La ferita aperta
Mauro Del Bue 9 FEBBRAIO 2022 L'EDITORIALE
Stupisce che Carlo Calenda, in una dichiarazione che non nasconde i meriti politici del vecchio Psi, se ne esca con una frase così lapidaria: “Per quanto mi riguarda la storia della leadership del Psi é un monito sugli effetti della hibris e sulla mancanza di etica”. Ho già avuto modo di ripetere che i socialisti hanno pagato tutti i loro peccati. E anche quelli che non avevano commesso.
E lo dico personalmente perché, da autonomista, riformista e craxiano delle origini, mi é capitato di toccare con mano diverse evidenti falle sul piano del comportamento non del solo Psi ma dell'intero sistema dei partiti. Dopo le elezioni del 1992, ma era tardi, avevo bene in mente il nuovo muro, non di Berlino, che ci si parava dinnanzi, frutto anche delle nostre timidezze o reticenze ad affrontare la nuova fase politica aperta dalla fine del comunismo. Tra i nostri errori quello di votare senza capirne le conseguenze quella legge sulla depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti fino al 1989 (anno magico, in cui tutto cambiava, che si portava seco, tra l'altro, la cancellazione dei rubli sovietici al Pci). Ma quello che poi è accaduto non può essere dimenticato. Un uomo solo ha pagato i reati commessi da tutti. E quell'uomo è stato costretto a scegliere tra una morte in un paese straniero e un ergastolo (a più di vent'anni si sommavano le sue condanne avvenute a tempo di record) per finanziamento illecito. Che poi per quest'uomo si siano addirittura proposti funerali di stato dal governo D'Alema la dice tutta sull'ipocrisia italiana. Mi si dice che non si può continuare a parlare del passato. Ma sanare questa ferita è compito del presente. Che il Parlamento della Repubblica non abbia mai voluto costituire una commissione parlamentare di indagine su Tangentopoli, il fenomeno che più di ogni altro ha determinato una svolta negli assetti politici, e anche economici, dell'Italia dal dopoguerra, la dice lunga sull'alto grado di viltà e di paura della classe dirigente dell'epoca. Una subalternità colpevole a una magistratura politicizzata come poi si è autorevolmente confermata. Attendiamo ancora che un'autocritica politica e giudiziaria si concreti dopo ammissioni (sconcertante quella di Borrelli per il quale “Si deve chiedere scusa agli italiani perché non valeva la pena buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale”) e diversi studi, libri, film realizzati negli ultimi anni. Per questo l'affermazione di Carlo Calenda, che addirittura pare stupirsi della rivalutazione della cosiddetta Prima repubblica, sembra andare contro corrente e contro la storia e non solo contro i socialisti. Dispiace perché Calenda si é definito un liberalsocialista e noi continuiamo a sperare che lo sia davvero.
Appunti su di noi
Mauro Del Bue 10 FEBBRAIO 2022 L'EDITORIALE
Prima fotografiamo chi siamo. Siamo una piccola comunità storico-identitaria. Una comunità che intende ad un tempo contribuire a non cancellare una storia e a proiettare un'identità nel presente e nel futuro. Duplice, anzi triplice, compito proibitivo. Siamo sinceri, il compito si é fatto progressivamente più arduo perché non siamo riusciti a coinvolgere nel nostro percorso esponenti che non derivino direttamente dal vecchio Psi, tranne qualche eccezione che riprenderò, e perché anche coloro che derivano dal vecchio Psi si sono progressivamente, e anche recentemente, ulteriormente divisi.
