Presentiamo questa “lavagna”, dedicata a quanto sta avvenendo a cinquemila chilometri da qui, con molto sgomento ed inconsapevolezza di quanto il destino riserverà all'aliquota umana collocata nell'epicentro degli avvenimenti come, anche se con apparente digradante intensità, all'umanità intera. Per arricchire la percezione delle questioni in essere ci affidiamo all'analisi ed alle riflessioni del Direttore dell'Avanti, Claudio Martelli, all'opinionista Domenico Cacopardo, al Direttore dell'Avantionline Mauro Del Bue.
Si tratta di contributi che percettibilmente si distaccano dall'asse prevalente dell'informazione giornalistica e dai pronunciamenti delle forze politiche “strutturate”.
Indirizzi in cui è avvertibile l'incapacità di fornire un'analisi complessiva della situazione, come risultante dell'ansia di inseguire il consenso.
Per quanto abbiamo allineato al titolo della rubrica una striscia iconografica (foto di copertina - ndr), aperta dall'immagine della “rimpatriata” del quasi centenario ten. Usa Martin Adler (che nel 1944 salvò tre fratellini emiliani) e sviluppata lungo le immagini impattanti dell'enormità del livello di disumanità raggiunto e superato dalla vicenda afghana, non possiamo non considerare che l'esatta percezione del momento non può non correlare la forte emozione alla ragione.
L' 11 SETTEMBRE DI KABUL
Noi, italiani ed europei, combattenti sempre riluttanti non abbiamo titolo per ergerci a giudici severi degli errori americani. Non dimeno per rispetto della verità e per onorare i nostri morti abbiamo il dovere della lealtà e della verità
Che cosa resterà di tutto quello fatto in Afghanistan dall'Europa, dalla NATO, dagli USA?
di CLAUDIO MARTELLI
Il modo più difficile di combattere è quello di un esercito che volge le spalle al nemico. Il nemico attacca e colpisce con maggior facilità chi esita incerto se arretrare o difendersi. Così accade nelle ritirate ed è per questo che spesso risultano rovinose. Quel che sta accadendo in Afghanistan di fronte all'impetuosa avanzata dei talebani questa volta sostenuti anche dai capi tribù o signori della guerra, conferma una regola generale ben nota agli USA oltre che dall'esempio di altri imperi insabbiati e poi sconfitti in quelle terre anche dall'umiliante esperienza diretta della fuga da Saigon. Ma la fuga da Kabul presenta specificità e aggravanti che coinvolgono insieme con precise responsabilità politiche, diplomatiche e militari il sentimento stesso di una grande nazione sempre più riluttante a sopportare i costi umani e economici dell'occupazione militare di un paese lontanissimo e del sostegno a un regime tanto Amico quanto inadeguato e corrotto.
Noi, italiani ed europei, detentori di un'ambigua potenza celata nell'ombra di sicurezza garantita dall'America, combattenti sempre riluttanti e a metà non abbiamo titolo per ergerci a giudici severi e censori degli errori americani, non dimeno per rispetto della verità e per onorare i nostri morti abbiamo insieme il dovere della lealtà e della verità. Tra accelerazioni e rinvii il ritiro dall'Afghanistan era diventato da tempo un mantra della politica estera americana, se non già da prima almeno dalle presidenze di Obama e di Trump. Dodici anni di irresolutezza tra impegno presente e disimpegno futuro, tra combattimenti e peace keeping, tra riforme civili e democratiche, imposizione di leadership aliene e prassi corruttive hanno fecondato il terreno propizio alla finale disfatta strategica. Nel frattempo gli USA avevano posto fine all'occupazione dell'Iraq, la seconda immotivata e disastrosa impresa di Bush utile solo a diluire e a distrarre dall'investimento strategico sulla prima, quella afghana appunto. Infine, Trump e poi Biden, trascorsi vent'anni di occupazione, hanno prima annunciato poi messo in atto il ritiro americano e delle truppe alleate. Trump l'aveva promesso ai suoi elettori programmandolo per il maggio scorso, Biden, l'ha solo posticipato all'11 settembre.
