Ma l'evento svoltosi allo Stadio Zini a metà pomeriggio di martedì 16 è di quelli che purtroppo la contemporaneità riserva sempre più raramente. Nonostante, si ripete, si sia svolto in una location che di solito dispensa, extra calcisticamente parlando, solo disincanto ed amarezza. E ci fermiamo qui, perché non appaiono necessarie ulteriori precisazioni.
Ebbene, l'iniziativa, con cui il Panathlon, con il patrocinio e la fattiva collaborazione del Comune di Cremona, ha voluto festeggiare i suoi primi sessant'anni di apprezzata attività, è di quelle che lasciano un segno fecondo nella memoria civile di una comunità.
Un'iniziativa che non è stata a cavallo tra sport ed, appunto, memoria civile; ma che ha saputo miscelare entrambi con l'aggiunta di altri ingredienti: la musica, la filantropia, il faire-play sportivo.
Il pretesto, si fa ovviamente per dire, di tutto questo era costituito dallo scoprimento della targa dedicata, nel 70° anniversario della Liberazione, al sacrificio di Vittorio Staccione. La cui vicenda umana e sportiva è stata sapientemente tracciata dal contributo introduttivo alla cerimonia (che pubblichiamo, come merita, integralmente) da Pierluigi Torresani. Che, oltre ad essere stato uno degli artefici dell'organizzazione, ha condotto con sapienza e sensibilità l'intero evento.
Nonostante, come abbiamo anticipato e ripetiamo, lo pubblichiamo integralmente, non possiamo esimerci dall'obbligo di inquadrare sia pure sinteticamente la figura del calciatore grigio-rosso destinatario di così appassionata rievocazione e di tanto onore.
I caratteri impressi sul marmo, sormontati dal bronzo realizzato dal prof. Mario Coppetti, recano questa epigrafe: “A Vittorio Staccione, giocatore grigio-rosso nella stagione 1924-25, morto a Gusen-Mauthausen il 16 marzo 1945, simbolo dello sport come impegno sociale, civile e politico, lottò sui campi della vita per la libertà e la fratellanza degli uomini”.
Come hanno ricordato i bravi cronisti sportivi Giorgio Barbieri de La Provincia e Daniele Redaelli della Gazzetta dello Sport ed il rappresentante della Fiorentina Massimo Cecchi, Staccione, considerando il tempo in cui calcò il rettangolo verde, ebbe una carriera calcistica né breve né irrilevante. Che avrebbe anche potuto approdare a ben più appaganti traguardi, se non si fosse messa di mezzo la tragedia famigliare della morte della figlia neonata e della giovanissima consorte.
In ogni caso, costretto dalle conseguenze del dramma personale ad un prematuro epilogo dell'attività professionistica, non si arricchì. E, quando scriviamo ciò, ci è difficile reprimere il rimando ai “fasti” (si fa ovviamente per dire) di quel calcio professionistico contemporaneo che proprio da Cremona ha dato la stura all'inesauribili vicende processuali, di rilevanza nazionale ed internazionale, del calcio-scommesse.
Ecco, Vittorio era fatto di un'altra pasta. Chiuso con il calcio, che, come per molti ventenni approcciati in quell'inizio di XX secolo alla tanto affascinante disciplina sportiva nata nell'isola britannica, era stato il perno della sua giovane vita, sarebbe tornato da dove era provenuto: in fabbrica.
E, siccome certe esistenze non sono strutturate a compartimenti stagni, il percorso dagli inizi popolari, al calcio professionistico e da qui al lavoro operaio sarebbe approdato alla militanza antifascista. Che l'avrebbe condotto a morire, insieme col giovane fratello, nel lager di Gusen-Mauthausen, a poche settimane dalla fine del conflitto.
Se questo, tragico ma didascalico, tragitto esistenziale non fosse vero, la sua narrazione richiederebbe un notevole sforzo immaginativo. Se si considera che quella giovane e sfortunata esistenza tiene tutto: la passione sportiva, l'amore per la giovane moglie e per l'aspettativa della primogenita, il dolore lacerante della loro prematura scomparsa, l'accettazione di un ascensore sociale in discesa dal successo calcistico, la testimonianza civile di un amore più grande, per la libertà, fino al sacrifico della vita.
In una temperie in cui tutto è diventato liquido, a principiare dai valori e dai principi, il fatto stesso di rievocare, sia pure nello stimolo del settantesimo anniversario della Liberazione, una così ricca personalità costituirebbe una prova rimarchevole di identificazione e di coesione civile.