Le due eccezioni sono state la Rosa nel pugno, l'unica intuizione politica secondo me apprezzabile del vecchio gruppo dirigente dello Sdi, che ha aggregato socialisti e radicali (conquistando la percentuale più alta degli ultimi 30 anni di una lista a partecipazione socialista alle elezioni politiche) e la Costituente socialista, con la partecipazione di un gruppo proveniente dai Diesse, che ha invece raggranellato il risultato più basso. Cito questi due casi estremi anche per dimostrare che solo con l'identità non si raccolgono voti in un sistema non identitario, mentre se ne possono raccogliere con aggregazioni politiche e programmatiche. Ciò non significa che il sistema non possa cambiare. Con il ritorno al proporzionale ritorneranno le identità. Forse non d'acchito quelle vecchie, ma indubbiamente la si smetterà di far finta di votare governi e non parlamentari e ogni lista sarà libera dalle catene delle coalizioni che si presentano all'elettorato e poi si sfaldano in Parlamento. Nel breve periodo mi permetto di consigliare a noi stessi di insistere, puntando su un minimo di visibilità, sulla denuncia della crisi, anzi del collasso, del sistema politico nato nel 1994, unico e anomalo in Europa e che ha aperto un vulnus con la storia d'Italia. Se non apriamo noi il processo a questa seconda Repubblica mai nata, che offende la democrazia e la Costituzione con partiti fondati non sul metodo democratico come prescrive la Carta ma sul concetto di proprietà e che calpesta, come il recente caso dei Cinque stelle dimostra, anche le minime garanzie di uno statuto, chi può farlo? E se non apriamo noi una vertenza democratica con la magistratura, anche con atti clamorosi come ha fatto Renzi che ha denunciato i suoi giudici, chi altro lo dovrebbe fare? Contestualmente, perché in politica non c'è un prima o un dopo, dobbiamo occuparci non solo di un'alleanza, ma di una lista. Se la legge resterà questa dovremo occuparci di entrambe le cose: di un'alleanza per il maggioritario e di una lista da presentare sul proporzionale. Se si andrà verso un proporzionale solo di una lista. In entrambi i casi lo sbarramento ci impedirà di presentare una lista da soli o con frammenti che non suscitino la minima speranza di poterlo superare. Lo sguardo è ancora puntato sulle forze dell'area liberalsocialista che però paiono divise tra chi (Azione e Più Europa) volge a sinistra e chi (Italia viva) intende formare un nuovo centro. Si dovrà ragionare anche sulle mosse di Letta. Vorrà ancora tenere fermo l'asse coi Cinque stelle che oggi si presentano lacerati, e con quali poi? O intende costruire una lista e una coalizione, nel caso la legge rimanga qual è, di stampo riformista? L'importante per noi è aver chiaro il cammino, senza suscitare illusioni che generano desolazioni, senza dar retta a coloro che pensano che i socialisti sono destinati a risorgere e poi ci negano il voto, e senza seguire quanti ci porterebbero per la seconda volta fuori dal Parlamento, senza seggi, senza soldi, senza Avanti, senza sede. Questa, di tutte, sarebbe la soluzione peggiore, una vera e propria eutanasia non richiesta. Dunque punibile.
Riflessioni indotte dal 130°
Per il vero e per giuste ragioni di completezza di premesse e di analisi, da precedenti contributi del Direttore Del Bue, dovremmo estrapolare un virgolettato (in bocca a Calenda): “Per quanto mi riguarda la storia della leadership del Psi è un monito sugli effetti della hibris e sulla mancanza di etica”. Cui aggiungiamo un nostro virgolettato (in bocca a D'Alema): “La parola socialista in Italia è diventata impronunciabile”.
Non c'è nulla di più distante dai due esponenti politici (troppo disinvoltamente certificati come potenziali appartenenti all'ipotesi di ricomposizione di un “campo largo del centro-sinistra”) nelle reali intenzioni di convergere in un comune progetto strategico. Ma su una cosa (sia pure con speech diversificato) convergono perfettamente: l'eventualità che l'ipotizzata “Cosa” in gestazione possa (come definizione lessicale e, soprattutto, come definizione concettuale) avere qualcosa in comune con una volontà di costruire, lato sensu, un movimento di cultura liberalsocialista. Che, a ben vedere, sarebbe il minimo sindacale delle precondizioni per un progetto di ricomposizione della sinistra e, volendo largheggiare, di restyling dell'intero panorama politico.
D'altro lato, dei “precedenti” postcomunisti in materia di riavvolgimento della pellicola della storia e di scrittura di una nuova storia, che avesse una qualche attinenza con l'esperienza del socialismo europeo (in cui il PDS prima ed il PD poi sbavarono per entrare, salvo esservi condotti proditoriamente da Renzi tutto si sa. A cominciare dal fatto che (a mente della definizione del “socialfascimo”) in poi al comunismo e al postcomunismo italiano non interessò e non sarebbe mai interessata una riconversione in senso socialdemocratico (una bruttissima parola!).
Quanto a Calenda, su questo terreno (considerando il suo approdo al centrosinistra dalla porta girevole confindustriale) sarebbe come prendersela con un gesto maramaldeggiante.
Il fatto è che il forno di Calenda per (temiamo) l'espace d'un matin, con cui la corrente politica abitualmente brucia prospettive politiche troppo disinvoltamente incardinate dall'eccesso tatticistico, sia stato in qualche modo associato all'idea di un “centro” (indeterminato, almeno dal punto di vista di una miscellanea risultante dalla parziale caducità dei “poli maggioritari”), non corrisponde necessariamente ad un almeno abbozzato percorso di armonizzazione e convergenza di intenti fecondi e seriamente praticabili.
