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Compleanni appaiati

Di Claudio Martelli e Mauro Del Bue

  28/12/2021

Di Redazione

Compleanni+appaiati

Già, anche se distanziati di pochi giorni e riferiti ad una diversa fascia anagrafica. Ci riferiamo, come è facile evincere da un'attenta osservazione delle due prime pagine appaiate, agli esordi delle due testate socialiste. L'Eco del Popolo, uscito a Cremona il 4-5 gennaio 1889, e l'Avanti! a Roma il 26 dicembre 1896. In comune i due giornali hanno avuto lo stesso riferimento idealistico e lo stesso direttore-fondatore, Leonida Bissolati. 

Si può azzardare, ma non tanto, che il giornale socialista cremonese sia stato un po' il fratello maggiore dell'informazione del Partito che avrebbe visto la luce tre anni dopo a Genova. 

Nella fattispecie dei tempi attuali si evidenziano due comuni opzioni storico-editoriali. 

L'Avanti! (di Milano) tornato nelle edicole e nella dissuasione per abbonamento ha scelto di “festeggiare”, inserendo nell'ultima edizione del 2021 la copia anastatica del primo numero. 

Noi col nostro Eco, avevamo fatto la stessa cosa nel 1989 in occasione del primo centenario. 

Esaurita la premessa, che vuole essere di richiamo storico ma anche di buon auspicio (per ancora una lunga vita della stampa socialista), presentiamo su questa rubrica (a quanto sembra molto apprezzata dai lettori socialisti) i “pezzi forti” delle contestuali edizioni dell'Avanti di Milano e dell'Avantionline. 

Su quest'ultimo appare un apprezzabilissimo editoriale del suo Direttore Mauro Del Bue, intitolato ”125 anni e non li dimostra”, dedicato, oltre che una riuscitissima rievocazione della lunga storia del giornale del PSI, ad una riuscita attualizzazione della sua mission. 

Qualche settimana addietro, avevamo severamente rampognato la circostanza della riemersione delle malmostosità dei due gruppi editoriali. Che, avendo alle spalle una comune origine ed in fronte una comune testata, farebbero bene a tener conto del sentiment non esattamente benevolo della base. 

Una base che (ci riferiamo alla nostra), se non altro percependo la sovrapponibilità delle due “offerte”, non può non auspicare il ritorno di impulsi di armonizzazione e convergenza. 

Come i nostri lettori (che invitiamo comunque ad abbonarsi all'Avanti di Milano e a leggere le edizioni online in capo al PSI) facilmente percepiranno i contenuti delle due contestuali uscite costituiscono “merce pregiata”. Sia per il forte richiamo idealistico sia il forte tasso di progettualità di un'analisi e di una proposta che ne fanno (specie l'editoriale di Martelli) una accreditata base di partenza per il rilancio del socialismo italiano. 