Probabilmente scopo della dilazione era quello di avere più tempo per organizzare il disimpegno e l'evacuazione in modo ordinato e per ottenere dai talebani al tavolo dei negoziati di Doha garanzie di una pacifica transizione di poteri - “neanche un morto americano!” era infatti il suo imperativo. Il calcolo si è rivelato drammaticamente sbagliato e l'annuncio, sia dai talebani sia e ancor più dagli afghani, dagli americani stessi e dagli uomini della coalizione è stato interpretato per quello che effettivamente era: una resa senza condizioni. Anche la scelta simbolica della data - la ricorrenza dell'11 settembre, i vent'anni dopo l'attacco alle torri gemelle e la strage di New York – doveva significare la fine della lunga belligeranza invece è diventata metafora e messaggio non di pace ma di sconfitta per gli USA e di vittoria per i talebani. Come una parentesi che si chiuda e cancelli vent'anni la resa è anche un ritorno allo status quo ante. La prima prevedibile conseguenza è stata il rapido disfacimento dell'esercito e del regime afghano con la fuga del presidente Ghani l'accademico banchiere scelto dagli americani. A suffragarla e mostrarla al mondo è subentrato il panico di centinaia di migliaia di afghani – donne soprattutto - illusi dall'occidente che un'altra vita era possibile e oggi abbandonati in balia della vendetta dei talebani persecutori di ogni devianza da un islam primitivo e brutale e dal loro personale arrogante potere.
E troppo presto per capire le conseguenze geopolitiche del disimpegno americano dall'Afghanistan. I due precedenti exit, dall'Iraq e dalla Siria, hanno aperto la strada alle ambizioni di Iran, Russia e Turchia a conferma di un'altra inossidabile regola delle relazioni internazionali che vuole che il vuoto lasciato da una grande potenza sia presto riempito da qualcun altro.
Intanto possiamo osservare che la Cina è stata la prima potenza a riconoscere la vittoria dei talebani identificati con lo stesso popolo afghano. Gli esperti ritengono che per assicurarsene il sostegno i talebani eviteranno scorrerie ideologiche nel confinante territorio cinese abitato dalla minoranza islamica degli uiguri le cui speranze autonomistiche sono sistematicamente Represse da Pechino.
Imprevedibili le reazioni da parte dell'Iran con la sua lunga frontiera geografica e religiosa mentre appare scontata la solidarietà ai talebani dell'ambiguo Pakistan - il vero protettore di Osama Bin Laden - legato all'Afghanistan dalla comunanza etnica e religiosa della stirpe pashtun. Tutto all'opposto Russia e India non hanno nulla da festeggiare col rafforzamento di tradizionali nemici.
Quanto all'Italia e all'Europa la loro ventennale presenza militare in Afghanistan a fianco degli Stati Uniti si è caratterizzata per un approccio non da combattenti ma, sebbene armati, da portatori di pace anche quando non senza ambiguità i loro compiti erano quelli dell'addestramento militare. Al loro fianco centinaia di operatori di organizzazioni non governative si sono dedicati insieme a pubblici ufficiali a compiti civili quali la definizione insieme agli afghani di codici e procedure giuridiche, all'approntamento di strutture sanitarie alle esigenze educative, famigliari e professionali delle donne afgane.
Oltre all'impegno morale e umanitario di organizzare corridoi umanitari per accogliere in Italia e in Europa i cittadini, ormai profughi, afghani che hanno lavorato con noi e che oggi sono esposti alle rappresaglie talebane c'è una domanda angosciosa che ci sovrasta. Che cosa resterà di tutto quello che hanno significato questi venti anni, dell'impegno, del lavoro, dei sacrifici fatti da tanti italiani, militari e civili e, più in generale, che cosa resterà di tutto quello fatto in Afghanistan dall'Europa, dalla NATO, dagli USA? Ho detto dei profughi da accogliere e non mi riferisco alla lezione politica da trarre da un'esperienza conclusa amaramente nella disfatta militare e nel caos civile. Penso alla possibilità per quanto remota e impraticabile oggi possa apparire di mantenere un contatto e una relazione con il popolo afgano, di non lasciare che vengano estirpati senza resistenza i semi di libertà, di democrazia, di tolleranza, di umanità che sono stati piantati.
