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Lascia o raddoppia?

L’impasse della campagna vaccinale

  10/06/2021

Di Redazione

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L'incipit di questa riflessione non può che essere l'esortazione di Antony Fauci “Vaccinare, vaccinare, vaccinare! “ 

Più modestamente titola in posizione evidente il quotidiano milanese: “Non vaccinati, ricerca porta a porta”. E non si sa se sia una minaccia o una promessa. Se fosse un proposito, maturato e verificato a livello di fattibilità, ci troverebbe, pur con qualche doverosa riflessione, assolutamente d'accordo. 

Con qualche riflessione e con almeno un'autocritica rispetto ai nostri precedenti speech, in materia di elaborazione del progetto vaccinale; in tutti i suoi aspetti, più che particolareggiati, reconditi. Che vengono in emersione day by day quando si tratta di traslare il risultato del percorso teorico (che nel caso, trattandosi di un work in progress imposto da una materia prevalentemente sconosciuta, non può non essere empirico) nella gestione pratica del dossier. 

L'Italia avendo alle spalle un vissuto comunitario, non esattamente univoco e, soprattutto, poco propenso all'etica della condivisione e della preminenza civile, non è, dal punto di vista del rigore dell'aderenza all'enunciato dell'azione pratica, un modello esemplare. Vero che l'arma segreta del contenimento e della risposta definitiva alla pandemia è stata, in assenza di protocolli terapeutici definitivi sulla patologia conclamata, individuata e messa a punto con comprensibili tempi non esattamente rapidi. Vero che, in assenza di precedenti di campagne universali e globalizzate, non esistevano (e non esistono) protocolli operativi collaudati. Vero che la percezione/consapevolezza dell'ineludibilità della pratica vax presuppone uno sforzo didascalico/educativo di cui, per la vastità e la diversificazione del bacino antropologico, esistono labili premesse. Vero, tanto per essere conseguenti, che una pianificazione, che volesse essere rapida ed implacabile, presupporrebbe l'esistenza di contesti in cui l'etica della coesione civile e del primato dell'interesse comunitario fosse fortemente radicata. Tutte queste premesse, ahinoi, non hanno che tenui riscontri in una realtà come la nostra, in cui, non si dice l'obbedienza, ma anche l'osservanza a minimo sindacale, non corrisponde (specialmente dopo l'approdo della “regionalizzazione” estrema dell'ordinamento statale allo sbriciolamento dell'apparato, anche in materie in cui la competenza dovrebbe essere esclusiva) alla cifra identificativa. 

Alla luce di questo lungo quanto inaggirabile preambolo di inquadramento della questione, è possibile comprendere i motivi per i quali (in contrasto con la comunicazione trionfante di coloro che sono abituati a cantarsela e a suonarsela), siamo costretti ad affermare (e non per spirito disfattistico) che uno sforzo collettivo (in cui hanno un peso la sala regia quanto la platea degli utenti e degli operatori) che la campagna vax, partita si ripete sotto i peggiori rating comunitari e proceduta forse al di sopra delle aspettative (per merito prevalente del volontariato e degli operatori) arrischia di impantanarsi. Sui particolari (che nei progetti complessi non sono una quisquiglia), sugli arzigogoli delle competenze, sulle bassezze dei profili comportamentali, individuali e collettivi (che, quando attivano un rimando di esemplarità, sono fondamentali per la riuscita di progetti importanti. 

E che, nella sequenza del fantasioso story telling della vicenda, la sala dei bottoni non abbia dato il meglio di sé dovrebbe essere consapevolezza condivisa. Un po', ripetiamo, per i margini di incertezza che per una materia inesplorata porta inevitabilmente con sé e che, per onestà mentale, vanno riconosciuti e giustificati. Al netto, però, di una domanda: Ma se la materia procede empiricamente per verifiche quotidiane, che si appoggiano ovviamente ad un substrato scientifico condiviso, perché …zz… continuate ad atteggiarvi come il genio della lampada (dalle cui labbra pendono le percezioni e gli allineamenti comportamentali)? 

