Gentile direttore, mio padre Gino Rossini, primo sindaco eletto dopo la Liberazione, dovette gestire una difficile situazione: odio non dimenticato fra le fazioni politiche scontratesi negli anni della guerra, grave povertà, disoccupazione. Riuscì a sensibilizzare il ceto più fortunato a versare in un fondo comune aiuti per chi non aveva nemmeno da mangiare. Cercava di favorire quello spirito di fratellanza venuto lungamente a mancare. Gli agricoltori, con i campi non lavorati per mancanza di braccia e bombardati, si ricercavano per trovare una via d'uscita, nacque così l'idea di dar vita ad una fiera bovina e agroalimentare. Mio padre abbracciò l'ottima iniziativa che ebbe luogo lungo la riva del nostro Po.
Dopo 60 anni fui invitata alla manifestazione dell'anniversario presso la Fiera a Cà de Somenzi per presenziare come figlia del Sindaco propiziatore di tale splendida realtà. Presenti personaggi delle più varie fedi politiche che allora conversavano tranquillamente sulle comuni esperienze.
Passano gli anni ma qualcosa cambia. Gli accordi si sfasciano e una parte degli stand “volano” presso la Fiera di Orzinuovi. Sconcerto, ma dalla Regione Lombardia “non vedo, non sento, non parlo “.
La destra...si vocifera, quella destra che fedele alla famosa sopracitata “scimmietta” non solo permette tale offesa, ma lascia ad un destino assurdo i nostri pendolari, abbandona il nostro ospedale e i suoi operatori, la siccità con i danni enormi per l'agricoltura.
Apprendo che il prossimo venerdì si terrà un convegno patrocinato da Fratelli d'Italia davanti al Palazzo Cittanova. Scorro i nominativi dei personaggi invitati …e…leggo: presidente della Fiera Daniela Santanchè li, vicino alla fiamma che ancora simboleggia il suo partito!! Le idee altrui si rispettano, ma mi sembra un'offesa “Presidente della Fiera di Cremona “. Sarei curiosa di conoscere quanto da lei fatto per Cremona e la sua provincia. Cottarelli si offre di regalarle cartine e mappe per facilitarle il compito di iniziare dopo anni a muoversi tra quanto a lei affidato …
Sinceramente lo spirito socialista che aleggia nella nostra città e nelle nostre campagne, inteso come difesa del più debole, rispetto, cooperazione, fratellanza, purtroppo pecca di ingenuità, forse perché non pensa che si possa sciorinare un mare di bugie senza avere la minima intenzione di ottemperarle, né mettere
il minimo impegno.
Patrioti! Patrioti, di quale patria, Santanchè??? Se qualcuno meritava di essere su quel palco doveva essere l'onorevole Pizzetti, profondo conoscitore e combattente per le necessità cremonesi e padane …
Ma tant'è Santanchè ora tocca a te. Stupiscici!!!
Grazie, direttore. Un cordiale saluto
Clara Rossini. Cremona 9 settembre 2022
La giusta, chiara, coraggiosa testimonianza della nostra amica e compagna Clara Rossini era stata introdotta, in assenza di consapevolezze più dettagliate di quante non fosse il passato dal convento di una comunicazione un po' approssimativa e forse fuorviante, da una striscia un po' goliardica. Che chiamava in causa le perplessità di Mafalda. Nelle more della formazione di un quadro più dettagliato del chi organizza e invita chi, ci siamo messi nei panni dell'invitato e dei suoi tormenti (graduati sulla scala del format dell'evento e del mutevole ruolo dei suoi protagonisti).
E, qui, non abbiamo, loro silenti, non potuto immedesimarci in altre ben note (ovviamente per chi sa di cinema) ambasce.
“No veramente non… non mi va. Ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi ed io sto buttato in un angolo… no. Ah no, se si balla non vengo. No, allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate “Michele vieni di là con noi, dai” ed io “andate, andate, vi raggiungo dopo”. Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo”.
Alla fine (o ancor prima dell'inizio?), però, gli Ecce Bombo imprenditoriali (con un imbucato munito di viatico istituzionale o paraistituzionale) vinsero le amletiche titubanze morettiane e ci andarono
Correlando (senza troppa fatica) la lettera entrée della nostra corrispondente Clara Rossini e l'incipit iconografico, si comprende d'un volo a cosa ci riferiamo.
Oggi, a conviviale (in tutti i sensi) avvenuta, tutto è più intellegibile. Ma per quasi una settimana, come acutamente osservarono in corso d'opera il blog di Zanolli (“locandina ambigua”) e il sempre caustico ma efficace Antonio Grassi (“momento drammatico, i candidati decisi altrove e la fiera delle banalità”), l'opinione pubblica (di fronte a locandine mutevoli che glissavano sul format dell'evento) si è trovata di fronte ad un rovello, rispetto al quale i quelli morettiani erano un tamquam non esset.
Ci sia consentito, innanzitutto, affermare che in nessuna delle locandine in cui si preannunciava un evento elettorale variabile nella costituency erano ravvisabili manifeste violazioni delle regole o, se si vuole, del fair play della campagna elettorale.
Per essere chiari, gli endorsements o, per esserlo ancor di più, gli affacci dei consigli per gli acquisti, come dice la pubblicità commerciale, da parte della cinghia di trasmissione tra politica e corpi intermedi, ci sono sempre stati.
Ovviamente ci riferiamo anche all'accompagnamento della stampa (per autodefinizione) “indipendente”, la cui più accreditata espressione (come ha ricordato il suo direttore qualche settimana addietro nel ricordo del 75° della fondazione, evocata come un matrimonio indissolubile coi fidelizzati lettori) notoriamente nacque per colmare un vuoto nel mercato locale dell'informazione, lasciato libero dalla testata fondata alla Liberazione dal CLN.
Nella primavera del 1947, appunto, si ebbe piena contezza di dove avrebbero parato i fondatori, risorgenti sulle ceneri del Regime (o Régime, come molti insistettero per anni). Stesso retroterra editoriale, l'Associazione Agricoltori (che, poco prima, si era “liberata” dal ras che per vent'anni se n'era impossessato). Stesso apparato tecnico (compresa la rotativa omaggiata dai valorosi camerati tedeschi). Stesso bacino (più o meno, perché l'offa di qualcosa di epurativo bisognava pur concedere) di risorse umane. Stessa mission: influenzare la formazione delle opinioni (nell'ovvio contesto, per giustificare l'acquisto del quotidiano), in termini di disinnesco delle ostilità sociali (in epoca in cui le relazioni industriali - si fa per dire - tra lavoro dipendente ed imprenditoria agricola costituiva qualcosa di molto simile ad una guerra civile) e, dato che si era, plasmare l'offerta informativa a beneficio delle contiguità politiche.
Così è stato per molti decenni, fino a giungere a giorni nostri. In cui non si ha più l'ardire di essere pedissequamente fedeli alla mission incardinata tre quarti di secolo fa…ma un po' sì.
Ora si può comprendere il pieno diritto di un editore, espressione di un corpo intermedio sociale, ancora significativo ma non più come un tempo, di avvalersi dell'indotto influencer. Ma est modus in rebus. Non riusciamo, infatti, a ricordare né precedenti in cui la beneamata testata abbia espresso (in tempi in cui la cosa sarebbe potuta metabolizzare in automatico) papale papale indirizzi inequivocabili di voto né sia scesa in campo a moderare o a rendere disponibile la propria ditta ad accompagnare le dinamiche politiche ed istituzionali locali e nazionali nel senso dei propri interessi.
E che la Libera, associazione imprenditoriale di un comparto abituato a vivere di aiutini, non fosse insensibile a ricambiare i favori (essendo per di più dotata di uno strumento informativo operante localmente in regime di monopolio) fu sempre messo nel conto.
Sia pur dando luogo a baruffe sociali e politiche tra le opposte sponde.
Negli ultimi anni, però, contestualmente al calo del prestigio e forse della caratura individuale della nomenklatura imprenditoriale (di cui fu segnale l'asfaltatura della Banca Popolare di Cremona, storicamente appartenente agli assi di influenza monopolistica, quasi fosse un benefit indiscutibile, della Libera e di cui sarebbero rivelatori la caduta verticale del rating del quotidiano e di Fiere Cremona, di cui diremo più avanti) si assiste al capovolgimento del ruolo di influenza tra prevalent partner (il gruppo dirigente espresso dagli associati)) e i consiglieri del principe (la dirigenza del giornale). Alzi la mano chi ritiene plausibile che, ai tempi del Presidente Duchi e del Presidente della Fiera, Mainardi, il direttore della testata Masone allestisse un evento del tipo del “dibattito” segmento cremonese del tour dei patrioti. Simposio comunitario legittimassimo. In cui un player della campagna elettorale, importante ed in predicato di diventare prevalent negli equilibri parlamentari e governativi futuri e, quindi, di assecondare ammiccamenti per la pratica del bandwagoning, inviti l'associazionismo imprenditoriale di prima fila a discutere, in esclusiva reciproca, di temi oggetto della competizione.
Può essere, però, anche il contrario. Vale a dire che sia stato un grande fratello editoriale ed associativo a suggerire la mossa. Sconcerta la peripezia di un asset di sostenitori declassato da testimonial a influencer, infine, a discussants
Sia come sia il tour dei patrioti è stato percepito per ciò che tutte le evidenze impongono di percepire.
“Un confronto nel quale noi facciamo il nostro mestiere di giornalisti e gli imprenditori portano la voce delle categorie, ha precisato il direttore de La Provincia, Marco Bencivenga, moderatore di un'iniziativa che per quanto ci riguarda non va letta come un endorsement politico nella prospettiva del voto”.
Excusatio non petita (tanto il profilo dell'iniziativa era plasticamente definito) accusatio manifesta. Importante è non essere presi per i fondelli.
Diciamo che col tempo siamo diventati a quiet heart, del tutto impermeabili alla tentazione di scendere in campo. Ma non alla testimonianza civile di non rinunciare a segnalare qualche preoccupazione. Senza che ciò possa essere preso per una furbata di scegliere un nemico, criminalizzarlo e invitare ad un voto più o meno utile. Nostro compito è di ricostruire le vicende del passato così ottenendo le chiavi per capire il presente e definire le traiettorie del futuro.
Sotto questo profilo sconcerta l'ingresso nell'armamentario preelettorale dell'innocenza patriottica, rivendicata in proprio e brandita in esclusiva nei confronti di tutti gli altri che, dal punto di vista del senso di appartenenza e di identità, sarebbe tutti apolidi.
Non vogliamo fare forzate simmetrie. I portatori in esclusiva di patriottismo, senza, per loro pretesa, essere identificabili in una volontà restauratrice (ci sembrano da questo punto di vista, fermi, se ci va bene, al non restaurare e non rinnegare) suscettibile di sovvertire gli esiti della Resistenza.
Consiglieremmo loro un bel handly with care in materia di esclusiva patriottica; perché a qualcuno verrebbe in mente di circoscriverli tardivamente alla fattispecie di eredi dei patrioti che 80 anni fa accolsero a braccia aperte i salvatori nazi
Per di più scapperebbe la frizione attorno alla simmetria del brand di questo tour e la ricorrenza del centenario della “marcia” e dell'esordio del potere autoritario che inchiodò per vent'anni la nostra realtà.
Con il che ci guardiamo bene, ripetiamo, di ascrivere la fattispecie dei patrioti della Meloni a potenziali attentatori della continuità liberaldemocratica.
Indubbiamente, però, in Italia (come prima in Francia e ieri in Svezia) aleggia il vizio più che dell'aspettativa dell'uomo forte, dell'impulso a ritenere superabili le criticità del momento e di quelle sedimentate per effetto dei rimbalzi internazionali e delle cattive performances politiche del ciclo recente con il colpo di bacchetta magica di una discontinuità. Al punto che, più o meno consapevolmente, importanti corpi sociali dell'imprenditoria, sembrano non avvertire pudori e cautele. D'altronde, circola con una certa insistenza il sentiment secondo cui se vince la destra va bene. Nel caso in esame anche nella versione dei beneficiari de Franza e de Spagna purché…
Quanto alla comparsata al “dibattito” del Presidente di Cremona Fiere, sarebbe solo il caso di osservare che il ruolo ricoperto non rientra nella fattispecie dell'associazionismo imprenditoriale. Essendo che la Fiera è partecipata da Comune Capoluogo, Provincia e Camera di Commercio. Forse questi vertici istituzionali farebbero bene a chiedere conto.
Scheda tratta da 'Il socialismo di Patecchio'
3.2 - I conti con l'ombra lunga del passato regime; non solo col mitra di Valerio...
Osserva acutamente Francis J. Demers, il ricercatore americano autore del volume “Le origini del fascismo cremonese”, edito nel 1979, le cui fonti si rifanno, tra l'altro, agli scritti di autorevoli studiosi cremonesi, tra cui Emilio Zanoni: “Dobbiamo, infine, parlare delle conseguenze del fascismo: esso impedì un'organizzazione della produzione moderna e tale che permettesse all'operaio agricolo di trarre soddisfazione dal proprio lavoro e di esercitare un controllo nella gestione aziendale. Il fascismo favorì invece un capitalismo dottrinario (soddisfare le esigenze del mercato e trarre profitto dagli investimenti) che ispirò l'organizzazione del lavoro e dei rapporti di forza.”
La sede della 'Libera'. Il ras (en mise renessance) nell'affresco murale presente nella sede. Una copia del 'Regime' del 1943. Questo scenario si ripresenterà, nella sua drammaticità sociale e nella sua dirompenza politica all'indomani della Liberazione, e riproporrà le stesse tematiche su cui si erano infrante le “prove” di incontro tra il socialismo riformista ed il solidarismo cristiano, l'ultima realistica chance della democrazia (purtroppo inesplorata ed impraticata) contro il montante pericolo fascista.
Cremona, in particolare, era stata il laboratorio politico in dell'anticipazione di quelle prove, approdate, come si sa, alla scena politica nazionale col nefasto epilogo, premessa e motivazione della svolta autoritaria.
“Cremona, come acutamente annota ancora Demers, in un paese ricco di tanti contrasti, grazie alla sua agricoltura specializzata e a molte attività economiche ausiliarie, era il modello dell'Italia moderna. Cremona, é solo una piccola provincia; ma essa ben rappresenta l'intera Valle Padana, dalla cui ricchezza provenne soprattutto la forza delle camicie nere di Mussolini. Nel fascio possiamo trovare la logica e la continuità delle vicende di una provincia che da modello qual era di un'Italia volta al progresso, esemplare per la moderazione dei conflitti economici e per la liberalità dei suoi patti agrari, divenne il feudo di uno dei più reazionari capi fascisti”.
“Cremona, come altrettanto acutamente osserva Corrado Stajano in “Patrie smarrite (che tanta discussione ha suscitato nell'ambiente antifascista cremonese), dove nell'ottocento e nel primo novecento il Socialismo era riuscito a seminare le sue speranze, i cattolici avevano diffuso le loro idee di progresso sociale, le Leghe rosse e le Leghe bianche avevano dato vita a movimenti di massa. A Cremona, nel passato prossimo, erano nati e cresciuti uomini eminenti nella politica, Bissolati, Miglioli, Ettore Sacchi, e la Chiesa aveva espresso con il Vescovo Geremia Bonomelli lo spirito di tolleranza del cattolicesimo liberale”. (agli eminenti uomini politici, citati da Stajano, si potrebbe aggiungere Arcangelo Ghisleri).