Per il rinnovamento naturalista e liberale della Socialdemocrazia

Sentiamo l'urgenza di una politica all'altezza dei tempi, delle opportunità e delle sfide che vorremmo cogliere, ma anche l'incombere di minacce sul nostro destino. L'uomo è per natura un animale politico e un animale razionale. È all'apice della categoria dei predatori, in quanto essere sociale vive coi suoi simili in pace o in guerra, in quanto essere razionale impara a calcolare i propri interessi a cominciare da quello alla sopravvivenza dunque anche a calcolare i vantaggi della convivenza. Da qui bisogna ripartire: dalla natura umana immersa in un mondo sempre più plasmato da noi ma pur sempre creato dalla natura che tutto abbraccia e nella quale soltanto è possibile la vita. La natura umana non è né divina né bestiale, né schiava né individualista: la natura umana è aggressiva, socievole e ragionevole, spirituale e mortale. Ben diversa per complessità, evoluzione, creatività eppure non totalmente altra da quella di tutti gli esseri viventi e senzienti che come gli animali e come le piante, si associano, crescono e si difendono uniti, intrecciando le radici e facendosi scudo gli uni con gli altri. Custodire la vita dell'umanità e quella della natura, migliorandola dove possibile e proteggendola da ciò che la minaccia è questa, oggi, la principale, prioritaria missione della politica. Le cose sono arrivate a questo punto perché, volontariamente o involontariamente, non pochi strumenti che abbiamo forgiato e che ci hanno fatto progredire piegati dalla volontà di potenza e di profitto elevata a fine ultimo ci si sono rivoltati contro. Ora la missione della politica non è più solo quella di fermare l'urto tra le nazioni e le guerre tra gli umani, le diseguaglianze laceranti, le ingiustizie e la deriva autoritaria che in troppe parti del mondo continua a fare delle libere democrazie non la regola ma l'eccezione. La fondamentale posta in gioco dei prossimi decenni è fermare il surriscaldamento del clima e le sue conseguenze: l'aumento della temperatura, lo scioglimento dei ghiacciai, l'innalzamento del livello degli oceani e dei mari che erode le coste e senza interventi risoluti, unanimi e costanti presto sommergerà città, isole e arcipelaghi. È il cambiamento climatico che impone la transizione ecologica dalle energie fossili altamente inquinante a quelle più moderne e pulite siano esse rinnovabili, elettriche, all'idrogeno. Nella dimensione urbana lo smaltimento dei rifiuti esige un impegno su vasta scala di educazione a consumi sostenibili per quantità e qualità, sia per tutelare la nostra salute sia fermare lo sfruttamento intensivo della terra, l'avvelenamento dell'acqua e dell'aria da cui traiamo vita e in cui viviamo. Allo smaltimento dei rifiuti provvederà un'economia sempre più capace di trarre energia da fonti di calore non inquinanti, dunque un'economia circolare. Per cambiare verso alla volontà di potenza che ci ha condotto a questo punto occorrono tutta la lungimiranza, tutto l'amore e tutta l'astuzia della ragione umana; occorre la forza di un'unione politica religiosa, un internazionalismo capace di elevare la coscienza individuale a visione globale, a azioni comuni e condivisa per condizionare le decisioni degli Stati ciascuno dall' interno e tutti internazionalmente. Una formidabile unità di intenti più forte della globalizzazione economica deve rendere la globalizzazione della sopravvivenza l'imperativo categorico del nostro tempo. I governi, i movimenti, i partiti ispirati all'umanesimo cristiano, liberale e socialista più di un secolo fa, pur divisi e rivali più di oggi, portarono le masse alla partecipazione politica trasformando le autocrazie prima in sistemi liberali oligarchici poi in democrazie di massa; gli stessi Stati, i partiti e le stesse radicate tradizioni culturali che dopo la seconda guerra mondiale seppero costruire la Comunità e poi l'Unione Europea oggi, di fronte ai rischi di nuovi conflitti di potenza, di fronte alle pandemie e agli allarmi ecologici, devono rinnovare un progetto umano capace di utilizzare la rivoluzione digitale per incrementare l'educazione e la formazione del capitale umano antidoto e alternativa alla contrazione del mondo del lavoro; per estendere anziché comprimere le libertà e i diritti civili e sociali mettendo a frutto e aggiornando i patrimoni di solidarietà e i principi di sussidiarietà che loro appartengono. Il socialismo adeguato al XXI° secolo è quello che allea socialismo, democrazia e liberalismo in un progetto umano a difesa della vita. Vogliamo associare la promozione delle libertà individuali e la democrazia politica con l'impegno a favore di una crescita sostenibile, della pace nella giustizia, di un'equa redistribuzione della ricchezza, della fruizione condivisa delle risorse collettive, della difesa della salute, del lavoro e di un'istruzione di qualità per tutti. Nei ‘gloriosi trent'annì (1945-1979) mentre a est si preannunciava la sconfitta storica del modello comunista, nell'Europa occidentale il compromesso tra socialdemocrazia sociale della storia. Alla fine dei trenta gloriosi il compromesso