Sono sicuro che tra i profughi questa sarà un'idea condivisa, e se sarà anche la nostra idea, se animerà una comune volontà di agire nelle forme e nei modi possibili per non lasciare inaridire i semi piantati allora qualcosa, forse il meglio, di questa esperienza e dei tanti sacrifici che è costata resterà né inutile né vana nelle loro e nelle nostre menti e nei loro e nei nostri cuori.
www.cacopardo.it Presidente di s. del Consiglio di Stato - strada N.Bixio 41 43125 Parma
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Si compie in queste ore il destino che la Storia -e la Nato- ha apparecchiato per Kabul e il popolo afghano: lo stato costruito con il supporto delle armi occidentali si è squagliato come neve al sole, le forze armate si sono arrese in massa consegnando gli armamenti (ingenti anche se obsoleti) ricevuti dagli americani, interi reparti sono passati ai rivoltosi, la capitale, circondata, è prossima a diventare la Saigon degli anni '20.
Anche il personale civile delle potenze alleate è in fuga e la rotta ha comportato il caos e una drammatica perdita di immagine della coalizione.
Il dato di fondo, tuttavia, quello che segna il discrimine tra il persistere e l'abbandonare è rappresentato proprio dal rifiuto della maggioranza degli afghani dei valori che -errando- volevamo dispensare: la democrazia, lo stato di diritto. I diritti delle donne.
Il popolo afghano non ha difeso questi valori, anzi s'è schierato con i nemici dell'Occidente. Certo, una minoranza pagherà un prezzo ingiusto e criminale al dogmatismo islamico che ha vinto.
E, nel concreto, ciò che sta accadendo sarà tragedia per molti, anche tra coloro che hanno applaudito i conquistatori.
E non si deve respingere l'equazione taliban=terroristi. Analizzando il fenomeno sulla base delle informazioni giornalistiche disponibili, compreso il legame con il mullah Mohammed Omar, il capo del Consiglio supremo dell'Emirato islamico dell'Afghanistan, morto di tubercolosi nel 2001, possiamo verificare come l'ospitalità offerta a Bin Laden e ai terroristi di Al-Qaeda sia la naturale manifestazione di un estremismo che prima di tutto è religioso e che interpreta l'Islam in termini radicali.
Favoriti dalla tormentata, montuosa orografia del paese, i successori di Omar hanno messo in piedi un sistema di resistenza capillare, fondata sull'odio nei confronti dell'infedele e nella rete di cellule attive nelle campagne, nei villaggi, nelle città.
Come le macchine infernali dei film di fantascienza, nascoste nei centri americani, si risvegliano tutte insieme e attaccano gli umani, così tutta la rete talebana si è sollevata ovunque realizzando l'attuale successo.
Ho ricevuto personalmente la testimonianza di un esperto dell'Onu, recatosi in incognito a Kabul nei primi anni 2000, a occupazione americana compiuta. Giovandosi di una perfetta mimetizzazione (parla correntemente il «dari» e il «pashtu») poté riferire che la rete talebana nella città era ancora perfettamente efficiente e osservava i comportamenti degli abitanti. Questi. consapevoli della presenza, esercitavano alla perfezione l'arte della doppiezza.
In termini strategici, peraltro, l'accaduto significa che la mano passa alla Cina. E non è detto che la Cina non finisca invischiata in una situazione difficile e costosa.
Come ha sostenuto il generale Leonardo Tricarico, già capo di stato maggiore, il vuoto -nella politica internazionale- non può esistere: quando si verifica si verifica per poco tempo, giacché c'è sempre qualcuno che lo occupa.
Tuttavia, l'Italia non può esimersi dal redigere il bilancio complessivo di una missione che ci è costata più di 7 miliardi di euro, anche mediante una commissione parlamentare di inchiesta.
In definitiva, questo genere di sconfitte (da molti punti di vista inevitabili, alla luce degli errori strategici e tattici accumulati negli anni) non incide sulla temibilità degli Stati Uniti, unica democrazia guerresca dei tempi moderni.