L'unica cosa azzeccata (anche se nei fatti non universalmente praticata) è lo spunto tassonomico, in teoria suscettibile di definire le priorità dei campi di inoculazione: prima (ex aequo) i fragili (anagrafici e patologici) e i care givers (gli operatori socio-sanitari). Poi si sarebbe visto. Sempre in coerenza con la scelta delle classi d'età a scalare e con la casistica del carico professionale.  

Giusto, bene, bravi, bis. 

Ma già dalle prime battute, che hanno visto la nostra testata farsi anticipatrice della giusta denuncia degli impulsi praticati ed in qualche misura accettati (il caso della RSA Mazza in cui forse ancor prima degli ospiti il vaccino venne praticato a prelati quiescenti, amministratori locali e congiunti, volontari ecc) abbiamo capito che sarebbe andata a finire “all'italiana”. Al punto che nel giro di poche ore avevamo realizzato che il buongiorno si sarebbe visto dal mattino. Fatto questo che ci impone di sentirci, per onestà intellettuale, quasi in dovere di riconoscere una certa severità in quella denuncia, avanzata nel timore che la cattiva postura avrebbe fatto da apripista ad una generalizzata cattiva postura. 

Che, si ripete, non costituisce fiore all'occhiello per il sistema paese (il cui consolidato civile è stato plasmato più dalla controriforma cattolica che dalla riforma calvinista). Ma che, al di là di questa poco commendevole griffe, ha attivato un ginepraio in cui commissari più o meno di bianco piumati, successori di oligarchi stellati e assessori regionali nominati per ragioni di reload, di tamponamento e di inversione di topiche prestazionali e di prefigurazione di organigrammi futuri (nel caso la filiera eufemistica fosse di difficile comprensione, ci riferiamo alla staffetta Gallera/Moratti) si sono vistosamente incaricati di appesantire le ali ad uno scenario di sé non semplice. 

Aggiuntivamente frustrato dall'incomunicabilità tra Stato (rinunciatario del primato costituzionale in materia esclusiva) e Regioni e Regioni e Regioni (prevalentemente impegnate a far bella figura e ad ammiccare, come nel caso dell'inoculazione fuori sede, agli interessi delle proprie costituencys clientelari). 

Si ripete (a sfinimento e forse ac cadaver) che questioni non semplici, discendenti da un federalismo sanitario deragliato in un puzzle di 21 enclaves territoriali rasentanti quasi la competenza esclusiva) sono deragliate praticamente, se non proprio nell'ingestibilità assoluta, in una prospettiva approssimativa assai problematica. Al punto in cui i players dimostrano di non saper più da che parte girarsi. Il teorema Onofrio (del Grillo, quello di io sò io e voi non siete un cazzo) dell'ottusa arroganza, coniugata con deboli standards di efficienza, rovescia l'ordine dei fattori. Nella prima fase c'era una coda biblica di aspettative ad essere tra i prescelti di prima fase, adesso (e non dovrebbe essere perché la materia prima vaccinale non manca) c'è questo contrordine compagno della ricerca porta a porta in vista dell'inedita mission (annunciata nella sempre documentata prima pagina del Corsera Milano): “l'imperativo è accelerare coi richiami e fare in modo con una maggiore flessibilità che i cittadini possano completare il ciclo vaccinale senza posticipare le iniezioni per via delle vacanze”. 

Un proposito? La minaccia di un rastrellamento door to door per i renitenti, insediati, soprattutto, nel campo degli over 60? (due dati: 3,9 mln di over 60 restano privi di immunizzazione da vax, nonostante 570000 dosi pro die e fallimento degli open day over 60). 

Seconda fattispecie (la diserzione dell'hub) giustificata da una disaffezione latente nei fragili anagrafici, semideficienti, irresponsabili, al mal partito con lo smanettamento telematico. 