socialdemocratico è andato a sbattere contro insuperabili limiti fiscali e monetari: troppa spesa, troppi debiti troppa inflazione. La restaurazione liberista comincia allora, innescata dal mondo anglosassone che ha imposto ovunque un modello di capitalismo aggressivo che, bisogna riconoscerlo, ha pur indotto la crescita economica di interi continenti, l'integrazione di diverse aree del mondo nell'ordine - e nel disordine - del capitalismo mondiale. Parziali ma non trascurabili sono stati i tentativi di temperare la marcia del turbo capitalismo, negli anni ottanta guidato dal socialismo mediterraneo di Mitterand, Craxi, Gonzales e Soares negli anni novanta e duemila, dalla ' terza via' di Blair e di Schroeder. Negli ultimi venti anni, la globalizzazione ha accelerato la sua marcia, effetto non di una serie di atti involontari, ma risultato – favorito e potenziato dai progressi tecnologici, segnatamente quelli dell'informatizzazione della finanza – di scelte compiute da nazioni, organismi sovranazionali, conglomerati economici e finanziari impegnati a liberalizzare i movimenti di capitale, a deregolamentare il mercato del lavoro, a ridurre le prestazioni dello Stato sociale. Nell'insieme ciò ha molto arricchito alcuni e impoverito moltissimi altri. Non solo: in Occidente si è imposto un nuovo paradigma culturale: l'iper individualismo, l'egocentrismo, l'ossessione per i diritti dei singoli anche a detrimento della coesione e della solidarietà. Ne sono derivate la frammentazione e la secessione delle comunità, la sfiducia e il rifiuto di ogni ideale connettivo. Negli anni in cui “cresceva” la globalizzazione, la politica non ha reagito agli universali economici fuori controllo attraverso la proposta di universali etico-politici rispondendo a un progetto umano. Ora il tempo è venuto di una politica meglio ispirata a un'esigenza di giustizia e di responsabilità sociale: riportare sotto controllo una forma di globalizzazione che ha fatto crescere in modo abnorme la ricchezza finanziaria e le disuguaglianze penalizzando le classi medie e più povere dei cittadini dei paesi sviluppati ma anche la parte più debole della popolazione mondiale che in Africa, in Asia, nell'America centrale e meridionale ha pagato il prezzo del decollo. Alla globalizzazione dell'economia doveva - e deve - corrispondere la globalizzazione dei diritti civili e sociali e ciò sarà possibile solo se un nuovo internazionalismo democratico e un nuovo cosmopolitismo sociale e civile influenzeranno e prenderanno per mano Governi e Stati. La prospettiva d'avvenire è quella che mira a rafforzare e sviluppare le istituzioni democratiche ai livelli regionali e globali non per ridimensionare le capacità d'azione dei singoli Stati, ma per favorire nuove possibilità e modalità di mutuo sostegno tra i popoli e di accesso diffuso alla partecipazione dei cittadini. La prima questione da affrontare in un'epoca cosmopolita è l'incombere del surriscaldamento climatico che rappresenta per l'umanità una minaccia mortale. Le iniziative che possono essere intraprese da individui, aziende e governi sono numerose, ma per essere efficaci devono essere elevate e concertate a livello globale. Quando si tratta del clima, l'isolazionismo nazionale può servire a poco. Non a caso è stato l'Onu a proporre gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, noi anche come Agenda 2030, che fissano una serie di 17 obiettivi sistemici. Una seconda questione di portata globale investe la rivoluzione digitale. Le piattaforme tecnologiche incidono sulla democrazia senza dover tenere in considerazione problemi di affidabilità. Gli algoritmi che elaborano i Big Data potrebbero favorire dittature digitali in grado di concentrare tutto il potere nelle mani di poche élite: chi controlla i dati e le principali piattaforme acquisisce un potere senza precedenti. Ma si pensi anche ai rischi degli impieghi politici dell'intelligenza artificiale e del demandare l'elaborazione delle politiche a strutture algoritmiche tecnocratiche e non democratiche. Anche per questo occorre aggiornare l'agenda antitrust e discutere l'idea che l'ecosistema digitale – chiunque lo agisca - sia regolato proprio come una utility, un servizio pubblico essenziale chiamato a rispondere del suo operato. Un terzo problema di cooperazione internazionale è quello dell'emigrazione: speranza e tragedia dell'umanità derelitta dei paesi in via di sviluppo che i paesi prosperi vivono come immigrazione ad un tempo bisogno economico e demografico e fattore di ansia che alimenta pulsioni xenofobe. Ora, nessuno Stato può sopravvivere senza controllare i propri confini. La democrazia ha bisogno di un demos chiaramente delimitato al fine di prendere decisioni, perché occorre sapere chi è responsabile e nei confronti di chi. Per questo è necessario non respingere o accogliere a priori ma decidere quale e quanta immigrazione è conveniente e gestibile. I flussi migratori si possono ridurre creando sviluppo nei paesi di provenienza e si possono governare riaprendo canali di immigrazione regolari. L'Unione Europea deve assumere la responsabilità generale di organizzare