Certo i servizi segreti dell'alleanza hanno aggiunto un altro fallimento alla loro ricca collezione: il tracollo rapido e definitivo del sistema costruito intorno alle truppe americane doveva essere previsto e dovevano essere evitati o impediti i tragici episodi in essere nell'aeroporto internazionale di Kabul.
Tutto ciò passa. Ciò che rimane sul terreno è il ruolo dell'Afghanistan nella rete di oleodotti che collegano l'ex-Russia ai centri di raffinazione e consumo. Un sistema che serve all'India e all'Occidente (non agli USA). Sarà la gestione di questo delicato ruolo che segnerà il regime talebano nel prossimo futuro. Scriverei: sino alla prossima guerra. Nonostante tutto le contraddizioni e le ostilità presenti nello scacchiere non saranno facilmente sopite.
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Joe Biden, nella conferenza stampa del 26 agosto, trasmessa da tutti i media del mondo, ha regalato alla pubblica opinione mondiale lo spettacolo della commozione e delle lacrime di un uomo vecchio e -questo è emerso- fragile, posto alla presidenza degli Usa a conclusione di una campagna elettorale serrata, vinta con merito e poi illecitamente contestata.
Pochi hanno provato pena, molti hanno goduto delle sue evidenti difficoltà.
Si pone perciò un delicato problema per il futuro: il presidente americano -commander in chief- è capace di essere in permanente effettivo controllo dei propri pensieri e dei propri sentimenti? Il mondo democratico americano, che s'era già posto il problema, avrà di che discutere.
Il mondo occidentale, dal canto suo, deve stringere i tempi per pervenire a posizioni internazionali comuni, assistite da una forza militare unitaria. Tema di oggi, non di domani o dopodomani, visto ciò che sta accadendo in Afghanistan.
Là il punto cruciale, quello nel quale può accadere di tutto, comprese altre stragi, si sostanzierà il 31 agosto. Come avverrà l'ammaina bandiera americano? Lo svuotamento della testa di ponte entrerà in fase critica nel momento in cui i militari sul campo saranno in numero insufficiente per resistere agli attacchi.
Il presidente turco Erdogan si è proposto ieri come garante (con le sue truppe) del passaggio di mano dell'aeroporto di Kabul: un'idea, per quanto assurda, questa che consegnerebbe al satrapo di Ankara un potere superiore nel mondo islamico e oltre. È così malridotto l'«amico americano»?
Certo, tutti, anche i talebani sono consapevoli che un attacco in forze nelle ultime ore di «american boots on the ground» può scatenare quella tempesta di fuoco da tempo pianificata, ma la realtà che emerge dopo gli attentati del 26 agosto è quella di una situazione non consolidata, nella quale i talebani non si presentano come una falange coesa e in cui riemergono gli esponenti della branca locale dello Stato islamico – Provincia del Khorasan – ( cioè l'Isis) che è sempre esistita (basti ricordare l'attentato del 2 novembre 2020 nell'Università di Kabul: 22 morti, circa 30 feriti), ma che riprende il vecchio protagonismo.
Se le cose hanno un senso, la strage dell'Aeroporto Karzai di Kabul è un fatto tattico Isis, inserito in un disegno strategico: affermare la propria capacità operativa e mettere il potere talebano di fronte a una scelta secca, combattere o consentire allo stesso Isis di ritagliarsi una protezione e un ampio e consentito spazio operativo. Da un certo punto di vista, quindi, l'attacco kamikaze ha colpito sì gli americani ma ha soprattutto colpito il non ancora costituito governo dei rivoluzionari.
Distinguere le due forze in relazione al terrorismo è fallace: i talebani hanno compiuto negli ultimi dieci anni almeno 2000 attentati del genere.
Occorrerà capire se e quando tra di loro scoppierà o meno la pace (come sembra scoppiata con le forze del comandante Ahmad Massud -figlio del celebre Ahmad Shah Massud- rappresentanti dell'Alleanza del Nord a lungo contestatrice del movimento oggi vincitore).
Il prezzo, oltre alle migliaia di morti occidentali e locali (60.000 morti nell'esercito afghano), sarà atrocemente pagato dalla popolazione succube, nella quale permane qualche fiammella di contestazione civile.