Ed ecco l'”eresia”, almeno da alcuni ambienti ritenuta tale, sulla penna di uno scrittore-giornalista “militante”, ancorché corrispondente ad un riscontro storico, in contrasto con una certa ragione eroica dell'epopea resistenziale, “Una società debole si era sottomessa più che altrove con compiaciuto servilismo al costume del fascismo oltranzista e poi del fascismo che avrebbe cercato di rendersi presentabile”.
Dove, ad avviso di chi scrive, Stajano si riferisce, non già al comportamento delle istanze politiche e sociali sottomesse dalla rivoluzione fascista, bensì al cuore della convergenza che suscitò la svolta autoritaria-totalitaria.
In Stajano appare, invece, ingenerosa, in quanto non corrispondente ai fatti, difficilmente ignoti ad uno scrittore non sempre obiettivo, ma indiscutibilmente informato, come dimostra nel lavoro citato, la quasi retorica domanda-risposta “Che cosa succede in una città governata per vent'anni da una signoria fascista quando il sistema politico crolla e il signore fugge? Più un rattrappirsi in se stessi e nelle proprie cose che voglia di azione, più allocchimento che letizia, più preoccupazione che amor del nuovo”.
Come incongruo appare quell'insistere dell'autore su “Cade il fascismo il 25 luglio 43 e a Cremona non accade niente” e su “La città sonnolenta rifiuta il fastidio della memoria”.
Incongruo perché Stajano generalizza, facendolo divenire espressione della comunità cremonese, il comportamento del ceto medio-borghese che insediò il fascismo.
Quel fascismo che, secondo Seymour M. Lipset, citato dal Demers, fu l'acuto estremistico di quella classe media, protesa a conservare intatta la struttura sociale ed il potere economico, che, fino ad allora, avevano avuto come referenti quei “liberali” e “democratici”, che, come sostenne Don Sturzo, “non lo erano affatto: erano sostanzialmente dei conservatori. Essi mal soffrivano di dover trattare con i lavoratori...”.
Le conseguenze di questa scorciatoia dei ceti medi, a parole, per esorcizzare il pericolo bolscevico, nella sostanza, per arrestare ed invertire la tendenza ad una più equa redistribuzione delle risorse e ad un moderno ed illuminato allargamento delle basi democratiche dello Stato, si ripercuoteranno lungo tutto il Ventennio ed oltre, aggravate, al collasso del regime, dal depauperamento provocato dalla sciagurata politica militarista.
Gli sconfitti dall'avvento del fascismo, in particolare il ceto bracciantile agricolo, scontarono, per vent'anni e più, la costante diminuzione delle paghe e dei livelli di impiego di mano d'opera, paghe che, nonostante la perdita di potere d'acquisto dei primi anni Quaranta, restarono al livello del ‘22.
Per converso, a trarne vantaggio, con l'ovvia compiacenza del regime, furono i ceti dell'imprenditoria agraria, in particolare i proprietari terrieri, assenteisti e parassitari.
Non v'è dubbio alcuno attorno al fatto che tali ceti fossero indotti a rapportarsi alla svolta epocale della Liberazione in guisa di quanto annota Stajano: “La città sonnolenta rifiuta il fastidio della memoria”.
Sarà ancora con questi ceti che i protagonisti della Liberazione si troveranno, subito dopo il 25 aprile, a fare i conti col significato e colla prospettiva dell'evento, che, nella lettura delle componenti moderate e sostanzialmente conservatrici dello schieramento antifascista (i cui disegni si espliciteranno in termini vieppiù involutivi, dall'estromissione delle sinistre dal governo in poi) tenderà ad essere letto come l'archiviazione burocratica di un'imbarazzante pagina, non come la ripartenza, per mutuare dall'attuale gergo calcistico, di un processo di modernizzazione e di democratizzazione in senso progressista.
Perché saranno ancora quei ceti a detenere il potere economico e a determinare l'organizzazione sociale e l'indirizzo dell'ordinamento politico.
4.3 – Inizia un titanico scontro sociale, a partire dalle campagne
Ma, prima di arrivare ai nuovi scenari, per oltre tre lustri, dall'epilogo del conflitto a tutti gli anni Cinquanta, nel cremonese, come, d'altro lato, nel resto del Paese, si giocherà una partita, politica e sociale, prosecutiva, per molti versi, dello scontro interrotto dall'avvento del fascismo.
Sarà imbarazzante per la classe dirigente cremonese, che mise in sella per vent'anni il regime, sciogliere le incrostazioni dell'identificazione del regime stesso con l'epicentro del suo consenso, fisicamente riassunto in un tassello topografico di poche decine di metri.
Visto che il perno di tale potere risiederà ancora nel Palazzo degli Agricoltori, prospiciente quelli del Vescovado e del Municipio, in guisa di metafora, vi provvederanno con un restyling degli affreschi del salone di rappresentanza.
Mentre gli altri “santuari” della topografia dello sconfitto regime, il Palazzo della Rivoluzione e la nuova “reggia” di Piazza Marconi, decadranno nell'immaginario con la parabola del loro illustre inquilino Farinacci, senza pretendere frettolose mimetizzazioni.
Invece, gli affreschi sopra accennati ed imbarazzanti, tanto per dare il senso dell'identificazione tra categoria ed establishment politico, raffiguravano (e raffigurano, con qualche ritocco!) quale novello signore, novello principe del rinascimento fascista (così, almeno, lo percepì l'autore, ovviamente ricompreso nel gotha degli artisti di regime generato dal concorso di pittura “Premio Cremona”), l'on. Giuseppe Moretti.
Moretti, squadrista fedele al ras; tanto fedele da esserne la lunga mano nelle terre del Serio, in quanto rivelatosi capace di neutralizzare, già sin dalla fase “rivoluzionaria del ‘22, intraprendenti esponenti dello squadrismo cremasco che avrebbero potuto far ombra e contendere la leadership provinciale.
Per tale fedeltà da Farinacci fu opzionato come elemento di rottura e di emarginazione nei confronti dei potenziali concorrenti e di vigilanza sul “principato” durante le incursioni, discontinue e non sempre fortunate, negli incarichi della Capitale; quindi, collocato alla Camera dei Fasci e, dal 1934, alla presidenza della Federazione fascista degli agricoltori.
Mentre il ras per antonomasia, Farinacci, un altro vanesio di quelli che ti raccomando!, venne immortalato negli affreschi di Palazzo Bellomi-Raimondi, in un contesto arcadico in cui compaiono, si potrebbe dire, gli adulatori di prima linea.
Dopo il 25 Aprile, probabilmente all'insegna della “vita che continua”, si tenterà di rimuovere le fastidiose tracce di conformistica piaggeria, sovrapponendo al volto del nuovo principe del manganello (prestato, come si direbbe oggi, all'imprenditoria agricola) una barba coltivata solo sul pennello del restauratore, come rileva A. Parlato nel “Quaderno di storia”.
Il restauro avrebbe potuto interessare, oltre che il volto, anche la camicia, da sbiancare in omaggio all'incipiente metamorfosi cromatica del nuovo potere in incubazione; mentre l'On. Moretti, quello in carne ed ossa, da quanto si é potuto leggere in precedenza sulla rubrica “Profili e fatti cittadini”, si era lestamente eclissato, in tal modo sottraendosi al fastidio sia delle pose per il ritocco sia, quel che forse più gli premeva, di seccanti redde rationem.
Il Palazzo degli Agricoltori, che nel ventennio suggellò l'epicentro del connubio tra poteri politico ed economico (fino all'identificazione), rappresenterà la continuità, se non proprio di quel connubio, sicuramente di un primato economico fortemente condizionante la politica anche all'interno del nuovo scenario (per le ragioni che saranno più evidenti nel prosieguo).
Una prospettiva difficilmente ipotizzabile quel 2 maggio 1945, quando la nuova rappresentanza di quella, che fu l'invencible armada degli anni venti, trenta e prima metà dei quaranta, chiese ed ottenne dal Governo Militare Alleato, con l'assenso della Giunta Consultiva, l'autorizzazione a costituire la Libera Associazione Agricoltori Cremonesi e a rioccupare il prestigioso palazzo di Piazza del Comune o del Duomo (secondo laicità o confessione).
Quel giorno e con quell'atto si andava definendo una nuova rappresentanza, scaturita dalla scelta tattica di opportunità (più che di intima consapevolezza) di fornire, almeno sul piano dell'immagine, un segnale di discontinuità rispetto all'imbarazzante passato. Una rappresentanza cui sarebbe spettato, tra l'altro, il delicato compito di affrontare il primo Patto Colonico, pietra miliare del ristabilimento delle relazioni sindacali con il mondo del lavoro agricolo.
Che risulterà siglato, per la parte imprenditoriale, da due dirigenti di ispirazione liberale, Camozzi e Gosi, i quali, nel volgere di breve tempo, passeranno la mano, per il rinnovo successivo maturato in un clima smaccatamente involutivo, alla nuova leadership di Giannino Ferrari.
Un imprenditore agricolo, già discepolo migliolino, poi deputato farinacciano, infine, prestato, come molti esponenti delle Leghe Bianche, agli sviluppi del disegno restauratore in atto.
Questi “prestiti” non poterono non ingenerare nella percezione delle sinistre una marcata volontà della classe dirigente di tracciare un collegamento con la fase autoritaria, appena conclusa; collegamento ideale e pragmatico, in quanto le fenici risorte manifestare, già nell'approccio, di richiamarsi ai metodi pregressi.
Nel turn over la casta agraria, occorre ammettere, dimostrava una certa impudenza (dalla sua parte, si potrebbe definire coraggio).
Lo richiedeva, d'altronde, l'importanza della partita alle viste, rispetto a cui questo cambio di leadership non poteva non assumere il significato di un salto di qualità nel conflitto sociale.
Pur con modalità diverse dall'imbarazzante passato, permarrà quella centralità, che iniziò a manifestarsi già dal momento, in cui lo scontro si applicava a ridisegnare i rapporti di classe, scaturenti dall'esito del conflitto, dalle strategie politico-istituzionali, dall'opera ciclopica di ricostruzione e di stabilizzazione all'orizzonte.
Una centralità che, a dispetto del radicalmente mutato contesto, sovente lascerà filtrare una certa refrattarietà a confrontarsi con il nuovo. Preferendo l'esercizio di un'egemonia poco illuminata di derivazione esclusivamente conservatrice, congrua per un potere economico, mai pago, e determinato a perpetuare una anacronistica soggezione di tutto ciò che é altro alla concezione padronale; non solo dentro l'azienda capitalistica, non solo dentro lo spazio fisico in cui essa si esercita, la cascina, ma anche nell'orientamento della barra che regola il quadro.
Tale pretesa di assoggettamento della forza lavoro alle logiche del più vieto sfruttamento, secondo tecniche paleo-capitaliste, che andavano dal monopolio del mercato alla quasi totale assenza di tutele e di diritti dentro e fuori le aziende, si estenderà (non già, tenterà di estendersi!) all'asservimento del dipendente e della sua famiglia all'assetto “curtense”. Quasi che ad esso fossero appartenute non solo le braccia, ma anche le vite contenute nella cascina.
Sotto questo profilo, appare paradigmatica la prassi, retaggio evidentemente feudale sopravvissuto fino alla metà degli anni cinquanta, del controllo esercitato da molti agricoltori (per non dire, quasi tutti) per il tramite degli uomini di fiducia, quando non direttamente, sugli spostamenti dalla cascina dei dipendenti e dei famigliari, anche al di fuori degli orari di lavoro (che pure coprivano una vasta fascia della giornata).
Un controllo di natura, per così dire, istintivo, quasi keynesianamente da animal spirits; ma, in relazione alla portata dello scontro sociale e politico incipiente, dettato anche dalla volontà di sorvegliare e limitare le relazioni, potenzialmente in grado di importare nel microcosmo della cascina i germi dell'insubordinazione e della contaminazione con il “nuovo”.
Ma su questi aspetti, con l'ausilio delle testimonianze scritte dei protagonisti socialisti (e non solo) dell'epoca, torneremo a riflettere in occasione della ricostruzione dello scontro politico-sociale del triennio 1945-48.
Resterebbe da osservare che, quando, raramente, tali tematiche si riaffacciano nel confronto storiografico, si prestano, sia da parte di una certa sinistra in vena di disinvolto accreditamento riformistico, come da parte della solita sinistra, radicale e quindi saputa, ad una analisi semplificatoria: le lotte contadine non potevano che finire così, sconfitte dal massimalismo e dalle tecnologie!
Dicendo un'ovvietà ed omettendo, pur tuttavia, di fornire un'idea alternativa, almeno astratta ed anche solo ex-post, rispetto a ciò che fu, nella situazione considerata, l'indirizzo delle lotte politiche e sociali della sinistra, e, quindi, anche dei socialisti, che ne erano parte eminente.
Anche se nell'attualità appaiono evidenti i punti di debolezza di quella strategia, in qualche misura coartata dagli ideologismi irrealistici della componente comunista.
Si trattava di una situazione priva, a differenza delle aree metropolitane, di alternativi sbocchi occupazionali negati dall'inesistente o gracile comparto industriale, che, altrove, prepotentemente iniziava a trainare la ricostruzione, e, per di più, gravata (se il termine fosse adeguato ad esprimere il disequilibrio) da una densità di popolazione, non più compatibile con un assetto economico prevalentemente agricolo, organizzato su basi capitalistiche (per qualche verso anche avanzato sul piano delle tecniche colturali), ma indirizzato prevalentemente all'ottimizzazione dello sfruttamento bracciantile.
4.8 – Si riorganizza anche il fronte contrapposto; partendo da un atout: il potere mediatico –
Il fronte contrapposto, saldatosi, sul terreno della restaurazione conservatrice, tra il nuovo potere politico, rappresentato dalla svolta involutiva del degasperimo diretta ad intercettare le istanze moderate del ceto medio, ed il potere economico, interessato a cogliere le tendenze liberistiche, insite nel modello esportato in tutta Europa dai liberatori anglosassoni, trovò in quegli anni motivi e momenti di coesione anche a Cremona.
Oltre che nella condivisione teorica di quel modello e della sua sovrastruttura politica, anche nella necessità pragmatica di contrastare, politicamente e socialmente, le ragioni e gli effetti dello scontro, che abbiamo lungamente analizzato.
Non é qui il caso di ribadire le dinamiche dei processi ricostitutivi dell'associazionismo imprenditoriale, che si sono considerati cronologicamente e tematicamente nel contesto dell'analisi del conflitto sociale.
Ed a cui potremmo aggiungere, dato il ruolo di rilievo nel contesto provinciale, una significativa tappa della ripresa della classe dirigente, attraverso la cronaca, data dal “Fronte Democratico” nell'edizione dell'11 giugno 1945 de “L'Assemblea Generale degli agricoltori”, alla quale intervenne, come si dirà, in un ruolo non propriamente formale un ufficiale americano.
Si potrebbe osservare, un tracciante questo sia della genetica tendenza dell'imprenditoria agricola cremonese a rinvenire, ovunque possibile, tracce di sussidiarietà che, da parte della medesima, ad azionare le antenne per sintonizzarsi, dimentica degli ancora recenti motti farinacciani sulle perfide potenze demo-plutocratiche, sul nuovo potere.
Con il nuovo potere vi saranno ancora diffidenze, per un certo tempo e per la refrattarietà di non irrilevanti settori della ‘Libera' ad accettare la contaminazione con il nemico di poco prima, ahiloro!, risultato vincitore.
Ma indubbiamente, per quanto fosse auspicabile uno stretto rapporto collaborativo con l'A.M.G. di cui non v'è traccia nel reinsediamento dell'associazionismo operaio, la presenza dell'ufficiale a stelle e a strisce delineava una tendenza.