Ma le risultanze dell'accumulo di aggregati teorico-pratici improvvisati, della prevalenza di calcoli di esposizione e di benevolenza mediatica, di accertate impraticabilità scandite dai trend (reali) non lasciano scampo ad ulteriori vaghezze. 

Sul prosieguo della campagna della seconda dose ci sembra di essere di fronte un po' al gesto dell'ammuina ed un po' della faccia feroce. 

La Moratti rassicura: “la Lombardia si sta attrezzando, per essere preparati, a fronteggiare altre epidemie o alla terza dose”. 

Anche i vaccini si prenderanno una breve vacanza, aspettando che torni il popolo della seconda dose. Dilatando l'intervallo tra la prima e la seconda dose. Allora perché non restringerlo in modo da anticipare la data della seconda? Consideriamo noi. In controtendenza si esprime (giustamente) il consigliere regionale Piloni (il più attivo nella denuncia della malasanità lombarda), quando sostiene “Durante le ferie non si deve rallentare”.

Non si tratta di dispensare coccole o gadgets ai recalcitranti o ai soggetti un po' periferizzati (per dislocazione fisica e culturale). Ma si tratta di percepire che in assenza di obbligatorietà della somministrazione e con percorsi di calendarizzazione simili a percorsi di guerra l'accesso ai vax sarà disincentivato e con ciò il conseguimento dell'immunità di gregge sempre più una chimera. 

Il ragionamento va fatto in una dimensione strategica e non improvvisata e precaria; perché, anche se mancano riscontri definitivi e particolareggiati, la vaccinazione di terza e quarta campagna rientra nell'ordine delle probabilità, per non dire delle certezze. Con buona pace dei testimonial di voglia di normalità e del chiagne e fotti. 

Il generale Figliuolo annuncia la spallata contro il virus, risultante del combinato tra superamento dello stretto corridoio vaccinale dell'inizio della campagna, configurato in base alle disponibilità del farmaco e la priorità per i care giver e le fasce anagrafiche e fragili ed ottimizzazione delle procedure, agevolate sia dall'avanzamento dell'immunizzazione sia da una maggior disponibilità residua. 

Si archivieranno gli hub di massa, in genere localizzati nelle locations fieristiche 

Si punterà ad un modello retail, incardinato negli ambulatori di medicina di base e nelle farmacie. Perché non anche nei servizi vaccinali delle AST? Potrebbe uscirne un'articolazione di riferimenti capace di mettere in campo tutti i presidi pubblici e privati. Una sorta di cento fiori. 

Riversare tutto sugli ambulatori di medicina generale significa mancare di consapevolezza in ordine sia alla condizione sistematicamente in affanno del medico della mutua sia all'approdo certo di un corto circuito del nevralgico servizio. Col risultato di paralizzarne la mission d'istituto. Utile anche se complementare la chiamata in causa delle farmacie. Ma cum granu salis e consapevolezza delle questioni logistiche e, soprattutto, del completo default della campagna influenzale ordinaria, neanche tentata nell'autunno inverno 2020/21.

D'altro lato, di fronte alla crudezza dei trend non esattamente corrispondenti agli annunci ed alle esternazioni un po' fasulle, il Commissario con la penna bianca (che arrischia una retrocessione cromatica del fregio identificativo del grado) scandisce “Conta il coinvolgimento”.

Già lo veniamo a sapere adesso, quando i numeri raccontano un'altra storia dell'esternazione rassicurante. 

Quando vengono al pettine i nodi dell'improvvisazione e delle cose accantonate con fastidio. Quando appare necessario gettare oltre l'ostacolo del burocratismo il cuore ed il sentimento del vantaggio comunitario. 

Le cose che fecero felici i “signor NO” (zavorrati dalle loro inettitudini ed indotti alla via facilior della flessibilità dettata dall'inventario del monte dosi) si sono, simsalabim, invertite in poche ore. 

