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L'EcoRassegna della stampa correlata - "La Costituzione" - "Berlusca e i precedenti"

"Non partecipiamo al gioco del rosa rosae"

  25/01/2022

Di Redazione

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Continua, scantonando nella contigua rubrica della rassegna stampa dei contributi di eminenti giornalisti di cultura socialista, il focus Quirinale. 

In questa edizione di avvalliamo degli editoriali di Mauro Del Bue, direttore dell'Avantionline con un passato di parlamentare e dirigente del PSI, e di Domenico Cacopardo, già Presidente di Sezione del Consiglio di Stato ed editorialista della Gazzetta di Parma e di altre testate. 

Interverrà, alla fine del format ed in rapporto dialettico/riflessivo anche la direzione di questa testata. L'approfondimento della cruciale congiuntura, avviata con l'insediamento del seggio elettivo a Camere riunite, continua. Il confronto, pure. Aspettiamo contributi da sottoporre ai nostri lettori.  

La Costituzione 

Nella Costituzione di fatto che s'è andata costruendo in 76 anni (dal referendum) di Italia repubblicana ci sono molti punti che non erano stati previsti dai padri costituenti, preoccupati tutti di ogni possibile scivolamento in senso autoritario -preludio di un ipotetico e impossibile ritorno del fascismo-, e sono emerse molte consuetudini anch'esse in contrasto con la lettera e lo spirito cui la Carta costituzionale s'è ispirata. 

Non intendo inoltrarmi in un'analisi puntuale, ma basti segnalare che il presidente della Repubblica quale lo vediamo oggi in azione non corrisponde al profilo indicato dalla Costituzione entrata in vigore nel 1948. E il primo ad allontanarsene (a parte l'incidente di Giovanni Gronchi, dovuto a un eccesso di autoreferenzialità che gli impediva di vedere quale fosse la situazione del Paese e quella del suo partito, la DC) in modo evidente e plateale fu Oscar Luigi Scalfaro che decise di trasferire la personale antipatia e il personale dissenso nei confronti di Berlusconi e delle sue proposte in un esplicita lotta contro il suo governo condotto in breve alle dimissioni per il ritiro della Lega Nord deciso da Umberto Bossi, sulla base di un accordo con il Quirinale.  

Un parteggiamento del presidente della Repubblica così operativo e così effettivo non s'era mai visto e non s'era mai visto un presidente utilizzare le capacità di un grande gran comis come Gaetano Gifuni per condizionare il giorno per giorno governativo, con interventi sulle nomine e sulle norme. I poteri arrogatisi da Scalfaro non sono mai stati sostanzialmente dismessi, anche se nessuno ha svolto il ruolo esplicito e incontestabile di «parte» nei processi politici nazionali. Lo stesso Giorgio Napolitano, il presidente più interventista della storia non ha mai manifestato in modo esplicito la partigianeria del suo casto (casto perché aggrediva a parole e denunciava le signore eccessivamente scollate incontrate nei ristoranti) predecessore anche se non è revocabile in dubbio che si sia trattato di un presidente schierato. Il suo esangue successore ha subito senza reagire il peso della legislatura iniziata nel 2018 con lo straordinario successo dei 5Stelle, ma al momento giusto, a crisi aperta da Matteo Renzi, ha colto la palla al balzo, rompendo lo sconfortante tran tran dei partiti.  

Emerge altresì che la Costituzione dei partiti (anche se essa dedica ai partiti le poche parole dell'art. 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.») ne ha dismesso ruolo e peso per un concorso di fattori, tra i quali si colloca la posizione della magistratura, affidataria di fatto di un gratuito diritto di sindacato e di scelta sulla politica nazionale, e altresì la distratta disaffezione della pubblica opinione che non anima più le organizzazioni politiche. Uno stato di fatto che non rispecchia il ruolo definito dall'art. 49, ma ricerca strade e strumenti diversi dal passato. Il che sarebbe cosa buona e giusta alla sola esclusiva condizione che le donne e gli uomini capaci di guidare il Paese nel terzo millennio decidano di uscire dal privato per dedicarsi al bene comune. 