le migrazioni tenendo conto dei bisogni propri e di quelli degli stati donatori di manodopera. La corsa di una globalizzazione senza regole – ricordiamo la crisi finanziaria del 2007/2008 - ha trovato vecchi e nuovi ostacoli nel risorgere dei protezionismi, nella nuova invalicabile frontiera della minaccia alla sostenibilità ecologica dunque alla vita e da due anni di un'emergenza pandemica che può protrarsi e replicarsi dopo aver già lasciato sul terreno più di 5 milioni di morti. Ma guai a trascurare la dimensione politica internazionale. La socialdemocrazia europea non può essere muta, inerte, divisa di fronte al risorgente conflitto economico e geopolitico tra le grandi potenze. USA, Cina, Russia animano tensioni alle nostre porte, la Brexit, la crescente divaricazione coi paesi di Visegrad, l'emergere di nuovi attori regionali ai confini meridionali e medio orientali rischiano di condannare un'Europa debole e disarmata a un ruolo ininfluente o subalterno. Anche per questo l'Unione Europea deve essere riprogettata nella prospettiva che si è data: il Next-EU, delle nuove generazioni europee. L'idea ispiratrice è quella di “Una Giovane Europa potenza politica federata” fondata sulla difesa e la sicurezza comuni (un esercito europeo integrato con la NATO) e sulla condivisione della cittadinanza. La difesa comune non è solo questione di armi: senza un rilancio ideale dell'idea originaria che era e deve tornare ad essere quella di una comunità condivisa dai cittadini l'idea europea non progredisce verso nessun traguardo. Confini, diritti e doveri comuni esigono un impegno sistematico al superamento delle barriere linguistiche e culturali tramite percorsi di istruzione, formazione professionale, universitaria e di ricerca fondati sull'integrazione e su scambi generalizzati frequenti e durevoli di studenti di ogni classe alloggiati presso le famiglie e nei campus. Anche la difesa e la sicurezza comuni saranno meglio fondate a partire da leve di servizio civile e militare assolte in diversi stati. La transizione digitale del continente è un'occasione ma anche un rischio se guidata dai soli imperativi economico-sistemici e se divisa in una frammentazione priva di regole. O l'UE sarà capace di dare forma e norme al globalismo, o sarà il globalismo a farlo, sopra di noi e senza democrazia. L'Europa del metodo intergovernativo è stanca e obsoleta. Bisogna muovere verso un'Europa guidata dal federalismo nella sua interpretazione originaria, quella di Colorni e Spinelli, contraria ai nazionalismi ma anche al super stato europeo fecondo di regole burocratiche ma inane a mantenere la promessa di far contare l'Europa nel mondo globale. Quel che occorre è una distinzione chiara tra ciò che spetta all'Unione e ciò che spetta alle singole nazioni: una dimensione e un governo sovranazionale europeo eletto dal Parlamento per le questioni essenziali di sicurezza, politica estera e di difesa, per le innovazioni tecnologiche ed economiche d'avvenire – per esempio una piattaforma digitale europea in grado di competere con i giganti americani e asiatici – quasi tutto il resto è bene sia appannaggio delle nazioni. La centralità degli Stati-Nazione è lo spazio della democrazia dei moderni. Alle aperture talvolta azzardate prodotte dai flussi economici molti reagiscono in nome di nuovi localismi o di vecchi sovranismi. Non sottovalutiamo soprattutto nelle generazioni più anziane l'ansia di protezione anche identitaria indotta dalla globalizzazione e dall'omologazione. Ma la democrazia, per quanto debba continuare ad avere un radicamento nazionale, non può non prevedere un orizzonte a livello multiplo e deve essere aperta e integrata su spazi più vasti e articolati – primo fra tutti l'Europa. Essa consiste nell'impegno a sviluppare lo spazio politico in cui l'umanità cerca di vivere un'esistenza in cui i diritti fondamentali del liberalismo e del socialismo democratico – Stato di diritto e Stato sociale - possano essere realizzati in modo non contraddittorio approdando a forme di vita sociale in cui la libertà individuale aumenta ma nella responsabilità e nella solidarietà. Le diseguaglianze di ricchezza, cresciute senza sosta nei paesi sviluppati a partire dalla fine degli anni '80, hanno umiliato ampie fasce di popolazione alimentando rabbia e frustrazione. Spetta allo Stato o meglio all'intera sfera pubblica comprensiva della dimensione cooperativa, del volontariato e dell'impresa sociale di ridistribuire la ricchezza investendo in servizi sociali per colmare o risarcire le disparità delle situazioni di partenza. Un esempio su tutti: l'istruzione è fondamentale fattore di uguaglianza di opportunità e il suo valore è decisivo nell'attuale economia della conoscenza, che va ripensata nell'orizzonte di un welfare creatore di un'infrastruttura, non solo materiale, di beni pubblici al servizio di tutti i cittadini. Il socialismo democratico e liberale è civiltà del lavoro e vive nel rapporto con la sua continua evoluzione. La debolezza della sinistra in Italia è nella rarefazione dei suoi rapporti con il mondo del lavoro: l'autonomia sindacale prezzo pagato all'unita