Ma la si è voluta narrare, mettendo in campo talenti pluridisciplinari, senso di appartenenza comunitaria (il contributo del Sindaco in carica Prof. Galimberti e l'intervento del suo predecessore, Prof. Perri, recentemente investito di un importante incarico nel CONI, vorranno pur dire qualcosa!), grandi afflati di generosità.
Cominciamo da questi. In cima ai quali non possiamo non mettere quella dimostrata dal Prof. Mario Coppetti, che non solo ha segnalato la figura di Staccione (che, da adolescente, conobbe nello stadio che non si chiamava ancora Zini), ma ha realizzato e donato l'opera artistica commemorativa.
Ma vogliamo anche parlare dell'attaccamento alla memoria civile ed al patrimonio artistico di Cremona dell'ing. Carlo Alberto Carutti, che ha donato, tra l'altro, al Museo di Cremona, il violino della Shoa. Appartenuto ad Eva Maria Levi, un'altra giovane esistenza stroncata nel lager per eccellenza dalla follia umana.
La performance del violino della Shoa, suonato con talento e sentimento dalla violinista Barbara Broz accompagnata dal pianista Stefano Chiozzi, meriterebbe da sola, per il significato spirituale e per la commozione suscitata, un evento a sé.
La stessa narrazione delle vicende dello strumento, che rimandiamo alla brochure edita dal Museo e da Cremona Liutaria (di cui pubblichiamo in allegato una sintesi digitalizzata), non poteva che stabilire un forte parallelismo tra le sfortunate vite del calciatore e dell'ebrea deportata ad Auschwitz.
Fatto che ha dato ancor più pathos allo svolgimento della cerimonia.
Sotto questo profilo sentiamo il dovere di ricordare un altro protagonista delle vicende sportive ed umane di quella tragica temperie, l'allenatore Arpad Weiz. Che abbiamo ricordato sull'Eco del Popolo qualche settimana addietro. Weiz, ungherese di origini ebree, iniziò come promettente calciatore di livello internazionale (Ungheria, Cecoslovacchia, Italia e Uruguay).
Passato ai ranghi tecnici, avrebbe allenato club di A e di B del campionato italiano; fra cui l'Ambrosiana (poi Internazionale), con cui conquistò lo scudetto nella stagione 1929-1930.
Il suo destino avrebbe preso, a seguito delle vicende politiche mondiali, una piega ben diversa dalle premesse. Weiz fu costretto ad abbandonare la carriera sportiva ed iniziare il tragico calvario percorso, con la moglie Elena, anche lei ebrea ungherese, ed i figli Roberto e Clara, per riparare nei paesi non ancora soggiogati dal nazi-fascismo.
Ma non avrebbero avuto scampo. Perché, riparata in Olanda, in breve occupata dai tedeschi, la famiglia Weiz, prima fu rinchiusa in campi di lavoro e poi, nel 1944, deportata nel campo di sterminio di Birkenau. Destinata, nel volgere di qualche giorno, alle camere a gas.
Ci avviamo alla conclusione della cronaca di un evento rievocativo di militanze calcistiche ma, anche e soprattutto, di destini. Resi tragici, da un lato, dalla follia sanguinaria di certi protagonisti della storia, ma anche dall'esempio civile di coerenza e di determinazione.
Per dire di che tempra erano fatti certi protagonisti della vita calcistica (diciamo certi, perché molti altri, in quei e in successivi contesti, praticarono l'interessato conformismo), riveliamo una postilla, forse non sufficientemente, afferrata dai partecipanti, di Mario Coppetti.
Il sempre più stimato ed amato scultore/ memoria storica di Cremona, ha rivelato un aneddoto edificante, trasmessogli da un'altra gloria calcistica cremonese, Pasquale Vivolo.
Dopo l'esperienza nel campionato di B con la Cremonese, il celebre centroavanti, adottato dalla capitale del Po, sarebbe approdato al grande calcio bianconero.
Lì avrebbe incontrato György Sárosi, un personaggio del calcio europeo, nel frattempo passato alla guida tecnica della Juventus.
Al culmine del successo, ha raccontato Coppetti, il giovane Vivolo, fruendo di una pausa tra incontri ed allenamenti, fu accompagnato al civico cimitero di Torino dall'allenatore ungherese. Che con quella inattesa visita volle ricordare al talento sportivo che anche le esistenze fatte di fama, successo e guadagni prima o poi si concludono, per tutti, al campo-santo.
In allegato:
-IN MEMORIA DI VITTORIO STACCIONE Intervento di Pierluigi Torresani – Stadio Zini - 16 Giugno 2015
-Il Violino della Shoah