Ora che siamo al dunque dell'elezione di un nuovo presidente della Repubblica possiamo constatare come la funzione politica dei partiti si sia sbriciolata e come quindi non ci siano punti di riferimento riconosciuti come tali e come tali, quindi, considerabili capaci di orientare le scelte dei grandi elettori. 

Una situazione di degrado, quella attuale, che ha tanti responsabili, ma più responsabile degli altri è proprio Silvio Berlusconi. E, fra i tanti motivi, scelgo il più semplice ed elementare. 

Mentre sembra giunto il momento perché la personalità che sarà eletta possa essere una personalità di sicuro prestigio scelta dal centro-destra, lui esce dal riserbo in cui s'era rifugiato e pone sul tavolo la propria candidatura. Un gesto che in qualche misura obbliga lo schieramento di cui fa parte a «non» sostenerla, bloccando così le possibili evoluzioni di questa delicata fase. Un gesto irresponsabile perché prodotto da un uomo di 85 anni che ha abbondantemente superato le attese di vita indicate dall'Istat e che di certo non può assicurare una accettabile interpretazione del ruolo cui aspira. Fra l'altro, negli scorsi mesi, abbiamo letto di frequenti ricoveri nell'amato San Raffaele. Anche se essi presentavano sospette coincidenze con udienze di tribunale, non potevano non essere sintomo di problemi di salute. 

Salve tutte le altre considerazioni che si possono formulare sull'uomo e sullo stato delle cose che rendono impossibile che altri partiti lo votino consegnandogli la prescritta maggioranza. 

La mossa del cavaliere, peraltro, potrebbe assumere un altro significato, percepibile del resto dall'oggettivo rafforzamento dell'ipotesi Draghi al Quirinale, dovuta proprio allo stallo in cui lui stesso (Berlusconi) ha messo il centro-destra. 

C'è da dire che i ragionamenti capziosi e bizantini debbo essere abbandonati e, poiché l'interesse degli italiani è che ci sia una elezione in tempi ragionevoli e di una personalità non divisiva, resterebbe a Berlusconi il compito di mettere la parola fine alla sua carriera politica rendendo effettivo lo slogan della prima ora: «L'Italia è il paese che amo.» Se ama l'Italia, liberi il tavolo e così contribuisca a una scelta eccellente di alto profilo e di alte prospettive condivisa con i leader della Lega, di Fratelli d'Italia e di quei partiti non di centro-destra che la giudicheranno adeguata. 

E se non lo facesse sarà la realtà a imporsi e ad archiviarlo per anzianità e per pervicacia. 

Un'ultima notazione: il Pd privo della sponda Quirinale -a seguito dell'elezione di un presidente non appartenente alla sua area- sarebbe costretto a entrare in politica. E sarebbe ora. 

Domenico Cacopardo 

Berlusca e i precedenti

Mauro Del Bue 16 Gennaio 2022 L'EDITORIALE 

Letta ha chiuso la direzione del Pd con l'enfatica proposta di un patto di legislatura che prevede l'elezione di un Presidente della Repubblica condiviso. Che Berlusconi non lo sia pare evidente anche a Vittorio Sgarbi, convertito oggi alla funzione di suo centralinista alla ricerca delle noci. O meglio dei voti. 