Sul versante, ad esempio, dell'accelerazione del richiamo, che permetterebbe, oltretutto, ad effetto terapeutico garantito, di accantonare la questione della somministrazione fuori sede (per vacanze o per quant'altro). Una questione apparentemente marginale, ma che arrischia di zavorrare ulteriormente l'esito dello sforzo di raggiungere l'immunità di gregge. 

Ci si consenta, infine, di dire la nostra (nel senso di esperienza vissuta personalmente) sulla questione del timing del richiamo. 

La prima dose ci è stata praticata nella prima metà di aprile (ovviamente nella versione del farmaco meno sponsorizzato). 

Per disciplina civica e per intima idiosincrasia nei confronti del pericolo di omologazione nello stupidario mediatico, abbiamo, come il Generale dalla casacca rossa e dai fulvi capelli, risposto “obbedisco”. 

Come abbiamo accettato senza battere ciglio la prenotazione del richiamo al 6 luglio (limite temporale estremo della forcella 28-84 giorni). 

Ragioni di impegni professionali (non retribuiti ma ineludibili) ci hanno successivamente costretto a presentare al desk dell'hub l'istanza (nel rispetto della declaratoria farmacologica di Astrazeneca) di anticipare di dieci giorni l'appuntamento. Richiesta che non ci avrebbe obbligato al rientro temporaneo, alla necessità di praticare la seconda dose fuori regione, alla rinuncia del richiamo. Ultima ratio, che probabilmente deve essere alla base della confluenza di così tanti dietrofront. 

A questa ragionevole istanza è stato opposto un preciso diniego, prima non motivato e poi giustificato dall'impossibilità di ordine farmacologico. 

D'altro lato, anche se siamo indotti a sbavare di ammirazione e gratitudine per i medici, gli operatori e, soprattutto, i volontari che da oltre due messi fanno funzionare una macchina quasi perfetta, non possiamo non sollevare pesanti rilievi di carattere generale sul servizio vaccinale dell'ASL. 

Sempre per caso personale, da un anno siamo in ballo con il tentativo dei richiami vaccinali (in particolare, encefalite da zecca), prescritti dal medico di base. Comprensibilmente prima c'erano ragioni precauzionali. Quando il buondio dispose, si iniziò con la prima dose. La seconda fu praticata (in regime di solvibilità e dopo autorizzazione dell'ASL di Cremona) in Trentino. Per la terza siamo tra color che son sospesi. Convocati per tre volte con appuntamento e recanti la richiesta liberatoria pretesa per la prestazione fuori sede, saremmo stati il 20 marzo in dirittura d'arrivo. Appuntamento calendarizzato, moduli compilati, postazione ambulatoriale acquisita e punzonata nell'ordine di prenotazione…tutto a posto. Ma al momento dell'inoculazione, in assenza di imbarazzo, prerogativa anche degli impudenti, la prestazione non viene resa. Semplicemente perché fisicamente l'ambulatorio non dispone del vaccino. Si stempera lo sconcerto, si chiedono istruzioni circa il prosieguo. Ma non vengono dispensate né spiegazioni né soluzioni b. Semplicemente la terza dose (per chi scrive e per la consorte) manzonianamente non s'ha da fare! Siccome era stata in passato opposta dagli operatori una certa perentorietà circa l'osservanza della tempistica dei richiami, pena l'inefficacia dell'inoculazione vaccinale, vengono sollevate riserve e preoccupazioni. Tre convocazioni programmate in costanza di picco pandemico, due dosi (al costo di circa 400 euro più notula medica) effettuate, con il risultato probabile di non copertura e con la prospettiva di riprendere il giro dalla casella numero 1. Certo, un caso episodico e marginale rispetto al mare magnum pandemico. Ma rivelatore dell'inefficienza e dell'arroganza relazionale degli operatori del Servizio, neanche minimamente consapevolizzati di dover fornire formali risposte. Tranquilli le dovranno dare, per effetto di un esposto formale in via di presentazione.

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