A noi, ora, non rimane che osservare con trepidazione la conclusione delle operazioni delle forze Usa a Kabul. Non possiamo contare sulla ragionevolezza di alcuno, solo sulla capacità militare dei comandi Usa, piuttosto scossa dagli avvenimenti degli ultimi anni nello scacchiere islamico.
Ma dobbiamo sapere che quanto è accaduto e sta accadendo, compresi gli eventi del 31 agosto, avrà dirette conseguenze sulla nostra vita civile, sulla tranquillità delle nostre metropoli, delle nostre chiese di campagna, dei nostri centri commerciali. A dispetto delle critiche delle anime buone, dobbiamo essere grati agli Usa per averci risparmiato in questi venti anni il terrore prossimo venturo.
Mauro Del Bue 14 AGOSTO 2021 Blog, Locchiodelbue
Mancano pochi giorni alla caduta di Kabul in mano dei talebani. Dopo vent'anni di guerra, o di simil guerra, tra i talebani e il resto del mondo, sta accadendo quel che in molti paventavano, ma che per i più distratti appariva impossibile: la vittoria degli estremisti afghani. L'esito umiliante della guerra in Afghanistan non è paragonabile a quello in Vietnam, perché in Estremo oriente, al tempo della guerra fredda, si fronteggiavano mondi contrapposti. E i Vietcong erano pesantemente appoggiati dall'Urss e dalla Cina. Tanto che durante le manifestazioni di protesta anti americana i comunisti si esaltavano al grido: “Russia e Cina unite in Indocina”. E non è neanche paragonabile alla guerra di Corea dei primi anni cinquanta, finita con un onorevole uno a uno, uno stato occidentale e uno comunista: con tanti saluti a chi si è trovato a vivere con i predecessori di Kim. No, non è come la prima e la seconda guerra all'Iraq, conclusa con la liberazione del Kuwait e con la tragica morte di Saddam. E non è come in Libia e come in Bosnia dove, con tutti gli errori e le conseguenze scaturite, almeno non si è tornati alla situazione precedente. La conclusione della seconda guerra dei venti anni, iniziata col favore dell'Onu e di mezzo mondo, compresa l'Italia, alla luce dell'attacco di Al Qaeda alle torri gemelle dell11 settembre, si è rivelata un'autentica Caporetto, senza possibilità di Vittorio Veneto. E la vittoria dei talebani ci riporta a vent'anni fa, al loro dominio assoluto e pericolosissimo. Il generale Marco Bertolini, capo di stato maggiore Isaf, individua in due ragioni l'esito della umiliante disfatta: l'errata volontà di occidentalizzare l'Afghanistan e le diverse regole d'ingaggio dei contingenti militari inviati dalle diverse nazioni sul fronte afghano. Che la difficoltà di esportare la democrazia con le armi, concetto in sé non disprezzabile perché è andato a buon fine in diversi stati europei, dalla Germania all'Italia, non possa funzionare in paesi che hanno ben altre tradizioni, non era difficile comprenderla fin dall'inizio. La democrazia imposta all'Iraq, lo ha ricordato opportunamente Pierferdinando Casini, ha generato l'emarginazione sunnita da cui ha preso alimento la rivolta terroristica dell'Isis. Bertolini ha giustamente ricordato che in Afghanistan non esistevano partiti, ma solo gruppi etnici. Quali elezioni democratiche si saranno tenute? Le regole d'ingaggio del contingente internazionale affidavano solo agli americani e ai britannici l'uso delle armi, mentre gli altri erano tenuti a giustificarsi di fronte ai rispettivi parlamenti che l'eventuale uso delle armi fosse stato adottato in forma difensiva. In poche parole potevano sparare se gli sparavano addosso per primi. È una guerra, questa? I morti della coalizione superano i tremila, tra cui 53 italiani, e in molti si domandano alla luce del risultato se ne valesse la pena. Dopo vent'anni la guerra appannaggio dei talebani rischia di generare probabili conseguenze. Ne richiamo tre, pesantissime. Il ritorno dei tagliagola al governo in Afghanistan li proietterà sul carro dei trionfatori in tutto il mondo estremista e violento. Diventeranno il simbolo della vittoria contro il mondo occidentale e il loro potere sarà giustificato dalla batosta inflitta alla nazione più potente del mondo, il trionfo di Davide contro Golia, appunto. Il loro trionfo, poi, potrà