Ha però ragione Paolo Mieli a ricordare che anche l‘idea di Bersani di convergere su Prodi, coi cento e più franchi tiratori del suo stesso partito che la resero vana, non era certo condivisa da tutti. E questo avveniva dopo che alla prima votazione, quando servivano i due terzi, si era bruciata la candidatura Marini. Che se, coi voti ottenuti, fosse stata giocata alla quarta sarebbe stata vincente. Se abbiamo memoria non possiamo evitare di ricordare che il presidente Napolitano fu eletto con il 53 per cento dei voti. Parlo della prima volta (c'ero anch'io in Parlamento nel 2006) e che Leone nel 1971 venne eletto con appena il 51 per cento. Altro che larga convergenza. Dunque un'eventuale elezione di un candidato che alla quarta chiama arrivasse al Quirinale con un'esigua maggioranza non costituirebbe un precedente. Si può certo discutere dei metodi fin qui usati dal cavaliere. La ricerca del consenso tra i parlamentari incerti e senza casa e con un futuro nerissimo assomiglia più a quelle televendite a cui lo stesso Berlusconi sostengono si rivolga con una certa frequenza. Non a caso i regali (lui ci sa fare, ragazzi) si limitano a quadri di scarso o nessun valore, peraltro relegati in soffitta ancora incartati. Lui è fatto così. Nel bene (ha avuto il coraggio di sfidare la gioiosa macchina da guerra occhettiana e di battere a sorpresa il partito dei giudici nel 1994 e personalmente ho preferito per un breve periodo lui a una sinistra prona al mito di Di Pietro), ma anche nel male (è proprietario, non solo leader, del suo partito che non fa congressi e non elegge nessuno e conseguentemente pretende allo stesso modo di assumere parlamentari e non solo di chiederne il voto per la sua ascesa al Colle). Non penso che Berlusconi abbia più possibilità di essere eletto di quante ne abbia la Juve di vincere questo campionato. Ma la sinistra, o meglio il Pd, ha una strategia in testa? Mica si limiterà ancora una volta a gridare al lupo, cioè a Silvio, finendo così, come è sempre avvenuto, per avvantaggiarlo? Davvero pensa di non partecipare al voto alla quarta chiama qualora la candidatura di Berlusconi fosse in campo? Questo sì costituirebbe un pericoloso precedente, almeno per la sinistra, e oltretutto sarebbe la palese dimostrazione che Letta non si fida dei suoi. Resto convinto che l'unica soluzione, o meglio la migliore, sia ricorrere all'esperienza di un'alta personalità delle istituzioni che già altre volte, pur essendo orientato a sinistra, avrebbe ottenuto il gradimento della destra. E che era stato proposto dallo stesso Berlusconi e bocciato dal Pd perché dirigente del vecchio Psi. E vice di Craxi, oltretutto. Il paradosso di Amato è questo: essere considerato traditore di Craxi dai socialisti, o meglio da una parte di loro, ed essere nel contempo ritenuto troppo craxiano dalla sinistra. Sono convinto che la sua elezione risolverebbe d'un sol colpo questa incomprensibile contraddizione. 

non partecipiamo al gioco del rosa rosae  

…in quanto tardivo e deviante e, sul piano delle intenzioni politiche, dalle declinazioni maleodoranti.  

Sembra che i protagonisti della vita politico-istituzionale, a cominciare dai capitani e da colonnelli dei movimenti politici, abbino scoperto un giorno fa l'impellenza dell'adempimento (a parere personalissimo) principe nella gerarchia degli equilibri dell'ordinamento repubblicano. 

Vero che la nostra testata ha lanciato la candidatura di Valdo Spini. Ma, per motivi esattamente opposti alle pulsioni che orientano i players “della rosa dei papabili…”. 

Per giunta l'amico, compagno e coetaneo Valdo (nomen omen) quest'anno è stato eletto presidente del sinodo delle chiese metodiste e valdesi (condizione che lo esclude dalla fattispecie della palpabilità); per giunta è stato incardinato dall'educazione famigliare sui giusti binari della politica come testimonianza e servizio alla società; ultimo ma non ultimo, non si è riciclato in questi scenari della transizione e, per quanto abbiamo capito, è manifestamente incongruo per questi contesti un po' scombiccherati. 

L'età non conta. In primis perché è nostro coetaneo e quindi… In secundis perché se si sono autocandidati personaggi che potrebbero essere fratelli molto ma molto maggiori…. 

Ergo la candidatura Spini, manifestamente platonica, ha assunto per noi il profilo didascalico. Per proporre un modello di soluzione, cucito addosso al profilo di un servant della democrazia e della Repubblica, perfettamente adatto alle possibili opzioni per uscire dalle secche di questo inquietante contesto. 

Ed entriamo nel merito delle riflessioni e degli approfondimenti autorevoli dei due editorialisti. 

Partendo da un primo interrogativo: Ma che coerenza ci sarebbe tra gli enunciati circa la prerogativa della massima magistratura della Repubblica, come garanzia ed indipendenza se, come appare, l'opzione del titolare sta diventando una sorta di mercato delle vacche? In cui si gioca una miserabile partita di condizionamento futuro delle prerogative e si attribuiscono posizioni predeterminate di ruoli, che nulla hanno a che vedere con le funzioni del Capo dello Stato (da cui dovrebbero essere disgiunte)! 