Come annunciato, ha avuto luogo ieri a Cremona, nel salone della Camera di Commercio. L'assemblea generale degli agricoltori cremonesi presieduta dall'avv. Alfredo Camozzi, il quale ha esordito rivolgendo un saluto al capitano Sive, che presenziava alla riunione in rappresentanza del Governo Militare Alleato.
All'Avv. Camozzi è seguito il prof. De Carolis nel rivolgere la parola ai presenti per incitarli a continuare nella loro opera indefessa e confortandoli nel considerare la situazione come soddisfacente se si pensa che da solo poco più di un mese sono terminati i moti insurrezionali e le azioni di guerra.
Tra i vivi applausi dell'Assemblea ha parlato poi il capitano Sive, dell'Ufficio dell'Agricoltura del Governo Militare Alleato di Cremona, il quale ha cominciato la sua relazione col dire di essere, oltre che un combattente, un agricoltore e quindi conscio delle difficoltà e dei doveri dei conduttori di aziende agricole.
Il capitano Sive ha poi illustrato tutti gli sforzi che gli alleati hanno fatto e stanno facendo per fornire all'Europa e all'Italia i mezzi di ricostruzione; ha enunciato le difficoltà soprattutto inerenti alle limitate disponibilità di trasporti mentre è ancora in atto la guerra col Giappone.
Ha poi esposto le sue convinzioni circa i doveri degli agricoltori italiani che potranno vedere compensati i loro sforzi soltanto se saranno primi a far rispettare le leggi ed in specie quelle riguardanti il conferimento dei prodotti agli ammassi.
Il capitano Sive ha passato in rassegna tutti i problemi concernenti il rifornimento dei mezzi tecnici di produzione: dai carburanti al carbone ad altri combustibili, ai concimi, alle macchine agricole ecc ecc.
Per ciascuno di detti mezzi l'ufficiale alleato ha precisato le notevoli quantità già messe a disposizione dell'agricoltura cremonese.
Concludendo l'ufficiale alleato si è intrattenuto sulla costituzione del Comitato Provinciale dell'Agricoltura e di quelli Comunali; ha illustrato la riforma degli Uffici Statistico-Economici dell'Agricoltura; ha passato in rassegna i problemi inerenti ai rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori, per i quali, come in tutti i paesi veramente democratici, esistono problemi che più che tali sono situazioni di fatto.
In Italia come in tutti i paesi democratici la soluzione del problema non può raggiungersi che con accordi diretti e a tale riguardo è preannunciata, secondo l'ordinanza n° 28, la costituzione di un ufficio del lavoro mediante il quale verranno composte le divergenze di interessi fra agricoltori e contadini.
La relazione del Capitano Sive, spesso interrotta da approvazione e da applausi, è stata alla fine salutata da una generale viva acclamazione.
È presumibile che al bravo Capitano-agricoltore Sive non sarà dato di verificare la rispondenza degli applausi alle effettive intime convinzioni, specie in materia di ammassi e di conciliazioni sindacali; in una categoria che solo qualche mese prima smaniava per i metodi di un certo Farinacci.
Ma intanto, un tassello della stabilizzazione dell'imprenditoria era andato a posto.
Più avanti esamineremo dettagliatamente, nell'ambito del capitolo riservato agli eventi che impostarono il nuovo modello politico-istituzionale, la metamorfosi, in sede cremonese, del partito dei cattolici, transitato, durante i ministeri presieduti da De Gasperi, dalla solidarietà resistenziale al ruolo di guida del processo di piena integrazione nel modello occidentale.
Ruolo nel quale, logicamente, vennero abbozzate e sviluppate le alleanze con le rappresentanze sociali ed il potere economico, che, localmente essendo in modo preponderante costituito dalla casta agraria, manifestò in modo evidente la propensione a trasferire nel nuovo scenario la continuità di visioni e di metodi, su cui tale potere aveva consolidato il suo primato nella comunità locale.
Il cemento di quella alleanza, anzi di quel pacchetto di mischia chiamato a fronteggiare la prospettiva della conquista del potere sociale, per effetto delle lotte, e di quello politico, per effetto di un vasto consenso popolare da trasferire nel governo delle istituzioni, fu rappresentato dalla necessità immediata di ribaltare una siffatta tendenza.
Utilizzando a fini di parte le opportunità offerte dal controllo dei gangli vitali dell'amministrazione statale e orientando i canali informativi, attraverso cui sarebbe stato possibile influire sulla percezione del conflitto in corso, soprattutto da parte dei ceti medi.
In modo da fare del consenso delle fasce moderate dell'opinione pubblica l'architrave su cui poggiare l'alleanza dei ceti e dei poteri, ostili a qualsiasi prospettiva, non solo di avvento delle sinistre al governo, ma anche di una qualche influenza, come era stato nella stagione della solidarietà antifascista, delle medesime nella definizione dei nuovi assetti.
In questo senso, diveniva fondamentale il controllo dei centri di informazione.
Cremona, a differenza di molti altri capoluoghi di province finitime padane, non aveva tradizione di prestigiose testate giornalistiche (ad eccezione, logicamente, dell'ingombrante “Regime Fascista”, di cui diremo oltre).
E' pur vero che a Cremona era nato nel 1889, per opera di Bissolati, L'Eco del Popolo, antesignano, sette anni prima, dell'organo nazionale” Avanti!” (25.12.1896) del da poco sorto Partito Socialista Italiano (14.8.1892).
Che avrebbe avuto come direttore (il primo) lo stesso Leonida Bissolati e, in epoca successiva, come corrispondente dall'estero, un altro cremonese, il Prof. Romeo Soldi (della cui figura, in verità poco conosciuta a Cremona, parleremo più oltre, in occasione della stagione congressuale antecedente alla scissione del 1947).
In altri campi politici si erano distinte altre testate, prevalentemente di approfondimento politico.
Ma, si insiste, mancava (e mancherà per sempre) una consolidata tradizione di quotidiano di informazione, specchio della città, come lo erano state e avrebbero continuato ad esserlo le “Gazzette” di altre città padane.
Anche nel dopoguerra si manifestò tale tendenza.
All'indomani dell'insurrezione, per iniziativa del C.L.N., vide la luce il “Fronte Democratico”, diretto da firme prestigiose, tra cui Zanoni e Puerari (la direzione responsabile veniva affidata ad una troika rappresentativa delle tre correnti del CLN), che copriva una discreta fascia del mercato; essendo arrivato ad un apice di vendite di 15.000 copie, più del doppio della coeva e concorrente “Provincia del Po”, nata nel 1947 per iniziativa di due agricoltori, il dott. Arnaldo Bonisoli Alquati e Geremia Bellingeri.
Del secondo ci siamo occupati in questa ricerca, sotto altro profilo; il fatto che fosse stato uno dei rifondatori del quotidiano degli agrari direbbe di per sé stesso sotto quale stella l'iniziativa editoriale vedesse la luce.
L'inizialmente solata iniziativa, quasi individuale, approdò, come doveva, ad un parterre associativo: quello, logicamente, dell'Associazione Agricoltori, da cui, potrebbe anche supporsi, non è escluso fosse stata ispirata; nell'intento, dati i tempi ancora burrascosi, di mandarla in onda alla chetichella.
Il Fronte Democratico aveva visto la luce, ma vide anche in meno di tre anni la conclusione della sua parabola, sulla base, diciamolo pure, sia di una certa miopia rispetto alle evoluzioni in atto e fors'anche dell'attesa messianica della conquista del potere, che, probabilmente lo avrebbe fatto assurgere ad Izvestjia locale (più di quanto, per qualche tratto specie nel 1945, già non fosse stato); benché obiettivamente motivato da serie preoccupazioni di bilancio.
Indubbiamente il suicidio, per alcuni aspetti rituale, rappresentato dalla chiusura della testata di sinistra (potenzialmente, in quanto condivisa fino ad un certo punto dall'arco resistenziale), aprì ambiti di mercato nuovi per un'iniziativa editoriale, che, pur ancorata ad una linea politica diametralmente opposta a quella del Fronte, si fosse posta lungo la prospettiva di colmare una lacuna nel mercato dell'informazione.
Per il vero, occorrerebbe osservare che il “Fronte”, nella sua pur breve parabola, si era mantenuto fedele a sé stesso; vale a dire all'originaria e mai tradita impostazione da bollettino del C.L.N., che per ragioni di marketing dava spazio ad un'essenziale cronaca locale.
In ciò dimostrando la quasi totale assenza dei fondamentali, in termini di risorse economiche ed umane, per fronteggiare il ben più impegnativo compito di fornire un prodotto, che, sia pur collocato a sinistra, potesse reggere il mercato dell'informazione locale.
Andrebbe, infine, aggiunto, che la ‘materia prima' del “Fronte” venne a rarefarsi nell'arco del triennio per esaurimento; in quanto vennero meno le notizie di arresti, processi, condanne, profili dei caduti, decreti dei C.L.N., avvisi emergenziali e quant'altro nel avevano fatto, unitamente all'emittente “Radio Cremona”, un agile, essenziale strumento di informazione.
Finita l'emergenza, si sarebbe dovuto inventare un nuovo format.
Sia come sia, le sinistre, sicuramente, sottovalutarono le potenzialità sinergiche legate alla scelta di lasciare il campo libero ad una voce “indipendente”, e si ritirarono nel “fortino” della stampa di partito.
Che, a livello nazionale e locale, rappresentava un net-work poderoso, essendo dotata di testate nazionali (l'Avanti! e l'Unità) di prestigio e di presa su una platea di massa rafforzata da militanze sterminate; oltretutto, articolate in edizioni di vasta area regionale (Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli), facilmente veicolabili attraverso una filiera di distribuzione volontaria, in grado di esaltare la sinergia col contatto personale capillarizzato del porta a porta.
A livello provinciale, in aggiunta a ciò, le sinistre avevano rilanciato, già dall'insurrezione, le rispettive testate locali, L'Eco del Popolo e Lotta di Popolo, in grado di raggiungere settimanalmente e, soprattutto, negli appuntamenti nevralgici delle elezioni e delle lotte sociali, decine di migliaia di lettori-abbonati.
Verso cui l'opera di informazione politica e propagandistica e, per alcuni versi, di approfondimento culturale e di emancipazione civile, si sarebbe tutto sommato rivelata agevole.
Ma tutto ciò apparteneva a concezioni della politica e del costume in via di superamento, per effetto di una svolta che avrebbe reso obsoleti canoni, radicati profondamente nel modo d'essere del movimento di massa, ma estranei ad una mentalità che si andava affermando; anche per un effetto di trascinamento dello sforzo di occupare il “centro”, vale a dire le fasce di opinione moderata.
Su questo terreno per un modello di informazione e di propaganda, pur nei suoi limiti ben interpretato dallo stesso Fronte Democratico, sostanzialmente di stampo prefascista (per non dire ottocentesco), non ci sarebbe stata partita.
Del che le sinistre non ebbero neppure il tempo di dolersi, se non troppo tardivamente.
Ma ebbero la consapevolezza, questa sì in tempo reale, di un cambio di passo, quando, a contatto delle rotative, che stampavano i loro organi, avvertirono che stava per cessare quella sorta di res nullius, costituita dalle spoglie del patrimonio giornalistico-editoriale farinacciano.
Andrebbe, infatti, aggiunto che L'Eco veniva stampato presso la Società Editrice Cremona Nuova, lo stabilimento del gruppo editoriale, presso cui venne stampato per anni il Regime Fascista, dotato di ottime maestranze e di tecnologie d'avanguardia; indubbiamente arricchite dalle attrezzature tipografiche avanzatissime graziosamente donate da Hitler al ras cremonese, a suggello della devozione al Fuehrer.
Una di quelle attrezzature pare esista tuttora tra i macchinari di valore storico del gruppo grafico-editoriale.
Per inciso, una seconda rotativa, se non andiamo errando, era stata donata dal capo supremo del nazismo alla testata “Voelkischer Beobachter Zeitung”.
Le due testate, gemellate dal comune modello di rotativa donato da colui che in quel momento poteva essere considerato il padrone d'Europa, avevano in comune anche la matrice politico-ideologica, essendo il primo la voce del gerarca ‘più fascista d'Italia'.
E la seconda, nata come bisettimanale di ispirazione fortemente antisemita, dopo essere stata acquistata per 60.000 marchi, su suggerimento del capo delle S.A. Ernst Roehm, dal maggiore generale Ritter von Epp e dallo stesso donata al Partito Nazional-Socialista, era diventata a partire dal 1926 organo ufficiale del medesimo.
La chiosa, infatti, non intende solo richiamare una curiosità storica, bensì inquadrare anche uno degli aspetti dello scontro politico e sociale della fine degli anni quaranta, incentrata su quella che, con linguaggio attuale, potremmo, definire la scalata per la proprietà delle spoglie di quello che fu l'impero editoriale di Farinacci.
Un “impero”, senza tema di indulgere all'iperbole; sol che si pensi che il Regime Fascista era arrivato ad una tiratura di 150.000 copie con 90.000 abbonamenti (per un ordine comparativo, il Corriere della Sera nello stesso periodo tirava 600.000 copie).
Un'impresa nata, potremmo dire, da un'intuizione seguita alla questua tra i sostenitori del farinaccismo, gli agrari, e confluita, all'apogeo della carriera del ras, nel suo patrimonio personale, che, secondo quanto dichiarato nel corso dell'inchiesta della Commissione per gli illeciti arricchimenti, ascenderà nel 1943 a 50 milioni (attuali 15 milioni di Euro).
Della transizione della proprietà dall'assetto societario al patrimonio privato di Roberto Farinacci abbiamo una attendibilissima ricostruzione, dovuta alla penna dell'Avv. Giacinto Cremonesi, che sulla seconda pagina del “Fronte Democratico” del 2 agosto 1945 scrisse: “Come fu che Farinacci si ‘appropriò' le azioni di ‘Cremona Nuova' “:
Il patrimonio della Società An. Cremona Nuova nel suo complesso di beni mobili ed immobili (fabbricato, giornale, tipografia) appartiene in tutto od in parte, ovvero per nessun grado né aspetto all'avvocato Farinacei, sebbene sopra 32.000 azioni ben 28.000 sieno a lui intestate?
L'oro del Reno
A questa domanda che poneva a se stessa, la Commissione di Brescia dopo aver rilevato che le residue quattromila azioni appartenevano, almeno apparentemente, in numero di 180 ad Antonio della Corna, di 1500 ad Enrico Varenna, di 2200 a Nino Mori, di 1900 a Giuseppe Moretti e di 140 alla Maria Antonioli, rispose con un lungo e talvolta oscuro ragionamento che il patrimonio della ‘Cremona Nuova' non apparteneva al giornalista Farinacci, ma al giornale perché le varie centinaia di migliaia di lire che erano state sborsate dai suoi ammiratori erano state date non a lui ma al giornale e pel giornale, per cui il patrimonio della Società Cremona Nuova dovevasi considerare una fondazione!
Non è questo né il momento né la sede per stabilire se la reale posizione giuridica dell'ente fittizio creato dagli esperti di Farinacei, con a capo l'inseparabile finanziatore Varenna, rispondesse alla costruzione fattane dalla Commissione.
Certo si è che con questa trovata, piuttosto brillante, la Commissione la Commissione dopo aver condannato l'avvocato Farinacci per evasione all'imposta, lo espropriava quale capitalista, estromettendolo dal dominio di quel massiccio e redditizio palazzo – l'Oro del Reno – che aveva visto curvarsi molte schiene ed ottenebrarsi molte coscienze.
Ma per venire a queste conclusioni essa dovette indagare sulle sovvenzioni che industriali, banchieri, affaristi e persino la Latteria Soresinese, questa per lire 228.000 avevano largito a Farinacci.