fungere da base per la ripresa del terrorismo in Europa, dopo la fase di sosta dovuta allo smantellamento dello stato islamico che il terrorismo promuoveva e finanziava. L'avanzata dei talebani, infine, e la prossima caduta di Kabul, stanno già ora provocando un'ondata di profughi nell'ordine delle centinaia di migliaia che presto potrebbero trasformarsi in milione. Vivere coi talebani risulta impossibile per chi lo ha fatto per anni a fronte del massacro degli oppositori, ma anche degli omosessuali, della schiavizzazione delle donne costringendole a indossare il burqa e a stare a casa. Non lasciare soli gli afghani che passano le frontiere né quelli che decidono di non fuggire (anche l'Italia ha il dovere di accoglierli, in quanto profughi, in base al precetto costituzionale) è un dovere per la comunità internazionale. Lasciare il campo libero alla distruzione e all'assassinio è un atto di viltà e di tradimento dei principi che stanno alla base delle dichiarazioni dei diritti dell'uomo. Quel che il presidente Trump aveva concertato per il disimpegno americano coi talebani e che Biden ha sostanzialmente fatto suo si rivelerà una clamorosa illusione. E il mondo, e soprattutto l'Europa, torneranno indietro di vent'anni, alla fase precedente l'attacco alle torri gemelle.
Mauro Del Bue 19 AGOSTO 2021 Blog, Locchiodelbue
Cinque risposte sull'Afghanistan
Usiamo la logica, che dovrebbe aiutare anche a comprendere le vicende politiche. Primo: non si era mai visto che i miliziani di uno stato sparassero contro manifestanti che sventolavano bandiere di quello stesso stato. Nella storia, anche dell'Italia, era accaduto che occupanti di uno stato sparassero contro manifestanti con la bandiera dello stato occupato. A ben pensarci anche i talebani non si sentono afghani, ma appartenenti a uno stato che altri gruppi hanno tentato e tuttora tentano di creare: lo stato islamico. Dunque dobbiamo considerare l'Afghanistan uno stato occupato dai Talebani che oltretutto intendono, in barba alle promesse (promesse da marinai, no, semplici promesse da talebani) riprendere il filo della violenza sulla sua popolazione interrotto dalla guerra. Secondo: quella dei contingenti stranieri, e non solo di quello, prevalente Usa, è stata una fuga, non un ritiro. Una fuga sconcertante, vergognosa, che ha lasciato soli gli afghani, esponendoli alla violenza dei nuovi occupanti. I quali sono stati chiarissimi e hanno promesso, e stavolta manterranno la promessa, che governeranno con la Sharia e non con la democrazia. Hanno già cominciato e quella di ieri non sarà l'ultima strage. Terzo. I profughi, perché di profughi si tratta in quanto gli afghani fuggono dalla morte e dal terrore seminate dai talebani, sono una figura a parte nella nostra legislazione e soprattutto nella nostra Costituzione. La legislazione attuale introduce una differenziazione tra migranti economici e chi fugge dalle guerre, assicurando a costoro diritto d'asilo. L'articolo 10 della Costituzione recita testualmente “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. In verità il dettato costituzionale, che risale a un'epoca in cui non si producevano migrazioni di massa, è di visione assai larga. Quali sarebbero infatti i paesi africani in cui sono assicurate le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana? Ma a maggior ragione non è quella dei talebani che vogliono imporre le leggi della Sharia. E dunque appaiono stonate le distinzioni introdotte da Salvini tra padri e figli, che avrebbero diritti differenti e che non potrebbero ricongiungersi in Italia. Stonate e anche decisamente disumane. Certo se i profughi, come appare ormai evidente, superano quota mezzo milione, andranno suddivisi equamente tra i vari paesi europei, più che imposti ai paesi confinanti mediante finanziamenti appropriati. L'Europa dimostri finalmente di esistere e di giocare un ruolo di primo piano nell'assistenza internazionale. Quarto: nessuno, sono rare le eccezioni, si chiede chi ha mantenuto e finanziato la guerra dei talebani che è durata vent'anni e che ha finito per avere la meglio sul resto del mondo. Quanti miliardi