D'altro lato, venuta meno la “bolla" degli adempimenti elettivi a Camere riunite (che ne avevano in certo qual modo bulimizzato le potenzialità) e ricondotte le previsioni del futuro politico nelle dimensioni (se non nell'alveo del rigore) e nella logica del possibile, il “centro” (soprattutto nelle previsioni del “grande" centro) sembra perdere ogni giorno sempre più appeal e credito.
Andrebbe aggiunto, questo sì, che almeno tatticamente si può giustificare un certo margine d'interesse locale a sperimentare una qualche forma sinergica di testimonianza comune che tenga conto della venuta meno e addirittura della dannosità dell'autosufficienza dell'attuale centrosinistra. Ma, dato anche che siamo a fine febbraio e ci avviciniamo alla nuova stagione, poche rondini (di politica locale) non fanno primavera (come invece dovrebbero) per un nuovo corso politico della sinistra italiana.
I cui cardini, come giustamente considerano i due articoli di Del Bue, dovrebbero essere ritrovati (come succede in tutta Europa e, addirittura, nel centro e sud America), nella cultura e nella prassi lib-lab (liberale, socialista e laburista).
Noi siamo tra coloro (pochi) che non imputano quasi esclusivamente le ragioni dell'ostracismo nei confronti della vicenda del socialismo italiano al portato della stagione di “Tangentopoli”.
Che effettivamente, e lo diciamo nella ricorrenza del trentesimo anniversario, costituì l'intelligenza tra “poteri forti ed occulti”, “toghe rosse” e movimenti a basso tasso di incidenza strategica e il detonatore di un cambio di fase. Che imperniò il delisting del precedente modello politico iniziando dallo smottamento del segmento (quello socialista) che, al di là delle quotazioni elettorali, ne aveva costituito per mezzo secolo il perno effettivo di sostenibilità e di evoluzione.
Da tale punto di vista sconcerta che faccia ancora comodo (il che direbbe dell'effettivo rango di Calenda e di D'Alema) l'idea che funga da catalizzatore la continuità dell'ostracismo antisocialista dedotta dalle vicende di trent'anni fa. È andata così (e non è giusto che sia andata così); ma saremmo proverbiali mosche cocchiere se pensassimo di ritagliarci un ruolo nella ricostruzione di una minimale intelaiatura di progetto strategico e di modello associativo se la facessimo dipendere da qualche riabilitazione.
Ok, se ciò servisse per accarezzare i cuori dell'orgoglio ferito dall'ingiustizia patita.
Ma, per essere espliciti e franchi, come è nel nostro costume, se fossimo veramente e lucidamente portatori di un progetto di armonizzazione e convergenza in vista di una costituente italiana richiamantesi al socialismo europeo (circostanza non verificata o insussistente o rivelatrice di eterogenesi dei fini) dovremmo cominciare a dismettere gli impulsi declamatori. Atteso che questo percorso costituente (a raggio variabile) giustamente richiesto agli altri potenziali partners della sinistra riformista, non può non sollecitare su questo terreno quel che resta della diaspora (che da tempo non appare in grado di contribuire ad un cambio di passo neanche nelle sue fila potenziali).
Ricorda giustamente Del Bue in uno dei suoi due apprezzabili editoriali che nel 2022 cadrà il 130° della fondazione del PSI. Che presenta un'eredità plurima, anche se l'erede “legale” non può non essere identificato negli attuali nome e simbolo. Circostanza che accresce, a carico di questo minuscolo aggregato (che talvolta replica in micron la fattispecie” delle nomenclature), le responsabilità di ordine idealistico, etico morale e progettuale.
Presumibilmente l'editorialista identifica il prossimo ferragosto come perno didascalico e ispiratore di una rifondazione del PSI. Del cui richiamo si sente, in un contesto di generalizzata desertificazione di proposta e di riferimenti politici, un forte bisogno. Non tanto nelle file della “diaspora”, in cui, come abbiamo già sostenuto, la punta più avanzata dei propositi di resilienza sembra limitata all'intento di aggregare attorno al nucleo della “ditta" qualche particella sussidiaria, in vista di approdi non meglio circostanziati e coerenti con la richiamata storia di quei 130 anni.