La Commissione nota che posteriormente al 1939, cioè quando già sorgeva il nuovo fabbricato, contribuirono il sig. Garbaccio di Biella con 100.000 e per uguale importo il sig. Gaetano Marzotto e per altrettante la Banca Bellinzaghi, con 1.200.000 il sig. Brusadelli ed amici, con 125.000 i sigg. Candiani ed amici, con 250.000 i signori Lo faro Vittorio e Vittorio Rodelli, con 200.000 il sig. Piazza Carlo, con 300.000 il sig. Soldi, e nuovamente il predetto sig. Brusadelli con l'amico sig. Martinetti con 200.000 lire.
Agente della Ghestapo
Oltre agli incassi noti, ve ne furono altri non noti, di un genere affatto speciale.
Il defunto Questo Barbagallo nell'agosto 1943 mi diceva che qualche mese prima del colpo di stato, Farinacci aveva incassato dall'Ambasciata Germanica direttamente, fuori sacco, si direbbe in linguaggio postale, trecentomila lire.
Farinacci doveva essere uno dei più accreditati agenti della Ghestapo.
Malgrado le vistose immissioni di denaro, la Società appariva continuamente in perdita: per L. 55.930 nel 1934; per L. 58.673 nel 1925; per L. 387.528 nel 1936, per L. 528.000 nel 1937.
Frode al fisco?
Sì frode al fisco, ma anche frode al prossimo fascista.
Col sistema della Società fittizia, le cui azioni erano passate con stile perfettamente fascista come carta straccia in su mani, Farinacci poteva accreditarsi sul bilancio sociale di una somma notevole a titolo di stipendio e precisamente L. 110.000; stipendio che nel 1943, al suo ritorno dalla Germania elevò a L. 470.000 e contemporaneamente poteva bussare a denaro conservando la purezza.
Chi incassava non era lui, ma… pel grosso pubblico, si intende, la Società tutta votata all'idea fascista.
Ma gli avvenimenti del luglio mettevano in luce… il retrobottega.
Il Prefetto Trinchero, coi poteri dell'art. 19 della Legge Comunale, sequestrava il Regime affidandone l'amministrazione ad un magistrato, l'avv. Acotto, che assistito dal rag. Lucchi procedette a tutti gli accertamenti del caso.
Vennero così alla luce e furono documentate le contro-lettres dei finti azionisti che attribuivano la totalità delle loro quattromila azioni a Farinacci, il quale si decisi al fine di gettare la maschera ed a rivendicare a sé la proprietà della Cremona Nuova con queste parole da ‘Re Sole' provinciale, invero poco rispettose della grammatica e della sintassi: ‘Ora in sostanza, la Società nata per stampare un giornale fascista, il mio giornale, la società è il giornale come io sono la Società.
Lui era la società. Ma la società… come società era passiva anche se possedeva un magnifico palazzo dotato di modernissimi ed ambiti appartamenti, di una fiorente tipografia dotata delle macchine più moderne e di mobili, di un magazzeno in cui stava ammassato con poco riguardo alle disposizioni annonarie uno stok di carta valutato, nel luglio 1943, a sei milioni!
Ma che importava stabilire il valore di tutto questo ben di Dio, esso era crusca del…diavolo e veniva tolto al suo possessore campione di purezza e difensore non desiderato né desiderabile della fede cattolica.
Resterebbe ora da dire dei cinque milioni e mezzo di Buoni del Tesoro, dei sei milioni centoventinovemila lire investiti in titoli industriali, della biancheria, dei libri, dei capi di vestiario et similia, valutati un milione ottocentodiciannovemila lire e di varie casse circolanti un po' dappertutto”
Questa fu la ricostruzione, effettuata dall'avv. Cremonesi, della modalità di formazione di quel vasto patrimonio, costituito dall'azienda tipografico-editoriale facente capo al Ras.
Un'impresa, che sarebbe stata destinata ad accrescere enormemente il suo peso politico e personale; soprattutto a partire dal 1926, quando il quotidiano, essendo Farinacci segretario del PNF, passò, grazie ai buoni uffici del brasseur d'affaires Enrico Varenna, sotto l'influenza finanziaria del Banco di Roma, e beneficiò del know-how tecnico-commerciale di Arnoldo Mondadori.
Come il Regime Fascista anche la Società Cremona Nuova sarebbe caduta nella polvere del crollo del regime, quello con la r minuscola.
Allo stesso modo, tutti i beni materiali ed immateriali, attribuiti al dominus del fascismo cremonese, furono oggetto, nella fase di transizione dal caos determinato dalla fine dello Stato fascista, di una sorta di res nullius, legata allo status di illecito arricchimento ed oggetto di spoil-system, da parte dei vincitori; fin tanto che, ovviamente, l'emergenza non sarebbe stata ricondotta ad ordine.
La normalizzazione riguardò anche i beni sottoposti ad indagine.
A quel punto, conteranno i nuovi poteri economici, le complicità tra di essi ed i nuovi poteri politici, la voglia di rivincita dei potentati sconfitti dalla Resistenza; fino a giocare una partita decisiva per la configurazione della mappa del nuovo potere in provincia di Cremona.
La querelle, avviata dalle pagine de L'Eco, coinvolse un intreccio di categorie polemiche, almeno tante quanto erano gli interessi coinvolti nell'operazione.
Le danze, per così dire, furono aperte dal filone delle punzecchiature rivolte al ceto intellettuale che avrebbe dato corpo all'apparato redazionale del circuito informativo del nuovo (vecchio) establishment.
Un ceto, reclutato, una volta dissolti i pericoli di epurazioni o di spiacevoli sanzioni, prevalentemente nelle fila della intelligencjia del vecchio regime, tutt'al più tra gli eredi, intesi propriamente come rapporto di padre-figlio, della generazione di quadri intermedi che avevano costituito l'ossatura, per non dire lo zoccolo duro dei ceti piccolo-borghesi favoriti dal potere di Farinacci.
Per decenni sarà, infatti, quello l'habitat di reclutamento delle leve redazionali, che, già dagli anni cinquanta affrontavano il battesimo di fuoco del giornalismo militante (di destra) nell'esperienza neo-fascista e nella testata studentesca del “Mappamondo”.
Prima nella fase immediatamente post-insurrezionale, c'erano stati, é vero, timori ed imbarazzi; ma, quando l'impresa fu abbozzata, erano già alle spalle.
Non tutti erano caduti in piedi, con la caduta di un sistema di potere, che, lo si ricordi, rappresentò l'esaltazione, l'Eldorado, del ceto medio, della borghesia piccola piccola, in grado di fornire il personale, di livello medio-basso, all'intelaiatura dei sindacati e dell'associazionismo di regime, della macchina propagandista, della stampa.
Qualcuno si flesse, sia pure temporaneamente, ma non si spezzò.
Sotto questo profilo si rinvia alla lezione di “Una vita difficile” del regista Dino Risi, uno spaccato di deriva conformistica dell'epopea resistenziale.
Vi furono anche da noi giornalisti alla Franco Fabrizi, passati dalla Resistenza a più confortevoli approdi professionali; giornalisti che fino al 17 aprile 1948 avevano entusiasticamente professato nella redazione del Fronte e che il 19, dopo aver abiurato la testimonianza antifascista e, se non propriamente rispolverato, almeno, non si sa mai, ammiccato ai trascorsi del ventennio, rinnegati il 25 aprile in fase di lesta salita sul carro del provvisorio vincitore, offersero i loro servigi ai nuovi padroni.
Doveva aver pensato a quelle debolezze umane Robin Hood, scrivendo sul n° 62 del L'EdP la rubrica “Punti esclamativi”:
La vecchia ‘Rastellina', ovvero il giornale ‘La Provincia', organo un tempo degli agrari, della polizziottaglia e della prefettura cremonese, vorrebbe risorgere ad opera d'un gruppetto di speranzosi nostalgici.
Si sente proprio il bisogno d'uno scalcagnato bidone ove deporre il superfluo del pettegolezzo cronacaiolo di giornalisti a spasso!
Il successivo n° 74 metterà altra benzina, sempre nella rubrica “Punti esclamativi”:
A Cremona, ennesimo tentativo di evocare dal mondo dei fantasmi la ‘Gazzetta della Pavana'.
Dal connubio liberal-qualunquista-agrario e neo-fascista nascerà (se nascerà) un ben misero feto!
Ed in crescendo inarrestabile, di nuovo sotto i “Punti esclamativi” del L'EdP n° 82:
Questa é carina. Gli agrari cremonesi, per varare la sconquassata ‘Cassetta della Pavana', erano andati da Mario Borsa, l'ex direttore del ‘Corriere della Sera', perché ne accettasse la direzione.
Respinti in modo non troppo elegante ora dicono che non può accettare perché ammalato.
Ci é mancato uno spettacolo!
Veder Borsa prendere gli ordini di scuderia da Grassi, Gosi e Donarini!
Il più bersagliato, tra questi, appare dalla lettura della stampa socialista dell'epoca, Mauro Masone, destinato ad assumere una delle prime direzioni della testata della “Libera”, cui sarebbe tornato, alla fine degli anni sessanta, dopo una significativa parentesi alla prestigiosa esperienza di direzione del Sole-24Ore.
Cui sarebbe approdato, qualcuno avrebbe documentatamente scritto anni dopo, in forza non tanto della giovane età e di un indiscusso “mestiere”, quanto del titolo di rappresentanza dei collegamenti con la non troppo occulta influenza nord-americana.
Qualcuno arriverà a scrivere addirittura di una vera e propria appartenenza di Masone, anzi dei Masone, all'intelligence o comunque alla trama di fedeltà alle ragioni atlantiche.
Fino al punto che il giovane Mauro, secondo una leggenda metropolitana circolata a lungo negli ambienti della sinistra cremonese, costituì il bersaglio, andato a vuoto per un fortunato disguido, delle attenzioni di gruppi paramilitari.
In ogni caso, l'audience presso la sinistra di questo capostipite del ceto che avrebbe fornito le risorse umane al rinascente potere mediatico della destra politica ed economica, é deducibile dall'asprezza polemica, già percepibile nei corsivi soprariportati, che non risparmiò di attaccare anche i genitori.
Come si può facilmente constatare nel lungimirante “E allora?”, riservato già il 4 maggio 1946 al padre del futuro direttore:
Dopo la liberazione apparve nella nostra città – preceduto da un bel trafiletto di marca liberale sul ‘Fronte democratico' il Ten. Col. Masone Aquilino.
A riconoscimento delle sue gloriose gesta durante l'occupazione nazi-fascista, con la protezione di un noto professore del partito liberale fu nominato Presidente della Commissione militare per l'esame dei fascisti rinchiusi nella Paolini.
Sembrò dapprima che il Masone volesse far fucilare tutti, ma poi... pensò che anche quei poveri fascisti erano figli di Dio e pertanto avevano il diritto di vivere.
Da qualche mese il Ten. Col. Masone é stato assegnato dal Ministero della Guerra al Dipartimento Militare di Cremona con incarichi civili ed egli ha creduto opportuno di insediarsi in divisa anche alla Segreteria del Partito Democratico Italiano – forse a dispetto dei liberali che l'avevano protetto – dove esercita indisturbato le sue funzioni con promesse, lusinghe e...minacce per i riluttanti ad iscriversi.
Con l'aiuto di un ineffabile giudice, pure assai noto per l'opera di epurazione fascista, ha compilato la lista monarchica per le elezioni amministrative con i risultati ormai ben noti a tutti...
Esiste, se non erriamo, un noto articolo 66 della Legge elettorale che vieta ai sacerdoti ed agli ufficiali di fare propaganda politica.
I primi, dotti, astuti ed intelligenti sanno salvare le apparenze, il nostro eroe invece che ‘che non sa di latino' perché non cerca almeno di mimetizzarsi in vista del prossimo referendum per la scelta fra monarchia e repubblica?
Ed il Comando del Presidio cosa ne pensa dell'attività politica di questo valoroso ufficiale?
Non é dato sapere come sia finita la querelle col Masone-padre, che tra l'altro, come ha ricordato Antonio Leoni nel corso di un recente convegno dell'ANPI, fu uno dei più attivi promotori (fintanto che non vide delusa l'aspirazione a divenire Comandante di Piazza del C.V.L.) dell'organizzazione militare antifascista.
Indubbiamente, non appare, alla luce degli sviluppi successivi, una forzatura l'individuazione di Masone jr come uno dei più autorevoli, a dispetto dell'età, referenti del potere che si andava delineando.
Un'autorevolezza, inequivocabilmente suggellata dall'assunzione della direzione del più accreditato quotidiano economico, ma esaltata, nel panorama cremonese, da quello che erroneamente potrebbe essere avvertito come un passo indietro; rappresentato dalla successione, dopo il lungo periodo di Fiorino Soldi (che era stato qualche anno prima fondatore del “Fronte della Gioventù”), al vertice de “La Provincia”.
Dove approderà, una volta che l'establishment agrario ebbe lasciato ormai alle spalle il preconcetto contro le demo-plutocrazie e completato la parabola di convergenza verso la fedeltà atlantica, in una inedita posizione nel rapporto con la proprietà.
Inedita perché i predecessori ed i successori di Masone, benché al vertice del quotidiano, erano e sarebbero stati “dipendenti” di ‘lor signori'.
Un altro futuro direttore del giornale agrario venne, per i continui cambiamenti di fronte, svillaneggiato da Patecchio in “Risposta non come la vorrebbe “ del 7 giugno 1946:
Uno sgrammaticato giovincello che dirige (!) l'organetto cremonese della Democrazia del Lavoro…altrui (sotto l'ispirazione d'un vecchio sciuscià di Farinacci divenuto antifascista perché dopo lunghi servizi il regime non più lo volle per ragioni razziali) lancia sotto il sottoscritto stolide accuse e ridicole fandonie.
Il prefato giovincello è lo stesso scioccherello che per esser stato, meritatamente bocciato da un degnissimo professore gli inscenò contro una campagna denigratoria e poi quando vide che le autorità competenti gli minacciavano serii provvedimenti (espulsione da tutte le scuole dl regno) corse a piagnucolare ed a raccomandarsi al bravo professore che molto magnanimamente gli perdonò.
Nella citata sbrodolante prosa l'autorello, che nulla aveva compreso del concetto del mio articolo preso a pretesto per stolidi attacchi, prevedeva che lo si sarebbe chiamato reazionario, conservatore, fascista, ecc.
Ma no, allegro giornalista e poderoso pensatore sui Sunti letterari del Guastarelli, il titolo di reazionario, conservatore, ecc, va riserbato agli avversari che dimostrino almeno di avere una certa preparazione politica e un certo spirito logico.
Coi pari suoi invece è tutt'atra cosa e solo per farle piacere le si potrebbe conferire il baccellierato in leggerezza e la laurea in malcostume giornalistico, dato che, coi suoi studi, nonostante i meriti partigiani, non è riuscito a strappare dalla pur infinita misericordia del corpo insegnate uno straccetto di diploma di maturità.
E se i socialisti, come ella dice, vogliono la guerra civile, i laburisti, come lei, vogliono invece la guerra alle commissioni d'esame, al greco e alla filosofia.
Le basta?
I presi di mira dai corsivi patecchiani costituiranno, di lì a poco, l'asse portante del corpo redazionale del nuovo quotidiano agrario.
Impegnati sì a professare ogni giorno, a fianco delle seguitissime e trainanti necrologie e buone usanze, delle mirabolanti cadute dalla bicicletta di ottuagenarie e della pesca di giganteschi cavedani, una linea editoriale in grado di tradurre nella percezione di massa gli in-puts su chi comandava e su chi si doveva osteggiare; ma sempre in posizione dipendente.