delle confederazioni ha cancellato la loro rappresentanza politica. Abolito il legame socialdemocratico tra partito e sindacati dei lavoratori entrambi si sono indeboliti: i sindacati non hanno garanzie di approdo quando le loro rivendicazioni hanno portata generale e non possono influenzare i loro iscritti che attratti dalle parole d'ordine anti-immigrati e anti globalizzazione votano a destra. Quel rapporto va ricostruito e per farlo non basta concentrare l'attenzione sulle disuguaglianze una volta che queste si sono prodotte e guardare soltanto alla redistribuzione. Il contributo delle correnti di socialismo liberale che rinnovandola rafforzano la socialdemocrazia è quello di chi considera essenziale, decisivo il ruolo delle imprese – grandi, medie, piccole dell'industria, del commercio, dei servizi, delle professioni - al benessere e alla crescita collettiva. Proprio in quest'ottica cooperativa e non antagonista pensiamo necessario intervenire nei luoghi in cui le disuguaglianze si creano, e cioè nel processo produttivo. Non solo al livello della produzione materiale, ma anche di quella immateriale va riequilibrato il potere del lavoro rispetto a chi dispone in modo unilaterale, oltre che del potere, anche delle conoscenze. Se, come recita l'art. 1 della Costituzione, “l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, è perché il lavoro è costitutivo della soggettività e della dimensione pubblica, quindi della politica. Si tratta, per un verso, di restituire la dignità e l'autonomia del lavoro garantendo l'efficacia erga omnes dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali “rappresentative”. Va stabilita una soglia minima legale per il salario orario di ogni lavoratore, vanno rafforzate le capacità ispettive di chi deve impedire il ripetersi quotidiano delle “morti bianche” chiarendo in premessa chi è responsabile della sicurezza aziendale e perciò istituendo presso le procure uffici specializzati e stabilendo sanzioni severe per gli inadempienti. Non basta: anche in Italia vanno innestate le esperienze più avanzate di partecipazione proprie della socialdemocrazia scandinava e tedesca (Mit-Bestimmung) superando le resistenze padronali e anche quelle del sindacalismo avvinto all'antagonismo classista. Il fine deve essere quello di condividere con i lavoratori le responsabilità di gestione non solo quelle direttamente produttive ma anche quelle del welfare aziendale. Il grande insegnamento della civiltà moderna è che lavoro e libertà, società e politica sono aspetti diversi di una sola realtà. Per questo l'esclusione o la marginalizzazione delle donne e dei giovani dal mondo del lavoro si riverbera a cascata e perpetua la loro subalternità anche in molti altri ambiti della vita. Un'istruzione di qualità, il lavoro e un welfare moderno consentono alle donne e ai giovani di organizzare autonomamente la loro vita e di partecipare pienamente alla vita sociale. Viceversa, l'inoccupazione giovanile e femminile, la discriminazione e la disparità nel lavoro e nei salari tra uomini e donne, tra giovani e adulti non solo sono ingiuste e innaturali per chi le subisce ma danneggiano l'intera società frenando la crescita economica, il riequilibrio demografico e la stessa rivoluzione digitale che come in tutto il mondo solo le nuove generazioni sanno interpretare e padroneggiare. Porteremo queste nostre idee all'Assemblea dei circoli dell'Avanti! e nel dibattito pubblico senza altre frontiere se non quelle che derivano dai nostri principi umanitari: dunque no al razzismo, no al populismo, no al sovranismo sia declinato come nazionalismo sia come ' primatismo ' – dell'uomo sulla donna, dei bianchi su altre etnie e culture no anche a chi pretende ciò che è impossibile a Dio: cancellare il passato e la storia. Con l'Avanti! i suoi circoli, i suoi amici parleremo a chi vuol parlare con noi, a cominciare da tutti i socialisti di oggi e di una volta, siano essi nel Psi o abbiano condotto esperienze diverse o militino in altre formazioni amiche o alleate come i radicali, i verdi, Azione, il PD con il quale condividiamo l'appartenenza ai Socialisti e Democratici europei, i liberaldemocratici laici e cattolici. Guardando - e talora partecipando – alle iniziative di chi immagina di unire i riformisti abbiamo posto la domanda: unirci per fare che cosa? Da Azione, da Più Europa, da interlocutori del PD e di Forza Italia abbiamo avuto risposte nel merito delle questioni sollevate che suggeriscono di continuare il dialogo. Non così da chi confonde il riformismo con un centrismo trasformistico intenzionato a lucrare su un'ipoteca utilità marginale buona solo per carriere personali. Siamo alla vigilia di cruciali impegni costituzionali e di nuove iniziative di governo. Spenderemo le nostre parole per l'elezione di un o una Presidente della Repubblica non di parte, garante dell'Unità Nazionale come impone la Costituzione e dotato o dotata dell'autorevolezza necessaria. Ci preoccupa la possibilità che si interrompa il ciclo positivo inaugurato dal governo Draghi e nell'esclusivo interesse della Nazione vorremmo durasse fino al termine della legislatura.  