“Draghi avrebbe promesso che la dirittura finale della procedura non prevede per Quirinale e Palazzo Chigi soluzioni contro o senza i partiti” avrebbe confidato alla stampa uno dei protagonisti di questa pretattica. Che manifesta sempre di più le caratteristiche dei players di voler procedere a fari spenti. Fatto che sta mettendo a rischio le sorti di questa coalizione di responsabilità nazionale, ma soprattutto la sua stagione e la sua finalizzazione strategica. Come progetto di resilienza e rilancio, ma anche come occasione per ottimizzare il funzionamento delle istituzioni.  

Circa gli sbocchi di questa temperie, potenzialmente disossanti, i presagi, proiettati dall'inizio di questo cruciale appuntamento, non appaiono edificanti. Fin qui il quadro ha (malamente) tenuto, grazie alla circostanza di un Capo dello Stato di spessore etico e di garanzia per l'Italia e la UE e il ruolo corazzato di Draghi. Che ha messo nell'angolo gli sfasciacarrozze sovranisti, populisti e fascisti. Questa compagnia di giro ha da tempo capito che l'epilogo dell'elezione dell'inquilino del Colle più alto può rappresentare la prima tessera del "domino". Via Mattarella, niente Draghi al Quirinale, nessun Presidente di responsabilità e garanzia al Colle... e le jeux sont faits: costringere Draghi a lasciare o a non essere il tecnico/politico di collegamento in termini di prestigio e garanzia con UE e Occidente   e di ristrutturazione del malandato sistema. Che ha portato l'Italia ai limiti della bancarotta nei fondamentali economico-finanziari e di credibilità. 

Cerchiamo di non farci prendere di sorpresa dai peggiori accadimenti. Non abbiamo personalmente niente da perdere...se non l'autoriconoscimento della residua capacità di interpretare il senso delle cose. A parte i lati miserabili di certe prestazioni politiche, abbiamo motivo di temere che nell'agenda del composito campo di centrodestra sia iscritto l'imperativo prioritario di far saltare il banco di giochi fin qui sostanzialmente favorevoli (nonostante gli esiti elettorali) al vecchio establishment. I cui perni, al di là delle stagionalità, sono sempre stati prerogativa del campo moderato. L'installazione della versione "tecnica" della politica impone all'opinione pubblica di guardare ai risultati e ad astrarre dalle suggestioni populistiche. Fatto che, per i testimonials di questa "cultura" politicante ", è come l'aglio per dracula. Per procedere nella direzione dello spostamento del baricentro la loro Bastiglia è l'escomio degli inquilini di "continuità ". E l'affermazione di inquilini o "neutri" o, meglio, se garanti di una strategia di cambio di fase. Che abbia come share un modello simil polacco o un modello conservatore molto vicino al trumpismo.  L'acqua di coltura del nostrano centrodestra non è un sia pur aggiornato modello churchilliano (che Salvini e la Meloni non saprebbero declinare decentemente). Bensì compiacere la pancia delle fasce di opinione comprese tra un forte radicamento illiberaldemocratico e un inarrestabile metadone qualunquistico e protestatario.  Uno spazio di centrodestra "moderato" non datur.  A Salvini e alla Melloni non serve un "compromesso" finalizzato alla resilienza dell'Italia, transitoria o strutturale che possa essere. Nel loro trogloditismo hanno capito che più permane e diventa statico il modello Mattarella-Draghi e più si allontana per loro l'approdo alla consacrazione dell'offerta della destra. Turba l'insipienza della "ditta" dem. Forse motivata, più che da una bassa capacità di lettura dei fatti e delle prospettive, da un definitivo sbando della nomenklatura priva di coesione per superiori progetti idealistici. Del ruolo dei socialisti italiani (obiettivamente azzerato da 30 anni tafazziani e da un irreversibile ostracismo), non si mette conto neanche rifletterci (per non infierire).

(e.v.)

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