Tutt'al più, sulle sinergie tra potere politico e potere economico, nel ruolo di discreto consigliere, sovente inascoltato a causa della prosopopea del “padrone”, che sul quel terreno riteneva di poter fare da sé.
L'indebolimento della caratura delle leadership successive, ai vertici dell'Associazione di Piazza del Comune, aprirà naturaliter spazi di “parità” tra il “principe” ed il “consigliere del principe”, fino a fare di quest'ultimo, per il, se non proprio prestigio, peso della testata nella comunità locale, il maitre à penser del primato della categoria sulla comunità locale.
Anche se, per il vero, bisognerebbe dire, anziché peso della testata locale, peso determinato dalla condizione dell'essere la direzione de “La Provincia” il crocevia di un complesso sistema di liaisons tra poteri propriamente politici e poteri economici ed associativi.
Nel cui ambito, oggi più di allora (perché la politica si é indebolita più di quanto si sia indebolito - ove fosse stato possibile - il carisma della classe dirigente), la barra era ed é tenuta dal binomio “Libera-Provincia”.
In breve e sommariamente, quelli saranno gli sviluppi delle motivazioni e delle intuizioni, che ispirarono la crème del potere locale ad impossessarsi, in una sorta di continuità motivazionale con le ascendenze del ventennio tramontato, di un ganglio nevralgico della comunità: l'informazione.
Come abbiamo visto, la sinistra, decidendo di chiudere l'esperienza del “Fronte”, non volle o non poté contendere all'avversario questo terreno di sfida.
Ma sicuramente ne intuì i pericoli.
Analizziamo, a questo punto, le testimonianze in tal senso.
Alichino, uno dei tanti inesplorabili pseudonimi del settimanale socialista cremonese, scrisse il 16 novembre 1946 “Monarchici ed agrari”:
I burgravi cremonesi, così li chiamerebbe Victor Hugo, dell'agrarismo e del monarchismo son partiti risolutamente all'attacco subdolo e demolitorio di Cremona democratica.
Non passa numero che dall'alto della loro bigoncetta del “Mattino d'Italia” surrogato milanese di “Democrazia Liberale” essi non perdano ogni occasione di attaccare i nostri uomini e le istituzioni cittadine.
Si chiama “quotidiano di opposizione” questo libello da quattro soldi e la sua opposizione si riduce ad una assoluta malafede e ad una spudorata e stupida derisione degli uomini e dei loro eventuali difetti fisici.
Lo stile “padussiano” che lo informa, blasé come gli autori o l'autore mal nasconde la viperina virulenza che rasenta la calunnia come unica arma di attacco.
Queste mosche cocchiere del monarchismo, questi fringuelli acciecati della reazione come simpaticamente gorgheggiano all'ombra della forzuta pianta che li ha accolti.
Carini, perdio! Come ce li patulleremmo a biscottini sul naso se li avessimo qui a noi davanti!
Ed oggi sono i beniamini delle dame della crème borghese e capitalista cittadine.
E nutrono le loro piccole menti dei pasticcetti ibridi che, con gridolini di ammirazione, le beate e i beati possidenti propinano loro.
Ma si, egregi compari, fate pure dell'ironia sulla nostra prosa aspra e plebea. Fate pure dello spirito sulle sacrosante qualifiche di reazionari e monarchici che vi affibbiamo.
Tanto la siete sul serio. Tanto lo siete sempre stati e lo sarete.
Vi sta addosso questa denominazione come la condanna del ‘delatore' del Porati.
O giovinetti impecoriti che saltabeccate come fioriti montoni sulle verdi frescure del patrio giornalismo! o vecchie figure, o figuri del defunto ‘Regime Fascista' cacciati una volta non per antifascismo, ma perché il padrone non ne voleva più sapere! godete ora voi della libertà e della democrazia che i nostri poveri giovani compagni han per voi conquistato coll'imputridire ora tranquillamente sotto la terra di tutti i morti partigiani.
Godete, ora, ineffabili compari, dei benefici della libertà e ne approfittate per tentare di soffocarla.
Non ci riuscirete. Ciò é tassativo.
Ma voi vi sforzate coi vostri scambietti, colle leziosaggini, colle spiritosaggini, colle stupidaggini.
Poveri untorelli.
La libertà é con noi e irride su tutti i vostri sforzi maldestri e maligni.
E la saga degli attacchi e delle punzecchiature, rivolti dalla fervida penna zanoniana malcelantesi sotto una miriade di pseudonimi, continuò a lungo, fino a cementare nel tempo una ricambiata antipatia, che solo il tempo, lo stemperamento delle asperità, l'assunzione da parte dei socialisti di responsabilità governative (che li renderanno attraenti agli occhi di una categoria mai doma nell'intercettare beneficenze).
Ma, a quel tempo, ci si rivolgeva con “Stampa reazionaria” del 23 ottobre 1946 di “Ezzelino”:
È impressionante il moltiplicarsi ed il dilagare della stampa reazionaria.
Nel novembre-dicembre 1945 faceva timida apparizione in Cremona il giornale dell'U. Q.
In questi ultimi mesi le nostre edicole sono letteralmente coperte di giornali e di riviste reazionarie da la “Rivolta Ideale” ad “Oggi” ed il popolo che ha liberato il paese dal nazifascismo stenta a trovare la stampa veramente democratica.
Noi sappiamo cosa intendiamo per democrazia: governo di popolo.
Ora tutta la stampa reazionaria é contro il popolo.
Posta in questi termini la questione noi domandiamo al popolo se é disposto ad assistere indifferente ed impassibile a queste provocazioni.
I reazionari approfittano della libertà per insolentire, avvilire e calunniare con la bava alla bocca tutto quanto é democratico.
È di ieri la battuta del commediografo umorista Mosca: partigiani uguale a ladri.
La possibilità di esercitare così spavaldamente ed impunemente una sporca propaganda di stampa ha messo nelle teste di molti che partigiani socialiste ed altre forze progressiste siano scomparse dalla circolazione per lasciare il posto ai briganti neri.
Il popolo deve reagire a questa perfida azione per dimostrare a questi venduti sporcaccioni che il popolo lavoratore che ha combattuto per liberare il paese non é assolutamente disposto a sopportare violenze”.
Non meno sferzanti furono i “Punti esclamativi!” del 26 aprile 1947:
“Uscirà martedì prossimo, plaudente l'ombra di Farinacci, un quotidiano qualunquista e fascista ‘La Provincia del Po'.
L'articolo di fondo, omaggio all' heri dicebamus, sarà intitolato ‘Eccomi di ritorno' (dal titolo dell'editoriale, apparso sul Regime Fascista, al ritorno del ras a Cremona dopo lo smarrimento del 25 luglio 1943 – nda).
Gli agricoltori cremonesi, per dar lavoro ai disoccupati, hanno sottoscritto al prestito comunale la cospicua somma di lire seicentomila (lire cento a testa).
Oggi però finanziano il succitato giornale reazionario.
E sempre a fin di bene.
Per dar lavoro ai poveri giornalisti fascisti disoccupati!
L'edizione n° 132 de L'EdP annotava un'incongruenza, derivante da “Lo sciopero dei giornalisti”:
Anche i giornalisti hanno dovuto fare il loro bravo sciopero, se hanno voluto piegare la resistenza dei propri datori di lavoro – i proprietari dei giornali – e costringerli ad accogliere le loro richieste di miglioramenti economici. (...)
La maggior parte dei giornalisti che hanno scioperato, sono proprio quelli che ad ogni agitazione e ad ogni sciopero di contadini, o di operai, o di impiegati, spinti a ciò dalla crudezza delle condizioni economiche, impugnan solleciti e fieri la stilografica per buttar giù l'articolone di prammatica – su misura – contro il pernicioso dilagare degli scioperi, contro i lavoratori mai contenti e chi più ne ha più ne metta.
Sono quegli stesi, che scrivendo al servizio dei giornaloni di destra e di chi li sovvenziona, sono usi a dire che la lotta di classe un'invenzione diabolica di comunisti e socialisti, per uso e consumo degli agitatori di professione, e via dicendo (...)”
Solo qualche colonna oltre, nella stessa pagina, Il Pippo ne “Il diario della Settimana” annotava con buona dose di ironia:
“(...) Esco a spasso disoccupato. Già c'é lo sciopero dei giornalisti.
Speriamo che questa pausa nel lavoro non venga interpretata come dal governo come incentivo per mettere il prezzo politico del pane! di tutto il resto, si dà colpa ai lavoratori.
Scioperassero le ostetriche ne approfitterebbero i fabbricanti di cinture di castità per aumentare i prezzi. (...)
Giornata campale. Tre colleghi di Cremona fermati dalla questura; quattro carabinieri ad ogni edicola. Sta a vedere che i 12 che a Cremona esercitano il quinto potere minacciano la quieta pubblica.
Esce il ‘Mattino' redatto dagli amministratori.
Il pubblico dice: ‘Ecco una volta tanto un giornale fatto bene'.
Esce ‘l'Italia' quotidiano del qualunquismo bigotto, La parola di Dio non tollera scioperi. (...)
Ultima smentita. Masone Giampi nega di aver intenzione di mutare la testata del giornale super agrario La Provincia in Regime Fascista (...).
L'attenzione rivolta al fervore comunicativo del fronte opposto é testimoniata, nell'edizione n° 134, da due pezzi del settimanale socialista.
Il Diario della Settimana” de Il Pippo:
“(...) Esce in formato ridotto, la Provincia del Po... vero Farinacci organo clandestino del C.L.N. degli sfruttatori agrari e dei borsaneristi nostrali.
Viene accolto con giubilo e gli acquirenti vanno a spasso guardinghi come facevamo noi, nei venti mesi, cogli Avanti! e le deliberazioni del Comitato, sotto gli sguardi freddi dei tedeschi.
Giampi si atteggia a martire della sana causa dello schiavismo agrario (...).
“Pensierini in corpo 7. I clandestini”:
“(...) È una nuova primavera della patria! I vari Masone e compagni si atteggiano a vittime, fanno i clandestini pubblicando al ciclostile il giornale agrario.
E ciò è necessario per Bacco, bisogna difendere a tutti i costi la propria idea e quale ideale migliore quello di difendere il capitale, lo sfruttamento agrario, e l'ingordigia dei detentori della ricchezza.
Nella campagna frattanto i panciuti agricoltori si compiacciono liricamente.
‘Abbiamo anche noi il periodo clandestino! Formeremo tra poco il C.L.N. dei capitalisti sfruttati dalle pretese operaie'
Come tutto ciò è bello e soprattutto serio!
Non capiscono dunque questi catoncelli stercorari che annegano in un mare di ridicolo?
Lotta clandestina per difendere il capitale altrui e lo stipendio proprio.
Come si vede, proprio, per ricorre ad un neologismo abusato, non ci fu mai feeling fra socialisti e giornale agrario; e per un lungo periodo.
Se di tale inimicizia si ha traccia in “Noterelle cittadine” sul n° 11/54:
Colla uscita della ‘Cronaca', il nuovo quotidiano cittadino di informazione già affermatosi in città e provincia, al quale inviamo un augurio e un saluto, si è accesa una gara fra i quotidiani cittadini intesi a migliorarsi per controbattere la concorrenza.
In forma più elevata è la gara che tempo fa si era accesa fra due ristoranti di Corso Garibaldi prospicienti l'uno all'altro (Stagnino e Mantovana – n.d.a.).
Chi ci guadagna, indubbiamente, è il lettore il quale chiede soprattutto obbiettività e precisione.
Dote che prima non esisteva quando il monopolio della stampa di informazioni era nelle mani del gruppo agrario.
Qualità la seconda che veniva a mancare in quanto il ‘tran tran' quotidiano faceva sì che i cronisti si addormentassero sul tavolo di redazione davanti alle note ai comunicati ufficiali.
Viceversa oggi essi devono muoversi come braccianti che debbono procurarsi lavoro per la giornata.
La cittadinanza assiste così, soddisfatta, al duello, al match giornalistico fra ‘Cronaca' e ‘Provincia'.
Quest'ultimo giornale, sotto la direzione di Sprovieri, si era reso uggioso e tedioso perfino ai pantofolai del moderatismo cremonese.
L'uscita del nuovo giornale ha colmato, in parte se non in tutto, una lacuna.
Ora la ‘Cronaca' è in ascesa; la ‘Provincia' è in ribasso
Se essa vorrà sopravvivere, dovrà compiere sforzi di obbiettività e di democrazia.
Soprattutto dovrà dibattere i problemi della gente che soffre e che lavora”.
L'ignoto redattore delle ‘noterelle' probabilmente non è vissuto tanto per vedere smentita o delusa la sua aspettativa!
Riteniamo di aver fornito sufficiente campionario delle scaramucce in corso negli anni '46 e '47 ed oltre tra la risorgente informazione di destra e la testimonianza della denuncia del relativi pericoli per la democrazia, da parte dei socialisti cremonesi.
Il secondo corno, in aggiunta a quello, appunto, della riorganizzazione delle testate e del personale di redazione, riguardava, invece, la ristrutturazione complessiva del potere tipografico-editoriale.
Nel tramontato ventennio, fu un tutt'uno nelle capienti mani del ras; e tale avrebbe potuto essere anche nel nuovo scenario.
O almeno così pensò la ristretta oligarchia entrata nella stanza dei bottoni del potere economico e, come si avrà modo di avvertire, in quello politico, per quella sorta di intrecci che già erano alle viste.
Venne fatti ingaggiato un titanico scontro, che, partendo dalla scalata alla proprietà del gruppo editoriale di “Cremona Nuova”, coinvolse anche gli ambiti istituzionali e l'analisi delle dinamiche di impostazione delle sinergie tra potere economico e potere politico, in fase di delineamento.
Le danze, per così dire, furono aperte dal perentorio “Ridare ai lavoratori quanto é stato loro tolto – L'avocazione di ‘Cremona Nuova' –“:
L'azione degli organi provinciali, diretti a far si che il complesso tipografico ‘Cremona Nuova', già appartenente al ras Farinacci, torni al popolo di Cremona a spese del quale fu costituito, é in pieno sviluppo.
Il comp. On. Pressinotti ha diretto in questo senso due interrogazioni ai ministeri competenti oltre una generica sull'avocazione dei beni dei fascisti.
Al Ministero delle Finanze per sapere le ragioni che hanno determinato la Direzione della Finanza straordinaria a promuovere la procedura di confisca dei beni dell'ex gerarca Roberto Farinacci innanzi al Tribunale di Roma, sezione X, anziché innanzi al Tribunale di Cremona, ai sensi del D.L.L. 31 maggio 1945 n. 364 contenente le norme integrative e di attuazione del D.L.L. 27 luglio 1944 n. 154 per la parte riguardante l'avocazione e la confisca dei profitti di regime, dato che a Cremona é situata la maggior parte dei beni che si presumono di proprietà del gerarca.
Per sapere altresì i motivi che trattengono il Ministero delle Finanze dal rispondere ad un memoriale indirizzatogli dal Comune di Cremona in data 12 luglio 1946 nella quale il Sindaco in base ad una decisione della Commissione per gli indebiti arricchimenti di Brescia, del 15-24 giugno 1944, la cui efficacia giuridica e morale, non può essere disattesa, rivendicava al Comune i beni dell'ex Società ‘Cremona Nuova' gestiti dal gerarca Farinacci ai sensi della legge comunale e provinciale T.U. 3 marzo 1934 n. 363.