Claudio Martelli  

con Stefano Carluccio e Luca Taddio  

125 anni e non li dimostra  

Mauro Del Bue 20-25 Dicembre 2021 L'editoriale  

Il 25 dicembre di quest'anno l'Avanti compie 125 anni. La festa sul Tevere della settimana scorsa ha inteso celebrare l'avvenimento, con dibattiti storici e politici svolti in una due giorni trascorsa a quel circolo nautico che vide Bissolati tra i suoi dirigenti. L'Avantionline, unico quotidiano che ne ha ripreso il messaggio, intende dedicare all'anniversario più di un editoriale. Il primo verte sulla stampa socialista che precedette l'uscita natalizia del quotidiano del partito, nonché sul clima politico nel quale il primo numero dell'Avanti, diretto da Leonida Bissolati, si trovò a nascere. Diciamo innanzitutto che l'Avanti non fu il primo quotidiano socialista. Nella mia provincia, Reggio Emilia, dove già dal 1880 si erano susseguite le pubblicazioni di tre periodici d'ispirazione socialista, “Lo Scamiciato, voce del popolo”, “Reggio nova, organo della società cooperativa” e poi dal 1886 “La Giustizia”, grazie all'attività e alla cultura di Camillo Prampolini e dei suoi collaboratori, era stato pubblicato nel 1893 il primo quotidiano socialista, da titolo “Il punto nero”, che intendeva riprendere provocatoriamente l'affermazione del pedagogo del giovane presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, poi coinvolto nello scandalo della Banca romana nel 1891 e costretto alle dimissioni. Si trattava di Giovanni Chavez che aveva definito la Val Padana il punto nero dell'Italia giolittiana. Come capiterà ancora, pensiamo all'articolo di Bissolati sul primo numero dell'Avanti e cioè “Di qui si passa”, si riprendevano spesso le accuse degli avversari o per coniugarli con la risposta ironica o per distoglierli dal loro significato. Bissolati si riferiva infatti al “Di qui non si passa”, pronunciato da Antonio Starabba di Rudinì, primo ministro dopo l'avventura crispina. La repressione crispina non fu l'ultima causa della breve parentesi de “Il punto nero” che uscì il primo gennaio 1994 e visse solo fino al 15 aprile dello stesso anno. Tre giorni dopo la prima uscita del quotidiano, infatti, il governo Crispi aveva decretato lo stato di emergenza in Sicilia e poco dopo sciolto i Fasci siciliani e arrestato i suoi dirigenti. La politica repressiva crispina si estenderà poi, a partire dall'estate del 1894 (ma il giornale aveva già cessato le sue attività), a seguito di un attentato subito dallo stesso Crispi a Roma il 16 giugno, a una sorta di stato d'assedio nazionale con la chiusura dei giornali anarchici e socialisti, lo smantellamento delle sedi socialiste e l'arresto di diversi suoi leader. Il Psi fu anche costretto a svolgere il suo congresso, il terzo dopo quello di Genova e di Reggio Emilia, a Parma nella sola giornata del 13 gennaio del 1895 in una situazione di semi clandestinità. La seconda motivazione del breve tragitto de “Il punto nero” fu la scarsità dei mezzi economici. Antonio Vergnanini, che poi sarà il massimo dirigente nazionale della Lega delle cooperative, e che coltiverà sempre un'innata passione per il teatro e per il giornalismo, non aveva spalle sufficientemente larghe per sobbarcarsi le spese di un quotidiano nazionale, da diffondere in tutta Italia. Anche perché, e qui sta il terzo motivo, non tutti i socialisti italiani, che solo un anno e mezzo prima a Genova avevano fondato il loro partito dotandosi solo di un settimanale ufficiale, e cioè “La lotta di classe”, erano disponibili a considerare il giornale reggiano come organo del partito nazionale. Anzi, la diffidenza, in particolare dei milanesi che ritenevano che un quotidiano socialista dovesse essere redatto e stampato in una grande città, fece la differenza. Vero che già esisteva in Romagna il periodico Avanti di Andrea Costa, che aveva ripreso il titolo del giornale del Partito socialdemocratico tedesco, e cioè Vorwärt, che a Milano dal 1891 era stata data alla luce da Turati e Kuliscioff “La critica sociale”, che pullulavano settimanali e mensili socialisti di carattere provinciale, ma fino al dicembre del 1896 mancava un quotidiano. Così si arrivò alla pubblicazione dell'Avanti con sede a Roma. La data di uscita non fu casuale. Il Natale non era solo una ricorrenza cattolica, ma un omaggio al cristianesimo da parte del mondo socialista. Anzi l'identificazione di Gesù come del primo socialista, che aveva fatto proseliti importanti soprattutto nella pianura padana, era un approccio importante e significativo del messaggio socialista. Non a caso di spalla in prima figurava proprio un pezzo intitolato “Santo Natale”, che metteva in contrasto il messaggio cristiano con il comportamento della Chiesa del tempo. Cristianesimo e anticlericalismo potevano così andare a braccetto. L'Avanti uscì e le notizie diffuse parlano di file di socialisti alle edicole di mezza Italia fino dalle prime luci dell'alba. Il Natale, nascita di Gesù, segnava così un'altra nascita. Che diventerà ricorrenza socialista. Su iniziativa di Filippo Turati, che il giornale non lo diresse mai, la redazione dell'Avanti, nel 1911, fu trasferita da Roma a