Iniziati, secondo una sapiente narrazione evocativa gestita in occasione del 70° anniversario (ricorrenza che ci omologò come militanti in corso permanente effettivo per mezzo secolo ed oltre), con una contestualizzazione idealistica ben rappresentata nel film I Compagni di Monicelli. Che in quel 1962-63 costituirono la foto opportunity dello sforzo di rinserrare le fila per l'impegnativo completamento dell'autonomia socialista e per il determinante percorso riformista dei decenni a venire.
Con ciò non vogliamo prendere acriticamente come base ideologica di partenza quell'offerta che richiamava, in qualche misura, l'idealismo etico del nostro “albero degli zoccoli” racchiuso nel monticelliano mondo di Pautasso, del professor Sinigaglia, di Raul, di Niobe, di Omero, del maestro Di Meo, di Bianca, di Adele. Comunque avrebbe degnamente ispirato i primi 70, nonostante grandi errori, consumati per una buona causa. Né vogliamo prendere come modello assoluto di riferimento e di ripartenza l'”ultimo corso” (per intenderci dell'abrogazione delle basi marxiste e dell'imbocco dell'offerta di un socialismo lib-lab).
Un'offerta, quella di oltre trent'anni fa, talmente congrua da far vacillare (con le sue teorie del Progetto socialista, della “grande riforma”, della nuova alleanza riformista, dell'allargamento delle basi partecipative alla vita istituzionale e al controllo sociale, della compartecipazione agli indirizzi economici e alla gestione dei grandi complessi aziendali) la tenuta di un sistema politico durato quasi mezzo secolo.
Ben lungi dall'aver varcato l'obsolescenza, questi perni riformisti (per quanto improponibili sic et simpliciter) appartengono (almeno parzialmente) al “pacchetto” della diffusa offerta che sta reinstallando un po' in tutto l'Occidente e, curiosamente, nell'emisfero centromeridionale del nuovo mondo il pensiero socialista come modello di piena attualità.
È a questo fenomeno, in qualche misura reso inaspettato da una non breve temperie sfavorevole alla testimonianza socialista, che dobbiamo guardare. Ripartendo da questa rispondenza dell'incrocio tra questa offerta (evidentemente congrua per un processo di riformulazione delle basi per un nuovo patto tra i portatori di equità sociale e di sviluppo ed economia) ed opinione pubblica ed elettorato.
Il fatto che stia funzionando in Spagna, Portogallo, Germania, paesi scandinavi, Cile indica almeno l'imperativo di riprovarci in Italia (dove da anni la sinistra, nonostante declamazioni in senso contrario, appare una tabula rasa).
Noi (Eco del Popolo) siamo un po' più vecchi; perché, come la “patata Ruggiero” (tanto declamata negli spot commerciali), abbiamo il 5 gennaio scorso compiuto133 anni. Ma la ricorrenza del 130° della fondazione del PSI deve funzionare come qualcosa di più di una suggestione rievocativa.
Per diventare uno sprone indefettibile, lucido, ragionato; non per riproiettarne il film da tempo riavvolto. Ma per ritracciarne una guide-line suscettibile di riallocare l'ambizione della ripresa del filo socialista nel novero delle grandi sfide ideali e delle testimonianze praticabili.
La gente, teoricamente associabile a questo progetto, non sarà motivata (come un certo ricorrente leitmotiv, non del tutto assente nelle argomentazioni di Del Bue) dalla caduta dell'ostracismo, incardinato dalla stagione di “mani pulite” e dalla pulizia etnica operata nei confronti dei socialisti.
E da una conseguente “riabilitazione” circoscritta ad una prevalente valenza politico-giudiziaria.
Si sarà notato che da anni sono venuti meno gli impulsi allo “sputacchiamento” e ci staremmo comodamente crogiolando nell'indifferenza se qualche improvvida testimonianza riparatrice dei torti subiti trent'anni fa non sollecitasse revivals di odii antisocialista.
Vogliamo (per quanto ciò costi intima sofferenza e qualche incomprensione) essere chiari: per riattualizzare la testimonianza del socialismo liberale italiano non si parte dai film recenti, dalla presunzione che dal “tutti a casa” dal 1994 in poi (con la riscoperta delle motivazioni del “teniamo famiglia” e che si continua in altre forme la storica mission) sia stato un filotto di splendide performances (al punto che non avremmo la forza di farci eleggere neanche alla bocciofila e non avremmo neanche la capacità di mobilitare adeguate filiere operative).