Al Ministero della Grazia per sapere se abbia o meno dato istruzioni ai Procuratori generali di interessarsi delle procedure concernenti l'avocazione dei profitti di regime, che ai sensi dell'art. 1 del D.L.L. 31 maggio 1945 n. 364, contenente le norme integrative e di attuazione del D.L.L. 27 luglio 1944 n. 154 per la parte riguardante l'avocazione e la confisca dei profitti di regime, si dovrebbero ora svolgere innanzi alle Camere di Consiglio dei Tribunali Penali nella cui giurisdizione sono situati i beni da confiscare e ciò con particolare riguardo alla confisca dei beni dell'ex-gerarca Farinacci, della quale é stato investito il Tribunale di Roma anziché quello di Cremona.
Al Ministero delle Finanze per sapere dall'On. Ministro delle Finanze i motivi che hanno indotto il ministero a non aderire, sino ad oggi, alle richieste inoltrate dalla Prefettura di Cremona per ottenere la nomina della Sezione Speciale avocazione dei profitti di regime.
Tutti i cittadini democratici si augurano pertanto che dall'azione degli organi responsabili della provincia, nonché dalle interrogazioni venga fatta la giustizia dovuta al popolo di Cremona.
Speriamo quindi che fra breve ‘Cremona Nuova' venga restituita al popolo compiendosi un giusto atto di riparazione e impedendo così in avvenire tutti i tentativi della speculazione qualunquista di far sorgere in provincia qualche fungo velenoso della stampa quotidiana verde o gialla”.
Più chiaro di così l'on. Piero Pressinotti non avrebbe potuto essere, nel rivendicare le ragioni che erano alla base delle aspettative dei socialisti cremonesi e, presumibilmente, dell'intero arco della sinistra, di finalizzare i beni, in particolare, i beni grafico-editoriali del detestato ras ad un uso di tipo comunitario.
In esso comprendendovi, logicamente, la possibilità di stampare permanentemente le testate presso l'impianto tipografico cremonese.
L'iniziativa parlamentare socialista fu riscontrata qualche tempo dopo da “Una sentenza del Tribunale di Roma in merito allo Stabilimento ‘Cremona Nuova' “, come annunciò la seconda pagina del “Fronte Democratico” del 12 novembre 1946:
L'Avv. Giacinto Cremonesi, legale del Comune di Cremona nella causa di avocazione dei beni di Farinacei e propriamente dello Stabilimento ‘Cremona Nuova', ci comunica che il Tribunale di Roma ha emesso una sentenza importante per il successivo disbrigo della pratica.
Il Tribunale di Roma, infatti, ha riconosciuto e dichiarato in una sentenza la propria incompetenza in diritto e in fatto a giudicare circa l'avocazione allo Stato del complesso industriale citato.
È logico ritenere che la declaratoria d'incompetenza condurrà la causa alla sua legittima giurisdizione: il Tribunale di Crema, come era stato auspicato dagli organi cittadini dei quali s'era reso interprete, in una interpellanza l'on. Pressinotti e come era reso necessario dalla logica della procedura.
Siamo ancora alla prima tappa di questa causa ma il successo iniziale è di buon auspicio per la prosecuzione in quanto è da ritenere che la magistratura cremonese, pur obbedendo alle strette norme di diritto com'è sua consuetudine e vanto, non trascurerà di tenere nel debito conto la necessità di una equa valutazione dei diritti della nostra città già sanciti, del resto, in una sentenza della Corte d'Appello di Brescia, sia pure nel periodo repubblichino.
Auguriamo che pertanto che il successo arrida al Comune di Cremona e che ‘Cremona Nuova' torni al popolo.
Nonostante la chiarezza di intenti e di espressioni del parlamentare costituente socialista e le rassicuranti affermazioni dell'Avv. Cremonesi, L'Eco del Popolo, forse temendo che non fosse stato perentorio, un mese dopo, il 16 novembre 1946 sul n° 81, dette avvio ad una campagna, che riservò una gragnuola di colpi all'avversario; anzi, come si vedrà, agli avversari.
Con l'articolo, titolato “Abbordaggio a ‘Cremona Nuova' – Il fascismo cacciato dalla porta rientra dalla finestra”:
Il 25 aprile 1945 il fascismo sotto forma del ras Farinacci, veniva cacciato dalle stanze e dalla tipografia di Cremona Nuova eretta col frutto delle rapine farinacciane a danno del popolo e quindi della legittima proprietà del popolo stesso.
In questo novembre 1946 il fascismo sta per varcare nuovamente le soglie del ‘Regime', sotto forma del rag. Grassi Guido, mercante di granaglie, squadrista e fondatore del fascio di Cavatigozzi, nonché per grazia divina deputato alla provincia, accomandatario e capintesta d'un egregio manipolo di suoi compari tutti capitalisti e tutti arraffatori in breve tempo di milioni.
Ma che é accaduto dunque tra il 25 aprile e questo novembre?
È accaduto che l'antifascismo si é andato frantumando sotto l'urgere del ritorno reazionario, é accaduto che il fascismo aiutato dalla burocrazia ha rialzato la cresta.
Oggi il fascismo, sotto forma del sullodato squadrista Grassi cav. Guido, fondatore ecc., rientra al ‘Regime Fascista' per aprirvi bottega di menzogna e di qualunquismo monarchico e fascista.
Lo spirito inquieto di Farinacci, all'inferno ove riposa, esulterà contento.
Dirà: - Perdio ecco gli antifascisti, conciati in bella maniera.
Il palazzo e il macchinario che io ho messo insieme col denaro rubato al popolo, servono ora ai miei alleati, ai neo fascisti qualunquisti.
Ma c'é di peggio.
L'abbordaggio al ‘Cremona Nuova' é un astuto tentativo per mettere le mani avanti e chissà che non riesca in un prossimo avvenire a mettevi sopra le sgrinfie.
400 milioni sono una bella somma.
Che ne dite Grassi rag. Guido, squadrista, mercante e fondatore?
Che ne dite voi Gobbi e Carminati, che ne dite tutti voi altri capitalisti cremonesi?
Il passo può essere breve.
Si incomincia col giornale, poi si ottiene in affitto tutta la tipografia, quindi sarà facile dimostrare che si é in credito e ottenerne dallo Stato la proprietà a titolo di risarcimento.
Amiconi, la manovra é chiara.
Camerati, la manovra é individuata.
Agite però coi piedi di piombo ché il popolo sa e vede.
Il popolo é stanco di queste sopraffazioni che si compiono sotto la maschera della legalità.
Il popolo impedirà che il suo patrimonio gli venga strappato dai soliti parassiti in fregola.
Attenzione capitalisti cremonesi non allungate troppo le mani sulla roba d'altri o potrà capitare una bella sorpresa.
Capito signori capitalisti restate nell'ombra nei vostri luridi buchi dove avete ammassate le male acquistate ricchezze.
Non siate troppo imprudenti.
Il popolo vigila.
Occorrerebbe precisare che, in uno sforzo molto approssimativo di attualizzazione valutaria, per quanto limitatamente significativo, i 400 milioni di allora corrisponderebbero a 5 milioni Euro d'oggi.
Difficile stabilire, sia pure in via del tutto approssimativa, la congruità dell'esborso (ove, naturalmente, l'importo supposto nell'articolo fosse verificato come vero) al patrimonio tecnico-commerciale rilevato.
Considerazione questa relativa, essendo preminente nella querelle l'aspetto politico; anzi, le connessioni col potere politico che nell'affaire stavano emergendo.
Ne diede una chiara configurazione “Fino a quando lo squadrista Grassi pontificherà alla Deputazione Provinciale?”:
Abbiamo già due volte, su questo giornale illustrato la personalità fascista e squadrista del Grassi rag. Guido, comandante di squadre di azione e fondatore del fascio di Cavatigozzi.
Ritorniamo oggi sull'affare per una semplice questione di onestà e di dirittura politica.
Il Grassi difatti, come é noto, é stato assunto ai fastigi della Deputazione Provinciale e siede ora nell'alto consesso alla pari coi suoi colleghi socialisti, comunisti, azionisti e democristiani anche di sicura fede antifascista.
Cosa rappresenta alla Deputazione il Grassi rag. Guido?
Rappresenta forse i suoi milioni accumulati in questi anni di miseria nazionale e di guerra?
Rappresenta quei milioni che l'on. Scoccimarro (ministro di grazia e giustizia – nda) dovrà, senz'altro, tener d'occhio quando si tratterà di colpire gl'improvvisi arricchimenti?
E cosa vuole oggi l'ex impiegatucolo alle imposte, uscendo dal suo comodo rifugio, per slanciarsi negli oscuri meandri della politica?
Vuol servirsi di questa per appagare il suo sogno di un trust granario in Italia, per essere inviato in Argentina come un esperto del reperimento grano?
Gli antifascisti di Cremona anelano di avere qualche delucidazione in proposito.
Non é di poco momento l'ascesa d'un ex squadrista e comandante dei fasci alle altezze vertiginose della Deputazione provinciale
Stia attento il Grassi rag. Guido.
La vertigine può dare alla testa e i Rabagas non trovano posto nella democrazia italiana, anche se una detenzione di quindici giorni sotto la repubblichina, per motivi incerti, può cingergli la fronte d'un alloro imperituro.
Torni ai suoi traffici commerciali, l'egregio commerciante in granaglie, torni al culto pio delle memorie quando aveva la piccola entrée da Farinacci e propinava alla Maria Antonioli pranzetti e liquori.
Dia retta a noi l'esimio mulinaio.
Si ricordi del proverbio ‘chi va al mulino s'infarina'.
E sappia che anche noi ricordiamo l'altro frutto della saggezza dei padri nostri ‘a can che lecca cenere non gli affidar farina'.
Per intanto sappiamo che la nostra Segreteria ha inviato al Signor Prefetto una legittima riserva sulla nomina d'un fascista alla Deputazione.
E i suoi neo colleghi come se la prendono?
Voteranno un ordine di fiducia in lui, sconfessando questo giornale e il sentimento popolare, o scinderanno invece le loro responsabilità?
O Grassi, o cocco del mio cuore, i milioni sembreranno a voi la quintessenza celestiale; noi siamo retrogradi.
Pensiamo che la dignità politica delle nostre rappresentanze valga ancora qualcosa.
Pubblicheremo prossimamente un altro importante documento a lumeggiar meglio i meriti squadristici del nominato. Masaniello”
Prescindendo dalla tempestata di stringenti quanto capziose domande retoriche, comunque finalizzate alla demolizione del personaggio di cui trattasi, vanno segnalati, a futura memoria, i cenni al “il suo sogno di un trust granario in Italia, per essere inviato in Argentina come un esperto del reperimento grano” e alla “piccola entrée da Farinacci e propinava alla Maria Antonioli pranzetti e liquori”.
A beneficio sia dei giovani lettori che di quelli dalle modeste conoscenze di diritto amministrativo, si aggiunge che per Deputazione Provinciale si debba intendere la progenitrice, nelle more della Costituente, del varo della Costituzione e dell'adozione della legislazione ordinamentale di attuazione, della futura (prima elezione diretta nel 1951) Giunta Provinciale.
Deputazione che, nominata dal C.L.N., fu inizialmente presieduta dall'Avv. Ennio Zelioli Lanzini, e composta, tra gli altri, dall'Avv. Giuseppe Cappi, eletto il 2 giugno all'Assemblea Costituente. Come è noto, all'Avv. Zelioli Lanzini, a sua volta eletto al Parlamento, subentrerà una presidenza ‘storica', quella dell'Avv. Giuseppe Ghisalberti (che resterà in tale carica fino alla morte, avvenuta nell'estate del 1970). Al seggio di deputato provinciale, reso vacante dalle dimissioni di Cappi, la Democrazia Cristiana decise, nel suo pieno diritto e a prescinder da qualsiasi problema di opportunità (checché ne pensassero gli autori degli articoli in questione), la cooptazione, appunto, del Rag. Grassi.
La Deputazione, per la cronaca, era composta da tre deputati liberali, tre democristiani ed uno per ognuno dei gruppi azionista, comunista e socialista (in tempi successivi, Alfredo Bottoli di Rivarolo del Re). Esattamente, all'inizio del 1946, la composizione della Deputazione era la seguente: Presidente – Avv. Ennio Zelioli Lanzini (subentrato, in forza del Decreto Prefettizio in data 24.2.1946, al dimissionario Prof. Alfredo Galletti, liberale), Ing. Giovanni Nolli, Aristide Silla, Avv. Giuseppe Cappi, Avv. Ettore Freri, Dott. Giuseppe Storti, Umberto Gallini, Dott. Orazio Ceruti, Arturo Ferrari (effettivi); Ernesto Caporali e Giovanni Sidoli (supplenti).
L'episodio fu ulteriormente sviscerato da “Candidi democristiani” del 9 novembre 1946, che, prendendola alla lontana, dimostrò repentinamente dove voleva parare:
Dicano quel che vogliono ma i maestri del doppio giuoco rimangono pur sempre i candidi democristiani.
La Democrazia Cristiana infatti cerca in tutti i modi di attrarre nella propria orbita gli elementi più disparati ed eterogenei pur di conservare quella forza che consenta di esercitare un decisivo influsso nella vita del paese.
Abbiamo esempi recenti da citare: l'imposizione ai socialisti e comunisti del ministro Corbino, indipendente ma solerte e fedele interprete della volontà della Democrazia Cristiana sui problemi di politica monetaria.
L'ultimo e più spasso esempio è quello offertoci dal De Gasperi che dopo aver diretto autoritariamente ed ininterrottamente dall'insurrezione al trattato di pace la politica estera italiana ha fatto condannare dall'esecutivo della Democrazia Cristiana il trattato di pace minacciando l'astensione dei rappresentanti del suo partito.
De Gasperi è stato l'artefice infaticabile di una politica estera antirussa contro gli interessi del proletariato italiano per appoggiare unicamente l'azione del Vaticano e degli Stati Uniti.
I risultati di questa politica sono stati così disastrosi che De Gasperi artefice massimo di questi errori si è rifiutato di porre la propria firma sotto il trattato di pace.
Tutto è in stretta relazione con la preoccupazione di perdere influenza nella massa dei lavoratori.
In proporzioni minori anche la cremonese democrazia cristiana si esercita nel doppio gioco con l'evidente intenzione di confondere le idee in vista delle prossime elezioni.
È veramente un tiro birbone quelle dei democristiani cremonesi in merito al loro rappresentante nella Deputazione Provinciale.
Facciamo un poco di storia per erudire i nostri elettori.
La Democrazia Cristiana doveva trovare un sostituto al dimissionario on. Giuseppe Cappi nella Deputazione Provinciale.
La Democrazia Cristiana che non ha preoccupazioni di partito ha voluto aderire ad una proposta sensatissima del Presidente della Deputazione Provinciale avv. Zelioli Lanzini (d.c.) per la immissione di un rappresentante delle categorie produttive.
Come tutti sanno non avendo la Democrazia Cristiana nel proprio seno agrari ed industriali il problema si prospettava arduo e difficile.
Comunque la democrazia Cristiana riusciva a trovare nel rag. Guido Grassi l'indipendente che faceva al suo scopo.
L'industriale arcimilionario squadrista rag. Guido Grassi di Cavatigozzi entrava così nella Deputazione Provinciale per designazione della Democrazia Cristiana, malgrado le più ampie riserve della Segreteria del Partito Socialista.
È evidente la necessità che lo Studio Legale che si è tanto preso a cuore la difesa del repubblichino Tirindelli sostenga oggi nelle cariche pubbliche un altro ottimo cliente dello Studio stesso.
L'uomo della strada si domanda come mai la Democrazia Cristiana non abbia rivolto la domanda all'organo particolarmente competente in materia per la scelta di un rappresentante padronale e cioè l'Associazione degli Industriali.
Che il designato di un partito abbia o non abbia la tesser poco importa.
L'essenziale era di scegliere elemento idoneo professionalmente e politicamente.