saranno serviti per le spese degli armamenti, per spese di reclutamento e di formazione alla guerriglia, per il mantenimento dei gruppi che formavano un autentico esercito più o meno regolare? Ha risposto Zamir Kabulov, l'inviato speciale del presidente russo in Afghanistan e direttore del secondo dipartimento Asia del ministero degli Esteri russo: “I Talebani sono stati sostenuti da alcune fondazioni islamiche situate, come si capisce, nella regione del Golfo Persico, dove hanno ricchi sponsor”, ha detto Kabulov alla stazione radio. L'ex ambasciatore italiano a Kabul ha parlato anche del Pakistan. Ora, un momento. Il principale paese affacciato sul Golfo Persico è quell'Arabia saudita storicamente legata agli Stati uniti, e il Pakistan è un paese così amico della Nato che il presidente Obama giudicò, nel dicembre 2010, meritevole di uno stanziamento di due miliardi di dollari per la lotta al terrorismo. Forse anche da queste sottovalutazioni ed errori si comprende la clamorosa dèbacle occidentale. Quinto. La Cina, la Russia e la Turchia sono gli unici paesi che continuano a mantenere le loro ambasciate a Kabul. Il motivo è evidente. Sono i tre paesi più attivi nello scenario orientale e mediorientale. E l'Afghanistan fa gola. L'Afghanistan è dotato di una ricchezza di risorse naturali, inclusi vasti giacimenti di gas naturale, petrolio, carbone, marmo, oro, rame, cromite, talco, bariti, zolfo, piombo, zinco, minerale di ferro, sale, pietre preziose e semipreziose e molti elementi di terre rare. Nel 2006, un sondaggio geologico degli Stati Uniti ha stimato che l'Afghanistan ha fino a 36 trilioni di piedi cubici di gas naturale, 3,6 miliardi di barili di riserve di petrolio e di condensato. Secondo una valutazione del 2007, l'Afghanistan ha una quantità significativa di risorse minerarie non combustibili non scoperte. I geologi hanno anche trovato tracce di abbondanti depositi di pietre colorate e pietre preziose, tra cui smeraldo, rubino, zaffiro, granato, lapislazzuli, kunzite, spinello, tormalina e peridoto. C'è bisogno di altre risposte?
Mauro Del Bue 21 AGOSTO 2021 Blog, Locchiodelbue
Non si esporta la democrazia?
Odio i luoghi comuni. E mi schiero con Galli della Loggia che se la prende con i contestatori, oggi dilaganti, che puntano il dito sulla pratica della esportazione della democrazia. Ovvio che ci sono precedenti: la Germania e l'Italia si sono giovate dell'esportazione della democrazia grazie alla vittoria delle forze antinaziste. Ma l'Urss, che era tra queste, importò nei paesi suoi alleati la dittatura. In Iraq, e io mantengo tutte le mie riserve su quella guerra, si è fatta piazza pulita di un dittatore e si sono liberati i curdi che quel dittatore aveva gasato. In Serbia e in Bosnia l'intervento è servito per colpire un criminale come Milosevic e dare a quei paesi governi democratici. Ma si dice: bisogna rispettare la storia di ciascun paese. Che vuol dire, in buona sostanza, che i paesi che sono governati dall'arbitrio e dal terrore se lo meritano perché non sono abituati alla democrazia. Ora, pensate ai paesi comunisti che per quasi 50 anni sono stati sottomessi al dominio di un partito solo. Si meritavano di tornare alla democrazia? E perché tra i paesi arabi o mediorientali la Tunisia, l'Algeria e il Marocco sono retti da governi regolarmente eletti e l'Arabia Saudita, l'Iran, e oggi l'Afghanistan sono retti da teocrazie? È una scelta libera di quei popoli? Ma se si formano movimenti, oggi in Afghanistan, di contestazione ai tiranni l'Occidente deve voltarsi dall'altra parte? Come sta avvenendo? Perché non si esporta la democrazia? Il punto è un altro. Davvero il fine della coalizione occidentale era quello di esportare la democrazia in Afghanistan oggi e in Iraq ieri? Davvero non c'è contraddizione tra il fine proclamato e il comportamento americano nei confronti dell'Arabia Saudita e del Pakistan, che non solo sono guidati da regimi più o meno assolutisti, ma hanno finanziato palesemente i talebani che combattevano la coalizione che intendeva esportare la democrazia e che si prefiggevano di costruire una teocrazia islamica?