Ancor più esiziale sarebbe inseguire l'escamotage (alias, furbata) di ottimizzare le nostre residue risorse ideali, progettuali e mobilitative) convergendo su cartelli, risultanti da un ancor più severo del nostro processo di marginalizzazione e di annichilimento.
Che, per di più, presentassero come in realtà presentano (e non ci riferiamo, con tutto il rispetto, al modello Mastella) un bassissimo livello di omogeneità di indirizzo teorico e da rappresentativa di un comune bacino socio culturale.
Coloro che intendessero continuare a cullare sogni di resilienza dietro le insegne della convergenza del “grande centro dei moderati” (una miscellanea, come abbiamo già considerato, priva, al di là dell'autoproposizione tattica nell'intossicata stagione del Colle, di minimali basi per una feconda convergenza) si accomodino. Noi, pur non volendo essere assimilati alla figura di Teruo Nakamura, riteniamo che la ripartenza debba sortire dalla rivisitazione e dalla riattualizzazione del Progetto Socialista. Uno sforzo che può partire dall'autonoma e convinta iniziativa; ma che deve attribuire piena cittadinanza a tutte le voci della diaspora socialista.
Da anni testimoniamo il nostro encefalo attraverso l'approfondimento storico e la divulgazione dell'Associazione Zanoni e del ricco contributo dell'intera, lunga esistenza di Mario Coppetti, attraverso il nostro piccolo “tesoretto” Eco del Popolo, la Comunità Socialista che è la “riserva dei nativi”, ispirata da assoluto senso pluralistico ed impegnata a riannodare il senso delle contiguità delle teorie laiche e liberalsocialiste.
Negli ultimi tempi, a prescindere e a dispetto della relazionalità a sovranità limitata imposta dalla pandemia, si è andato esplicitando in quel che resta delle file socialiste l'impulso a tentare di reinstallare anche nel nostro territorio il PSI.
Inaspettatamente (per le correnti categorie interpretative che propenderebbe per un gesto reducistico) l'iniziativa viene assunta da un gruppetto di giovani medici, insegnanti, intellettuali (ovviamente accompagnati da non pochi consensi più agés).
La convention avrà luogo sabato 19 corrente febbraio con inizio alle ore 10. È ad inviti ed è assistita dalla verifica rigorosa del possesso di green pass. Eventuali interessati possono correlarsi per l'accreditamento presso i promotori che appaiono nella scheda che pubblichiamo appena sotto.
Care Compagne, Compagni e Amici,
questi anni sono serviti alla nostra Comunità Socialista per diventare un'importante realtà progressista e riformista, che ha permesso il confronto con altre realtà vicine alla nostra, sia del mondo civico che politico del centrosinistra.
Le sfide, che oggi, si presentano all'orizzonte, richiedono un rilancio del nostro attuale assetto organizzativo.
Importanti sono state le relazioni riallacciate con amministratori e cittadini dell'area del centrosinistra e le riflessioni utili per il “laboratorio di idee” nato dal continuo confronto con i diversi soggetti politici. Tutto questo patrimonio politico e culturale non può essere disperso, dopo essere stato costruito non senza sforzi e sacrifici dall'intera Comunità.
Da socialisti ben sappiamo che più si concretizza un'idea e un movimento diventa grande, più c'è la necessità di una struttura organizzativa ampia e articolata che lo supporti a livello nazionale, per incidere ancora di più nella politica territoriale.
Il nostro vissuto, la nostra storia, i nostri valori e le battaglie sociali sostenute da chi c'ha
preceduto, ci indicano, ora, quel percorso da cui ci siamo discostati per un breve periodo ma che inesorabilmente dobbiamo riprendere per assumere quel ruolo di protagonisti che da troppo tempo abbiamo delegato ad altri partiti del centrosinistra.
Abbiamo il dovere di riprovare a costituire il Partito Socialista nella nostra provincia.
Il partito della libertà e della giustizia sociale, capace di cogliere le sfide che l'attualità ci presenta.
Questa è la nostra sfida. Un nuovo corso che ci dia la consapevolezza di chi siamo stati, chi siamo e che saremo sempre.
SOCIALISTI.
Vi chiediamo quindi una profonda riflessione, un confronto franco, nella speranza di condividere con voi COMPAGNI il nuovo percorso con convinzione e determinazione.
Viva il socialismo, Viva la Comunità socialista, Viva il PSI.
Fraterni saluti
Il coordinamento provinciale del PSI
Alberto Gigliotti – Medico – Crema – gigliottialberto@tiscali.it -3203398149
Diego Rufo – Insegnante – Cremona - die.rufo@gmail.com - 3396239261