Ecco le prove del contrario:
‘Federazione dei Fasci di Combattimento – Cremona.
Fascio di Combattimento di Cavatigozzi.
Risposta al Foglio N. 4 ris. 2 – Sp. Del 10.12.1942
Oggetto: Squadre d'Azione.
All'Ispettore Federale della I Zona di Cremona
Vi segnalo i nominativi di fascisti componenti la squadra d'azione: Grassi rag. Guido, Pighi Mario, Gallini Marcellino, Fappani Mario, Rinaldi Pietro, Pighi Palmiro, Berettera Andrea.
Il Segretario del Fascio: Grassi rag. Guido “
Da ultimo, alla moda del botto finale degli spettacoli pirotecnici, apparve sul n° 83 del 30 novembre 1946 uno scalpitante “RAGIONIER GRASSI non inciampi nei sassi”:
Il Signor Grassi rag. Guido, industriale e squadrista, ha minacciato noi dell'Eco di una querela ‘anche in sede penale' dice lui (con scarsa cognizione giuridica) per quanto si é detto a suo proposito su questo giornale.
Dopo la pubblicazione, avvenuta sul quotidiano Fronte Democratico, dei due documenti (altri li teniamo in serbo) all'egregio ragioniere si debbon essere calmati i bollenti spiriti e una notevole distensione di nervi si deve essere in lui operata.
È un fatto che noi non ci lasciamo impressionare dalle parole grosse, usi come siamo a camminare terra terra e colle mani sulle carte probatorie.
Non si ecciti ragioniere.
Noi comprendiamo benissimo.
Lei è stato fascista antemarcia, ha fatto parte delle squadre d'azione staraciane e scorziane, ha fatto piena malleveria di sé a partecipare a spedizioni punitive.
Poi si è ravveduto.
Il 26 luglio 1943, con notevole disinvoltura che suscitò l'ammirata stupefazione dei suoi concittadini di Cavatigozzi memori di averlo visto fino al giorno prima assiso sullo scanno di gerarchetto del fascio, ha rotto e calpestato il ritratto del duce.
Bravo signor Grassi!
A noi le conversioni improvvise, specie se determinate dalle circostanze, fan sempre effetto!
In periodo repubblichino lei non ha collaborato coi nazifascisti, ha dato qualche migliaio di lire ai partigiani.
Di bene in meglio.
Con ciò ha cancellato la traccia di squadrista e di fascista, di rinnovatore del Fascio di Cavatigozzi.
Ma da ciò a pretendere di salire sugli scanni della Deputazione provinciale, puro ed intemerato come un reduce dagli esilii ventennali e dal confino, ci corre assai.
Lei, ragioniere, non ha il senso della misura.
E siamo noi antifascisti che ci facciamo dovere di ricordarglielo.
Sugli scanni su cui sedettero Garibotti, Morelli, Sasdelli, Miglioli, Delvaro Rossi e Sidoli, tutti provati antifascisti, lei non ha alcun diritto di sedere, lei fascista e squadrista, anche se pentito e penitente.
E si badi bene.
Non è per una questione personale che noi parliamo.
Se lei avesse continuato a badare ai suoi commerci, se lei non avesse avuto la fregola di far della politica e di imporsi all'opinione pubblica, noi avremmo taciuto.
Lei come persona (non se l'abbia a male) non ci interessa un bel nulla.
Quello che conta é il principio.
Oggi vediamo fascisti e monarchici tornar a galla, impiantar giornali che sono più o meno la voce del padrone di una volta.
Ma credete sul serio, fascisti e monarchici, che noi antifascisti e repubblicani siam disposti (parlando con pochissimo rispetto) a farci pisciare in capo?
Credete forse che abbiamo tutto dimenticato: miserie, umiliazioni, disperazioni, soffocamento della libertà?
Se credete ciò, siete in gravissimo errore e siamo qui a ricordarvelo.
Signor Grassi, dia retta al suo buon senso di astuto commerciante, si dimetta da deputato e viva in pace”.
In questo digressivo, ma, speriamo, non tedioso od irrilevante réportage dalle pungenti polemiche del 1946, farcite di molta retorica (com'era d'uso in quel tempo), é difficile stabilire se negli interessati suggerimenti di ‘Masaniello' fosse prevalente l'intenzione di disincentivare il personaggio dall'assumere incarichi istituzionali ovvero quella di ammonire rispetto all'ormai esplicita decisione di capitanare una cordata di interessi agro-industriali alla conquista del fu potere grafico-editoriale farinacciano.
Purtroppo, la serie polemica terminò col n° 83 de L'EdP; non si sa se per perdita d'interesse o per l'influenza, al di là delle guasconate di Masaniello nei confronti della minaccia di querela, di una siffatta evenienza.
D'altro lato, nell'economia del ragionamento principale che intendiamo sviluppare, un ulteriore approfondimento sarebbe ininfluente, tutt'al più marginale.
Ed anche l'aspetto, concernente l'ormai evidente collusione tra una parte della classe dirigente del ventennio e l'emergente potere politico democristiano, appariva metabolizzato; anche se ancora oggetto di aspre polemiche da parte dei socialisti.
Si ha, conclusivamente, l'impressione che il “rospo” fosse rappresentato dall'accertata ricostituzione della struttura dei poteri forti, destinati a pesare sui destini della Repubblica; in chiave ovviamente restauratrice.
In questi poteri forti, logicamente, era ricompreso quello forse più temuto dal movimento popolare e dalla sua rappresentanza politica e sociale: l'informazione.
Certamente, una certa influenza nel carattere abrasivo della denuncia avrà pure avuto l'ormai solare sgretolamento delle aspettative sanzionatorie, attraverso le epurazioni e le avocazioni dei profitti di regime, nei confronti degli intrecci politico-affaristici del ventennio.
Ma secondo noi, su un terreno quasi esclusivamente retorico; perché i buoi erano praticamente scappati tutti dalla stalla.
Tale scettica o fatalistica conclusione è facilmente deducibile dall'analisi della preoccupata denuncia insita nell'articolo, apparso qualche anno dopo sul n° 3/54 ed intitolato “Per la giusta soluzione del problema ‘Cremona Nuova' ”:
Da oltre un mese, il problema di ‘Cremona Nuova' sta al centro dell'interesse della pubblica opinione della città e della intera provincia.
Questo importante complesso industriale che sorse, sotto la falsa veste di Società, ma che in effetti trovava nella popolazione cremonesi i veri proprietari, in quanto l'erezione in società, di ‘Cremona Nuova' è servita a l'ex gerarca fascista Farinacei per nascondere la sua mano che si estendeva sull'intero complesso, e ancor più per ottenere come sembra dai vari enti economici e dalle varie e compiacenti casse pubbliche d'allora, i mezzi per la sua realizzazione, per varie traversie, sta correndo un momento preoccupante.
L'origine di tale stato di cose, deve soprattutto ricercarsi nella mancata soluzione a breve termine della vertenza sorta, tra lo Stato e gli eredi dell'ex gerarca, sul diritto di proprietà.
Tale condizione che dura da ormai nove anni, non ha permesso ‘si dice' a chi doveva agire di seguire in tale periodo non solo un metodo ed un indirizzo di conservazione del complesso, ma affrontare tutti i problemi che scaturiscono dalla necessità di consentire ad un complesso industriale di potenziarsi per rispondere e dal punto di vista tecnico, produttivo alle esigenze del mercato.
Infatti i vari sequestratari che si sono via via succeduti e i loro commissari in loco, hanno agito o in senso puro di conservazione e quindi non hanno affrontato alcuni problemi atti alla creazione di un'organizzazione tecnica, commerciale ed amministrativa, o sono stati dannosi, in quanto, poggiando tutte le premesse sulle garanzie, più o meno mantenute in seguito, di lavoro assegnato dal Poligrafico dello Stato, hanno portato alla quasi smobilitazione di uno dei più importanti settori del complesso, quello editoriale giornalistico.
Pur trascurando di entrare in merito ai deliberati e a quanto dovrà ancora decidere la Magistratura sia in sede locale, che in altro loco.
Lo Stato e quindi gli organi governativi locali e nazionali hanno fatto tutto quanto era in loro fare, nell'interesse stesso dello stabilimento e della collettività nazionale?
A noi pare si potesse, si dovesse fare di più.
Se come si sussurra, lo Stato non potrà (e la Suprema Corte di Cassazione già lo ha detto) avocare a sé tutto il complesso, non era preferibile affrontare il problema, cercando di trovare una soluzione in trattative dirette?
Quali ostacoli vi sono?
Sono solo di ordine politico?
Cioè quelli di non voler concludere con gli eredi di un ex fascista un accordo che ponga fine ad una situazione che sta per precipitare, e che può eventualmente essere discussa, o si vuole invece da una situazione di deprezzamento del complesso ottenere maggiori vantaggi?
Se per la prima vi sono precedenti che non possono giustificare questa mancata volontà di trattare degli organi governativi con gli ex, e non solo questi precedenti, riferiti ai fatti di Alcinazzo, ma quelli di aver favorito il ritorno della organizzazione dello Stato e nello stesso Parlamento, dei responsabili di ieri, dei fascisti di ieri e di oggi.
Per la seconda, la condizione di deprezzamento vale per due e quindi, anche per gli eredi dell'ex gerarca.
Noi perciò, tenendo conto che allo stato attuale delle cose, occorre garantire allo stabilimento la possibilità non tanto e non solo di esistenza, ma di sviluppo delle capacità produttive, pensiamo si debba agire nel senso già indicato dai lavoratori.
Trovare fonti di lavoro, per questo pensiamo possono valere e dobbiamo ottenere garanzie anche dal Poligrafico dello Stato, ma occorre anche avere a capo dello stabilimento elementi responsabili e consapevoli dei compiti e delle responsabilità loro assegnate e preferibilmente locali.
Perciò riteniamo che tutti gli enti che già si sono presi a cuore le sorti di ‘Cremona Nuova' agiscano in modo da permetter che a ‘Cremona Nuova' venga comunicato un sequestratario ed un commissario che veramente intendano consentire e promuove lo sviluppo dello stabilimento.
Debbano cioè intervenire per dare allo stabilimento quei servizi di ordine tecnico, amministrativo e commerciale, capaci di costruire una base sicura per l'utilizzo delle capacità della mano d'opera, che risulta esser una delle più preparate e delle migliori si possano avere in un complesso industriale, disposte ad una effettiva collaborazione per la rinascita del complesso.
Vicino a ciò occorre creare attorno a ‘Cremona Nuova' una situazione che consenta nella sicurezza del domani essere garanzia non solo per gli operai che ivi lavorano, ma per lo sviluppo di questa industria che rappresenta un vanto per l'intera Provincia”
Il pilastro della “campagna”, invece, incorporava sostanzialmente lo sconcerto della sinistra e dei socialisti, in particolare, che vi si erano molto esposti, di fronte alla montante prospettiva, rappresentata dalla riaggregazione dei segmenti politici, sociali ed economici, colonna vertebrale della precedente fase.
Di cui la “scalata” al binomio “Cremona Nuova” - “Regime Fascista” costituiva un sinistro segnale.
Segnale di una tendenza che si andava affermando e che si cementerà nel prosieguo degli eventi.
Resterebbe, a questo punto, solo da restituire un po' di onore o, forse solo, un po' di obiettività alla tanto bistrattata immagine del “Grassi rag. Guido”, anche alla luce una serie di coincidenze non fortuite.
Grassi, come la quasi totalità del ceto imprenditoriale, era appartenuto all'establishment del regime; meglio, si potrebbe sostenere, aveva fatto parte, forse anche grazie ai “pranzetti e liquori” offerti alla signorina Maria Antonioli, alla cerchia degli intimi del principato farinacciano (anche il livello di tale appartenenza potrebbe essere stato enfatizzato capziosamente dagli attacchi de L'EdP).
Intimi che, a fronte dei benefici derivanti dalla protezione del ras, erano ad un tempo tributari, quasi sicuramente, di risorse di sostegno, collazionate, se si pone mente alle rivelazioni scaturite dall'esame dell'epistolario segreto di Farinacci, dalla solerte e riservatissima, quasi tombale, Maria.
Il Rag. Grassi dovette essere talmente inserito nell'abitudine delle “dazioni” (unicamente di “pranzetti e liquori” pare irrealistico!) al potere politico fascista che continuò, senza soluzione di continuità, a praticare le medesime anche nell'interregno dei quaranta giorni badogliani.
Emerge, a questo punto una circostanza, riferita a quel “suo sogno di un trust granario in Italia, per essere inviato in Argentina come un esperto del reperimento grano”, forse intimamente accarezzato in anni precedenti e destinato ad essere qualcosa di più di una chimera; in forme diverse da quelle sospettate da Masaniello.
Per una coincidenza, alle sponde argentine era approdata Maria Antonioli, dopo una breve fase di imboscamento, come sospettò Zanoni, al Ministero dell'Agricoltura (senza che tale circostanza fosse mai stata verificata, al di là di una certa verosimiglianza).
Ma in Argentina era approdato (e ciò é più significativo e rilevante rispetto al ragionamento che si vuole sviluppare) anche tal Spinelli Giuseppe, nato a Cremona il 21 novembre 1908.
Ora bisognerebbe dire che la figura di Giuseppe Spinelli, esordito in giovane età nel lavoro di tecnico tipografico, non é stata sufficientemente analizzata dalla storiografia cremonese; in dipendenza forse del fatto che la sua parabola ministeriale fu breve e si svolse fuori di Cremona, dove la scena era tenuta dal ras.
Per di più, l'ascesa di Spinelli, che per qualche mese fu Podestà di Milano, a rango ministeriale, non dovette far capo ai buoni uffici di Farinacci presso un Mussolini, deluso e sconcertato dal comportamento della vecchia guardia, in occasione degli eventi del 25 luglio, e voglioso (per quanto in verità tale concetto fosse compatibile con lo stato di abulia in cui cadde da allora sino alla conclusione di tutta la sua parabola politica ed umana) di imprimere un deciso segno di discontinuità, anche generazionale, nel profilo e nei ranghi della Repubblica Sociale.
A partire dalla coerenza nella scelta del personale politico rispetto alla svolta di rinnovamento e di giovanilismo, insita (e propagandata) nella Carta di Verona; con cui, sia per ribadire un intrinseco monito all'establishment economico-finanziario (ritenuto ispiratore e/o complice del disarcionamento del Duce) sia per associare le masse lavoratrici nello sforzo produttivo richiesto nel rash finale della guerra, furono riallacciate e strombazzate le ascendenze “socialiste” del fascismo.
Rispetto alle quali abbiamo già avuto modo di argomentare in occasione dell'analisi sulla ricomposizione dell'eredità nel fascismo nei nuovi movimenti nostalgici e/o trasformistici.
Quelle ascendenze, oltre che ispirare la possente macchina propagandistica di un potere pre-agonico, in realtà si riferivano, più che ai contenuti della “socializzazione” impliciti nella Carta di Verona, alla concezione mussoliniana del socialismo.
Un socialismo senza ideologia, ma con tanta violenza rivoluzionaria; che ancor oggi contende l'arbitraria collocazione di Mussolini, non si dice nel bagaglio teorico-pratico del socialismo, ma neppure nel complesso delle sensibilità correttamente inquadrabili negli sviluppi dialettici che confluirono nel socialismo italiano.
Quanto meno rispetto al suo avventuristico epilogo.
Ma evidentemente, come abbiamo considerato rispetto all'effettivo consenso popolare a certe stagioni del fascismo, non mancarono, in tal senso, le suggestioni capaci di orientare l'adesione alla R.S.I.; soprattutto, da parte dei mussoliniani ispirati dal profilo nazional-popolare del regime e dai giovani che si sentivano traditi dai poteri economico-finanziari.