Mauro Del Bue 26 AGOSTO 2021 Blog, Locchiodelbue
Tagliano la gola all'ironia
Una risata vi seppellirà, si urlava in Italia nel ‘68 e soprattutto nel ‘77. L'ironia e la presa in giro, ritenute motivo sufficiente di morte con la strage di Charly Ebdo consumata a Parigi dall'Isis, perché non si può offendere il profeta, ha avuto una replica ancora più allucinante ieri in Afghanistan, perché i talebani non possono, paragonandosi evidentemente a novelli profeti, essere oggetto di scherno. Nazar Muhammed, nome d'arte Kasha Zwan, era un comico tagliente e in mezzo alla bufera della guerra, coi rischi che sapeva di correre, non aveva mai smesso di prendere in giro i talebani con canti e balli. A modo suo questa era la sua resistenza. Che solo i fanatici, invasati da una religione, non tollerano e anzi sono indotti a sopraffare. Perfino Mussolini rideva di Petrolini che rideva di lui. E i re e i principi della tradizione medioevale assoldavano addirittura i buffoni di corte che si prendevano gioco di loro. I talebani, ma a quanto pare l'ironia non si sposa spesso con la religione musulmana se anche un comico italiano della troupe di Arbore fu minacciato perché imitava un arabo, sono drammaticamente seri, anzi tristi, anzi crudelmente spietati. Per loro non esiste differenza tra un dissenso e uno scherzo. Così il video diffuso ieri con Zwan che viene prelevato a casa sua e caricato di peso su un'auto da due talebani, assume il valore di un Nobel della tragedia. La scena è da storia del cinema realista. Anzi l'attore principale ed eroico è quello destinato a morire davvero contrariamente ad Anna Magnani nel film di Rossellini. Il comico non smette di fare battute e di ridere in faccia ai suoi assassini. Non smette di essere sé stesso. Sa che lo uccideranno e vuole recitare la sua parte fino in fondo. La dedica a noi, per ricordare che non c'è niente di più crudele che uccidere un uomo che ride e che non c'è nulla di più splendidamente vivo che ridere in faccia alla morte. Uno dei due lo schiaffeggia e l'altro, che sembrava più accondiscendente, improvvisamente cambia l'arma che portava con sé. Il video si interrompe e Zwan viene trovato con la gola tagliata. Mentre in Afghanistan assistiamo ai criminali profitti di certo Erik Prince che coi suoi aerei offre di salvare vite a 6.500 dollari cadauno (ma cosa si aspetta ad arrestare un delinquente di tal fatta?), mentre nel muro, non più di Berlino, ma dell'aeroporto di Kabul in cui si divide non la libertà dalla dittatura, ma la vita dalla morte, anche un console italiano si arrampica per salvare bambini, mentre al G7 si tocca con mano l'impotenza dell'Europa e la tragica debolezza del nuovo presidente americano, su tutto prevale il gesto di sfida di Zwan, la sua risata che come un proiettile sfonda l'ira talebana e sacrifica la sua vita in nome della religione della libera ironia. Si fermino tutti i teatri del mondo. Si fermino i cinema e per un minuto anche tutte le televisioni ricordino questo anonimo martire della commedia umana finita in tragedia. Un eroe da commedia capace di sopravvivere alla tragedia. Così diverrà ancora più cupo e retrogrado il regime talebano che Zwan ci chiede di combattere, sfidandolo lui vis à vis con la sfacciataggine di un comico che non retrocede di fronte al suo martirio e noi con tutte le armi di cui disponiamo.