Milano. Nella capitale rimase solo una redazione locale. Il passaggio nella capitale del Nord testimonia una visione della politica che poco si basava sulla centralità del Parlamento, ma era piuttosto rivolta alle tensioni e ai movimenti che soprattutto nelle grandi fabbriche allora si formavano. Al congresso nazionale di Reggio Emilia del 1912 si affacciò con una irruenza mai vista un giovane leader carismatico romagnolo: il rivoluzionario Benito Mussolini. Costui fu protagonista, con la sua mozione, dell'espulsione dei cosiddetti riformisti di destra, Bissolati, Bonomi, Cabrini, che intendevano, dopo che Bissolati aveva salito le scale del Quirinale per testimoniare la solidarietà al re, scampato ad un attentato, continuare ad appoggiare il governo Giolitti nonostante l'impresa di Libia iniziata da un anno. Mussolini si impose come il nuovo leader socialista, ma alla segreteria del partito fu posto l'anziano Costantino Lazzari e il futuro duce si prese la direzione dell'Avanti, dopo la breve parentesi di Bacci dal luglio al dicembre del 1912. Dirigere l'Avanti era ritenuto più politicamente significativo che non guidare il partito. Sarà così almeno fino alla fine degli anni quaranta. Giacinto Menotti Serrati, nel primo dopoguerra, sarà alla direzione dell'Avanti pur contando sulla maggioranza congressuale sia a Bologna nel 1919 e sia a Livorno nel 1921. Nenni dirigerà l'Avanti quando nel 1924 mise in minoranza i terzinternazionalisti di Serrati che proponevano l'assorbimento nel Pcdi. E Nenni sarà direttore dell'Avanti anche nell'immediato secondo dopoguerra lasciando prima a Pertini e poi a Basso la segreteria (nel 1946 col congresso di Firenze si formò una maggioranza relativamente autonomistica che pose ivan Matteo Lombardo alla guida del Psi). Al congresso di Ancona del 1914 Mussolini potrà portare un bilancio felice della sua esperienza. L'Avanti aveva aumentato i suoi lettori fin oltre le 100mila unità e la sua politica rivoluzionaria e contro la guerra lo aveva posto di fatto alla guida del Psi. Tutto cambiò pochi mesi dopo. Dopo il fondo del 18 ottobre “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”, esplose il caso. Mussolini non faceva altro che sintonizzarsi alle posizioni che già nel Psi Graziadei aveva interpretato e che non erano sostanzialmente difformi da quelle degli stessi riformisti. A giudizio di Mussolini non si poteva essere spettatori se in gioco c'era “un dramma grandioso”. Era possibile la neutralità assoluta con una distinzione così marcata tra guerra e guerra? Anche Turati non aveva sostenuto cose molto diverse e aveva scritto che la sua neutralità, se non era “attiva e operante”, era pur tuttavia “non dogmatizzante e imperativa”. Il ché non era molto differente. Infatti Turati commenterà: “Se il direttore del nuovo giornale avesse continuato nell'atteggiamento assunto nei suoi ultimi articoli pubblicati sull'Avanti (…), molti proseliti avrebbe potuto fare”. E questa era anche l'opinione di Giovanni Zibordi, che scrive su “La Giustizia” del 18 ottobre: “Che ha detto di strano Mussolini?”. Non ha aggiunto nulla se non “che mentre noi ci saremmo opposti anche con la rivolta ad una guerra in appoggio dell'imperialismo teutonico, potremo invece opporre soltanto la nostra protesta ad una guerra contro l'Austria e la Germania”. Da Torino il giovane Antonio Gramsci applaudì all'articolo del suo leader Mussolini. Il fatto é che dopo le sue dimissioni dall'Avanti e la Direzione del Psi del 18-21 ottobre che si concluse con il suo isolamento (il suo ordine del giorno venne votato solo da lui)) nonché l'immediata sua sostituzione da direttore dell'Avanti con la triade Lazzari, Bacci e Serrati, Mussolini si sentiva ormai fuori dal partito, ancora prima di essere espulso. Ma Mussolini andò subito oltre. Egli, che sull'Avanti del 2 settembre definiva “un delitto”, “un disastro doloso” la violazione della neutralità, crede adesso e ha dichiarato nelle sue interviste al “Corriere della sera” e a “Il secolo”, che la guerra contro l'Austria non solo si farà, ma deve farsi. “L'Italia interverrà”, egli ha detto, “dovrà intervenire, se no la monarchia si vedrà sorgere in faccia lo spettro della rivoluzione”. Il caso Mussolini si allarga oltremodo dopo la pubblicazione del nuovo giornale “Il popolo d'Italia”, finanziato da settori interventisti, che uscì il 15 novembre. Il 24 novembre la Federazione milanese propose la sua espulsione dal Psi, e Mussolini si indignò per la mancata discussione delle sue idee e per l'impossibilità di sviluppare la sua difesa. Più o meno le stesse accuse lanciate da coloro che egli aveva espulso due anni prima al congresso nazionale del Psi di Reggio Emilia. E che adesso, paradossalmente, si erano trovati in consonanza con lui. Mussolini decide, dunque, di fondare un suo giornale per parlare alle masse socialiste e proletarie. Il 15 novembre 1914 esce Il Popolo d'Italia con l'aiuto determinante di Filippo Naldi, direttore del “Resto del Carlino”, che procura i finanziamenti necessari. Dal 19 novembre l'“Avanti!” accusa di indegnità morale l'ex direttore a proposito dell'origine dei fondi e dei tempi con i quali