In tale categoria si può facilmente inquadrare la figura di Giuseppe Spinelli, giovane tipografo, fascista idealista invaghito del mito mussoliniano, naturalmente seducibile dalle logiche suggestive del Congresso di Verona.
Pur essendo molto giovane, Spinelli aveva maturato una significativa esperienza sindacale a Milano, facendosi conoscere nell'ambito della gerarchia mussoliniana. Qualcuno suggerisce, sponsorizzato dal ras; anche se la cosa, pur non essendo assurda, appare (considerati sia i tratti comportamentali di Farinacci e le reciproche diffidenze, specie da parte di Mussolini, che non elevò al rango di ministro neppure il ras) improbabile e, comunque, tutta da dimostrare.
Più verosimile può essere ritenuta la pista della sponsorizzazione farinacciana per l'inserimento nell'organizzazione sindacale fascista per la breve esperienza a Venezia, visto che il raggio della ‘giurisdizione' clientelare dell'ex segretario del PNF avrebbe potuto arrivare all'organizzazione sindacale, senza dover dipendere, per un incarico tutto sommato minore, dal ‘duce'.
E, visto soprattutto, che effettivamente il talent scout avrebbe potuto pescare in casa, considerato che il ‘talento' aveva esordito come tipografo nel potere domestico di ‘Cremona Nuova'.
Molto più probabile, invece, è che il king maker di Spinelli, per l'incarico ministeriale, possa essere stato quel Nicola Bombacci, che era stato compagno di Mussolini nell'esperienza massimalistica, prima di approdare coerentemente al comunismo ed, ancor più, ‘coerentemente' al fascismo.
Dopo aver scelto di uscire dal PCI, in cui aveva ricoperto significativi ruoli, e seguire il Duce sia durante la fase dell'apogeo del ventennio sia, soprattutto, nel traumatico tramonto del 25 luglio.
Sicuramente Bombacci, come scrive Agostino Melega nel significativo saggio edito dall'A.D.A.F.A. nel 2002, rappresentò uno degli eminenti ispiratori della teoria della “socializzazione” della Carta di Verona del 1943.
E fu, molti lo hanno sostenuto, il vero consigliere del Duce (almeno uno dei pochi consiglieri effettivamente ascoltati) durante l'esperienza della R.S.I.
Per completare il profilo del personaggio, si ricorderà che Bombacci era salito alla tribuna del Congresso di Livorno del '21 per intervenire a favore delle posizioni comuniste.
Dal podio sparò due colpi di rivoltella e disse: “Questo é il mio intervento”.
L'indole stravagante di Bombacci non si fece mancare niente neppure di fronte al plotone d'esecuzione a Dongo, dove seguì il Duce.
Tra i suggerimenti di Bombacci parrebbe doversi iscrivere il ringiovanimento sistematico del personale politico del governo repubblichino; e l'indicazione, quale ministro del lavoro e della socializzazione, dell'allora trantacinquenne Spinelli.
Il quale nella breve esperienza di governo si sarebbe distinto, non solo per l'idealistica testimonianza, tradotta in un competente e significativo apporto alla guida del dicastero (dove impostò un'inedita esperienza di contratti collettivi di lavoro), ma anche per l'estraneità alla diffusa pratica di efferatezze e di nefandezze, diffuse tra coloro che, anche in tal modo, curavano di accreditarsi presso l'alleato germanico.
Entrambi questi aspetti furono probabilmente alla base, invece, di un certo feeling di Spinelli presso gli ambienti popolari antifascisti, entrati in contatto clandestinamente con il nuovo corso della socializzazione e di quel suo idealistico interprete.
Probabilmente a tale circostanza, forse leggendaria, potrebbe riferirsi la voce secondo cui Spinelli fosse stato avvertito dagli stessi ambienti antifascisti dell'opportunità di non restare a guardia del bidone della R.S.I.; evenienza che lo avrebbe iscritto d'ufficio nell'elenco dei “martiri” della repubblichina.
Più saggiamente Spinelli fece perdere le tracce di sé prima del tracollo del governo fantoccio nazifascista e scomparve dall'Italia; col probabile concorso all'espatrio, si disse non senza ragioni, di Roma (quella al di là del Tevere, s'intende).
Era riparato in Sud America, il sub-continente americano che dovette essere in quegli anni trafficatissimo di arrivi, da parte di gerarchi nazisti, fascisti, collaborazionisti europei, all'affannosa ricerca di un rifugio, in cui evitare fastidiosi redde rationem.
Spinelli giunse a Buenos Aires e riprese la sua attività di tipografo, presumibilmente, a La Prensa e a La Nacion; nei cui ambienti, con ogni probabilità, ebbe modo di incontrare un personaggio, che aveva pochi anni prima affinato le arti militari e diplomatiche in Europa; a contatto con i trascinatori dei movimenti fascisti, che avevano già conquistato o stavano conquistando il potere.
Quel personaggio – Juan Domingo Peron - ne avrebbe assimilato sia le moderne dottrine populiste e corporative sia le tecniche di conquista del potere; fino a configurare un modello giustizialista (in un'accezione diversa da quella entrata nel gergo politico attuale ed afferente agli eccessi dell'uso improprio della giurisdizione nel gioco della politica).
Un modello originale e conforme alla realtà culturale e sociale del sub-continente americano, al punto tale che, al di là degli splendori e delle cadute, ispira ancora oggi non insignificanti tentativi, a destra e a sinistra, di dare una risposta ai gravi ritardi e contraddizioni di quell'area, che nei fatti é stata sempre trattata come l'aia dell'America del Nord.
Un modello che, pur nelle varie letture, non sembra aver fin qui dato, probabilmente a causa di questa dipendenza, risultati decisivi.
Andrebbe anche aggiunto che negli scandagli teorico-pratici del “caudillismo”, populistico e giustizialistico, non furono sostanzialmente estranei i modelli corporativi e nazionalistici del Fuerher e del Duce; a contatto dei quali fu Peron dall'osservatorio diretto, rappresentato dalla funzione d'attaché militare a Berlino.
Tutto ciò a Juan Domingo Peron sarebbe servito al rientro dall'Europa nella scena argentina, che, per quanto caratterizzata da fondamentali economici fortemente sviluppati, si apprestava ad entrare in una fase di forte instabilità politico-istituzionale, mai completamente esauritasi fino ad avvitare in un irreversibile declino anche un'economia potenzialmente molto dotata.
Nel '43 era caduto, a seguito di un golpe di ispirazione militare, il Presidente Castillo.
Peron assunse il duplice incarico di Vicepresidente e di Ministro del Lavoro sotto la presidenza Farrel. Donde seguì una congiuntura fortemente destabilizzata, cui pose termine, nel gennaio del '46, l'elezione, con l'appoggio dei sindacati operai, dello stesso Peron alla Casa Rosada.
Anche le vicende di Giuseppe Spinelli, per effetto di quella elezione, sarebbero mutate, rispetto alla condizione di oscuro esule, che, per quanto fosse stato un buon tipografo, avrebbe, diciamolo pure, sprecato, in tale ruolo, un talento meritevole di ben altro.
Il curriculum di Ministro del Lavoro e della socializzazione (della sia pur fuggevole repubblichina salodiana) e l'entrata nel coté peronista (si é favoleggiato di una certa intimità con il presidente e, soprattutto, con il vero leader del peronismo, Evita Duarte) costituirono le credenziali per un significativo riscatto.
Giuseppe Spinelli fu investito di un ruolo importante, per un paese di “accoglienza” come é sempre stato l'Argentina, quello di responsabile del dipartimento dell'immigrazione della Marina della Repubblica Argentina.
Ma, pare, soprattutto, come referente presso un Peron, interessato a dare in corso d'opera elementi strategici ad un regime appena agli esordi, sull'esperienza della socializzazione.
Lo ricoprirà, pare, fino a quando Peron verrà rovesciato, nel settembre del 1955, da un golpe concertato da militari, conservatori e radicali ed apprezzato dagli ambienti ecclesiastici.
Spinelli, che nel frattempo era stato raggiunto dalla famiglia, dovette rifar fagotto e riparare temporaneamente in Messico.
Nel frattempo le amnistie, il nuovo contesto governativo di centro-destra e, soprattutto, il venir meno del metodo di regolare i conti nel modo violento ed irrituale delle settimane immediatamente successive all'insurrezione suggerirono il ritorno, avvenuto secondo la registrazione anagrafica, il 21.11.1955, a Cremona.
Dove, ormai dal 1945, Grassi rag. Guido, come amabilmente lo chiamava il “masaniello” de L'EdP, aveva dato seguito ai propositi di espansione, di cui era stato sospettato dalla campagna del settimanale socialista.
Dando vita all'Ocrim (Officina Cremonese Impianti Mulini), in conseguenza dell'atto notarile, vergato domenica 25 marzo 1945, con cui un gruppo di cremonesi, aventi in comune la condizione di imprenditori industriali e, come si legge nell'identificazione dei comparenti soci, l'appartenenza alla razza ariana.
La partecipazione azionaria fu inizialmente paritaria tra i nove soci (£. 90.000 cadauno).
Ma nell'arco di due o tre anni il Rag. Guido Grassi ne acquisì il pacchetto di controllo, fino alla totalità.
Nel volgere di breve tempo, la Società a responsabilità limitata si mostrò destinata a diventare leader mondiale dell'impiantistica molitaria; specie dal momento in cui Giuseppe Spinelli, transitato, per un decennio ed in posizione non irrilevante rispetto ai poteri indigeni, in quella vasta area centro e sud americana, proficuamente mise a frutto le vaste relazioni allacciate e le sue indiscusse qualità di manager.
Per concludere, occorre precisare che la parabola del Cavaliere del Lavoro Grassi quale capocordata del nuovo potere tipografico-editoriale fu di breve durata, avendo optato di occuparsi esclusivamente dello sviluppo di un'azienda, che resta uno dei pochi vanti dell'economia cremonese.
Vi si dedicò anche Spinelli, avendo ormai irreversibilmente abbandonato ogni velleità politica, fatta salva la coerenza di non rinnegare le radici mussoliniane, definite, non si sa se per convinzione o per civetteria, dallo stesso fino alla morte “socialiste”.
Di tale coerenza si ebbe traccia, oltre che nella leggendaria aureola di non rinnegato, in un suggestivo intervento pronunciato da Spinelli, una volta abbandonato per quiescenza il ruolo di consigliere delegato dell'Ocrim, in occasione di un congresso nazionale di un M.S.I. già in vena di auto-sdoganamento.
Si era lontani da Fiuggi, ma l'inizialmente esibita e massiccia ascendenza repubblichina inclinava a cedere alla prospettiva di una destra non più extra sistemica.
Ebbene Spinelli, diciamo con buona dose di anticonformismo, lestamente ripreso dalla stampa nazionale, ispirò il suo intervento “allo spirito che aleggia su questa assemblea”, suscitando irrefrenabili consensi in una platea poco propensa a diluire il mito mussoliniano.
Senza ombra di dubbio l'intraprendenza della cordata, capeggiata da Guido Grassi, funse da apri-pista rispetto ai propositi della classe dirigente cremonese di riacquisire il controllo di un segmento nevralgico del potere rappresentato dall'informazione.
Ad un certo punto, anche a seguito della convergenza col nuovo potere politico, imperniato dalla svolta degasperiana, il destino di quello che fu il patrimonio tipografico-editoriale del ras sarà di tipo binario.
Lo stabilimento tipografico (“visitato” nell'autunno 1947 dalla folla tumultuante, cui non dovette essere estranea la volontà di mandare un messaggio alla nuova proprietà) verrà scorporato in un'impresa industriale a sé stante e, col tempo, superate (non senza ammaccature) le traversie denunciate da L'Eco del Popolo, giustamente preoccupato per le sorti di un'impresa così avanzata ed importante per il prestigio di Cremona e per l'occupazione, ‘sussidiarietà' passerà sotto il controllo del gruppo Pizzorni.
La parte editoriale, invece, farà capo alla S.E.C. sotto il controllo diretto della Libera Associazione Agricoltori.
Prima Fiera di Cremona
A significare la possente volontà popolare di bruciare le tappe dello sforzo teso ad uscire dall'emergenza, per imboccare irreversibilmente la strada del progresso, apparve a metà di giugno 1946 l'inserzione-annuncio della Prima Fiera di Cremona, organizzata per il periodo 22-30 giugno dall'ANPI e dal Fronte della Gioventù e presentata come “Un'interessante rassegna di tutti i settori della nostra produzione: agricoltura artigianato commercio industria”.
Resterà questo un tratto permanente di quelle lotte, capace di esprimersi anche con una certa proprietà e professionalità sui temi non strettamente aziendali; come nel caso, in cui è evidente l'orgoglio di appartenenza ad una filiera dai risultati lusinghieri ed incoraggianti, di “La Fiera Bestiami e l'opera degli agricoltori” sul n° 128/47:
Per la prima volta dopo la fine della guerra fu ripresa nella nostra città la mostra mercato dei prodotti tipici, bovini ed equini.
Nonostante le molte astensioni si è avuto un complesso vistoso di soggetti di classe.
Nei bovini due erano le razze che si contendevano il campo: la razza bruna alpina e l'olandese colla sua derivata americana: carnation.
Per la prima volta l'on. Giannino Ferrari presentava prodotti sceltissimi di grande produzione.
Per la seconda si notavano prodotti importati e derivati del Dott. Ferruccio Gosi, di Giuseppe Cervi, di Tancredi Guarneri ecc tutti con soggetti di primissimo ordine.
Nei cavalli si presentavano esclusivamente esemplari di razza belga, con stalloni di prima riproduzione interna, con stalloni importati, con fattrici di nostra produzione ed importate.
Tornano fra gli espositori i nomi dei Galli, i primi che impresero in grande stile l'allevamento di questa razza, del comm. Giannino Soldi di S. Daniele e poi ancora Cervi di Casalbuttano, l'Ing. Morelli, gli Arduini di Mantova ecc.
A qualcuno potrà sembrare che basta avere un buon portafoglio per avere soggetti il cui prezzo ormai raggiunge cifre iperboliche: ma quando si vede che ogni agricoltore tende ad un proprio tipo e sottopone e sottopone in queste mostre al giudizio dei tecnici il risultato dei propri sforzi si deve concludere che il nostro patrimonio zootecnico si va sicuramente migliorando.
Cognizioni tecniche e commerciali saranno sempre necessarie per i direttori di aziende agrarie qualunque sia il sistema economico.
Perciò quando si vedono manifestazioni i questo genere ci si deve congratulare anche con i singoli che hanno raggiunto miglioramenti sicuri.
Certo meglio aver speso molti milioni in questa direzione che non scialacquarli ostensibilmente ostensibilmente in quelle manifestazioni di lusso avutesi ultimamente nelle stazioni di cura, con biasimo di tutta la stampa onesta, di tutti i partiti.
Agli agricoltori radunati, parlò l'alto commissario per l'alimentazione, prof. Ronchi, incitando però gli agricoltori a ricordarsi anche essere necessario provvedere all'intensificazione della produzione granaria.
Sappiamo che è intenzione delle organizzazioni agrarie stabilire vistosi premi per chi riuscirà a mantenere i maggiori rendimenti in grano per l'anno prossimo.
Anche questa sarà opera nella quale gli agricoltori potranno dimostrare di saper portare un'utilità generale, tanto più se si ricorderanno che per ottenere i migliori risultati dovranno far in modo che anche i loro collaboratori contadini possono essere incitati ad esplicare volontariamente ogni sforzo per avere le più alte produzioni.