrettanto della condizione in cui decidono di operare, chiamati da multiformi quanto scombiccherati afflati, molti dei cooperanti, che non richiesti e, soprattutto, al di fuori di qualsiasi preventiva, doverosa segnalazione, si avventurano in missioni a rischio?
La vicenda delle poco più che adolescenti, che partono, incoraggiate dall’Associazione Horryaty di cui sono co-fondatrici, per portare aiuto (pare 4/5.000 euro) loro proprie mani ai derelitti siriani, non dovrebbe porre qualche problema di senso?
La vicenda, per come si è dipanata e per come arrischia di proseguire, è segnalatrice di una delle tante sgangheratezze che emergono ogni giorno di più nel sistema-paese.
Da un’attendibile ricostruzione degli ultimi giorni, da parte dei Carabinieri, i fatti si sarebbero svolti nel modo seguente.
In primavera 2014, le due giovani stanno faticosamente mettendo insieme l’intricato puzzle di un viaggio, ad altissimo tasso di pericolosità, verso zone sconvolte da attentati e bombardamenti. Il viaggio viene organizzato attraverso un contatto su facebook con una persona che avevano conosciuto nella prima trasferta in Siria. Giunte ad Aleppo, vengono ospitate nella casa del capo del consiglio rivoluzionario.
Chi le sta “aiutando”, si dice un pizzaiolo bolognese, le ha, probabilmente, anche tradite e vendute ai rapitori. Insomma, le hanno tirato una specie di “pacco” Pare, addirittura, che possano aver avuto un ruolo attivo nella resistenza anti-Assad. Qualcuno azzarda un fiancheggiamento/arruolamento tra i miliziani della jihad. Sotto questo aspetto, è stato rilevato che, nella comunicazione/promozione del progetto, le due ragazze hanno usato il logo della comunità siriana.
Al di là delle inquietanti circostanze, che aleggiano sul progetto e che dovranno essere presto o tardi chiarite, le due sedicenti cooperanti, al momento della partenza e durante la missione, hanno esposto, con la loro volontaria presenza in quel paese, loro stesse e l’intero stato italiano a una situazione di rischio coscientemente.
Per di più, se è stato pagato un riscatto, implicitamente si sono messi a rischio tutti gli italiani che vanno all’estero. Perché, i criminali sono indotti a ritenere che il sequestro per riscatto rende, con pochi rischi.
Pagando il riscatto per liberare gli ostaggi, implicitamente si alimenta la spirale di finanziamento per nuovi attacchi armati e nuovi rapimenti.
L’Italia è l’unica nazione, impegnata in missioni militari all’estero, che si comporta così sconsideratamente.
Il rigore dell’ispirazione etica e dei congrui comportamenti pratici non è nel nostro dna.
La piaga dei rapimenti (domestici) a scopo di riscatto si era estinta in forza della normativa che vieta di pagare i banditi e obbliga al blocco dei beni del rapito, dei famigliari e, a discrezione della magistratura, dei suoi amici.
La più impegnativa prova di rigore non trattativista si ebbe solo nel caso Moro.
Con l’esito sciagurato, che ben conosciamo.
Come mai, invece, per i sequestri estorsivi perpetrati all’estero lo Stato, i corpi intermedi, l’opinione pubblica sono di opposto avviso?
Quanto vale la vita di una persona? Quando è giusto salvarla e quando no?
Belle domande, se, soprattutto, non disponi di una precisa road mape, di cui sono dotati i nostri partners occidentali.
D’altro lato, basta leggere le riflessioni di Silvia Avallone del Corriere:”quello che accade in Siria ci riguarda”.
Dopo la solita tiritera sui profughi e disperati che fuggono (dopo aver pagato 6.000 euro ai passeurs), la giornalista, temendo forse di essersi poco spesa, soggiunge; “Greta e Vanessa dovevano esserne consapevoli e questa consapevolezza doveva tradursi nell’impossibilità di chiudere gli occhi, di rimanere immobili e trincerate dentro l’indifferenza. Ci si sofferma molto sulle leggerezze e sugli errori, e si sorvola sull’altruismo e sulla sofferenza di due giovani donne che dopo cinque mesi di sequestro sono tornate in Italia.”
In piena comprensione dell’irresponsabile lettura allegorica dei genitori, dei fratelli, dei parroci, dei vicini di casa; tutti sul carro della gioia per il ritorno e della noncuranza delle cause e delle conseguenze del fatto.
D’altro lato, la predica viene dall’alto.
Il ministro degli Esteri, Gentiloni, con sprezzo del ridicolo e delle evidenze fattuali pontifica:” Non è stato pagato alcun riscatto. L’Italia ha bisogno di volontari e cooperanti, del loro coraggio e della loro generosità. Vanessa e Greta hanno commesso un’imprudenza, sono andate in Siria senza avvisare le autorità. La Farnesina non sapeva nulla. Abbiamo visto altrettante imprudenze commesse da giornalisti, perfino da turisti. Vanessa e Greta fanno parte di un pezzo di giovani italiani desiderosi di fare del bene noi dobbiamo aiutarli”.
Il ministro degli esteri, che avrebbe molti importanti argomenti di cui occuparsi, forse in omaggio al detto nomen omen, ha accolto sulla scaletta dell’aereo (di Stato) i due ostaggi liberati. D’altro lato, photo-opportunity e selfie di questi tempi non si negano a nessuno. Figurarsi se si perde l’occasione, in un Paese, in cui il senso della dignità e della responsabilità è quasi completamente scemato, di incassare il dividendo mediatico, rappresentato dal “successo” dell’operazione di salvataggio. In altri paesi civili, un siffatto comportamento istituzionale, ove realmente registrato, costituirebbe giusta causa di rimozione dall’incarico pubblico. D’altro lato, qualche anno addietro, il ministro Diliberto, titolare della giustizia (e, orgogliosamente, della scrivania occupata da Togliatti mezzo secolo prima), era andato a Ciampino ad accogliere festosamente, con la vettura di Stato, non già un ostaggio rilasciato, ma un carcerato (per reati eversivi) instradato dagli Stati Uniti per completamento pena nelle carceri italiane. Per la cronaca, l’ammalatissima Silvia Baraldini, condannata a una pena cumulativa di 43 anni di carcere negli Stati Uniti per concorso in evasione, associazione sovversiva, due tentate rapine e ingiuria al tribunale, diventata un totem della sinistra (Guccini le dedicò una canzone), divenne beneficiaria dell’estradizione a scopo umanitario per gravi ragioni di salute. L’estradizione, secondo alcuni sarebbe stata la contropartita per l'appoggio alla guerra degli USA in Kosovo, secondo altri una compensazione per l’incidente del Cermis.
Sempre per la cronaca, il fine-pena per l’estradata, dopo alcuni anni di arresti domiciliari, è scoccato per indulto sette anni dopo il rientro in patria.
Ulteriore chiosa della vicenda. Il governo italiano, che si è opposto al ricatto dei sequestratori jahadisti, ha scucito, pare, 10 mln di euro. Corrispondono, euro più euro meno, alla ventesima parte del gettito della manovra di spending revew, che ha cancellato le Province (20.000 dipendenti a spasso).
Sic transit gloria mundi.
PS: le due ragazzotte non hanno ancora deciso definitivamente se ripartire per un’altra missione (come numerosi irresponsabili, come o più di loro, suggerirebbero).
E.V.