nasce “Il Popolo d'Italia”. Il 24 la sezione socialista milanese approva a grande maggioranza la proposta di espellere Mussolini. Il 29 si riunisce a Milano la direzione del Psi per deliberare sul “caso Mussolini”. Dopo un'intera giornata di discussioni, Mussolini viene espulso dal Psi. Mussolini non era certo l'unico socialista passato all'interventismo, con la motivazione della guerra democratica agli imperi centrali. Interventisti, nel Psi, si possono rintracciare sia tra i rivoluzionari sia tra i riformisti. Tra questi ultimi il trasferimento dal dogma di Lazzari, “né aderire né sabotare”, che per Turati era un po' la giustificazione sia dell'aderire sia del sabotare, é di minore rilievo. Leonida Bissolati fu tra i primi e partì per il fronte nonostante l'età. Con lui Gaetano Salvemini, riformista a modo suo, e che aveva sempre polemizzato con una visione nordista del riformismo turatiano, mentre l'irredentismo del socialista Cesare Battisti ha altre radici. Tra i rivoluzionari svetta Alceste De Ambris, che sarà dannunziano e antifascista, poi Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, ma anche Giuseppe Di Vittorio, che saranno dirigenti comunisti, Pietro Nenni, allora repubblicano e poi direttore dell'Avanti dal 1922, ma soprattutto quei socialisti che poi seguiranno Mussolini nel suo percorso politico. Tra gli altri i sindacalisti rivoluzionari che fonderanno l'Alleanza per il lavoro, dopo la scissione dell'Usi, cioè Edmondo Rossoni, Cesare Rossi, Michele Bianchi, ma anche il cremonese Farinacci, bissolatiano d'origine, Filippo Corridoni che morirà in trincea nel 1915 e che sarà celebrato dal regime anche se, legato com'era a De Ambris si potrebbe anche escludere la sua adesione successiva al fascismo. La conversione all'interventismo coinvolse anche Turati ma solo dopo Caporetto. Cioè dopo che la guerra s'era trasformata in guerra di resistenza all'invasine austro tedesca. Turati assieme a Treves scrisse un articolo pubblicato su Critica Sociale del 1-15 novembre 1917, dal titolo “Proletariato e resistenza”. Il socialismo riformista dava tutta la misura del suo patriottismo. All'indomani della catastrofe di Caporetto i due principali esponenti della corrente riformista scrivevano: “Quando la patria è oppressa, quando il fiotto invasore minaccia di chiudersi su di essa, le stesse ire contro gli uomini e gli eventi che la ridussero a tale sembrano passare in seconda linea, per lasciare campeggiare nell'anima soltanto l'atroce dolore per il danno e il lutto, e la ferma volontà di combattere e di resistere fino all'estremo”. Questa posizione fu ribadita con l'intervento alla Camera.  Nel febbraio del 1918 rispondendo al presidente Orlando che aveva dichiarato alla Camera: “Grappa é la nostra patria” Turati aveva ribadito: “Questo e per tutti, per tutta l'assemblea”. E nel giugno 1918, nel momento della battaglia del Piave, Turati dichiarava che non avrebbe votato la fiducia al governo, ma esprimeva la solidarietà anche dei socialisti “con l'esercito che in questo momento combatte per la difesa del Paese”. “Noi ci sentiamo tutti rappresentanti della nazione in armi”, e i socialisti si sentono “anche più di altri”, i rappresentanti di “questo popolo che oggi soffre, combatte e muore”. Per Turati quella non era “l'ora delle discussioni teoriche, delle recriminazioni e delle polemiche”, perché “non è l'ora delle parole, mentre lassù si combatte, si resiste, si muore, per così vasto e profondo arco di confine italiano, e le nostre anime sono tutte egualmente protese nella angoscia, nella speranza, nello scongiuro, nell'augurio”. Queste posizioni che parevano assolutamente coerenti con l'impostazione socialista, da sempre contro la guerra, ma mai contro la difesa in armi dell'indipendenza nazionale, anzi che dal Risorgimento aveva tratto origine e alimento, suscitarono una reazione molto dura dalle fila massimaliste che allora dominavano il Psi. Venne anche convocato un congresso molto straordinario a Roma, con la guerra ancora in corso, i primi giorni di settembre del 1918. Turati sali le scale dell'esecuzione. Ma fu risparmiato. Per lui non finiranno mai i processi politici.  Le sue ragioni saranno solo postume.

Le gallerie

Dall'archivio L'Eco Attualità

  sabato 13 marzo 2021

(broad)band

...e band(wagoning)

  sabato 2 maggio 2015

Cremona . Un 25 aprile 2015 che ci voleva

Il 25 aprile degli anni precedenti finiva per diventare una delle feste nazionali, celebrate in termini formalistici e la libertà

  mercoledì 24 febbraio 2016

Queste cose succedono perché….

Siamo un paese in cui c’e’ gente che,quando queste cose succedono, e’ abituata a dire che, si’, sono cose che succedono. Il titolo avrebbe, e nel prosieguo si capirà meglio il perché, potuto essere: il Vecchietto.L’attacco del pezzo rimanda ancora allo sgomento suscitato, in un’opinione pubblica sempre più assuefatta alle cose che succedono e che non dovrebbero, dal drammatico epilogo della vicenda di Via Giuseppina

  martedì 9 giugno 2020

Recovery territoriale

Qualcosa di molto simile ad un ingannevole libro dei sogni

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