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L'EcoRassegna della stampa correlata - "Focus Quirinale"

Contributi di Domenico Cacopardo e di Mauro del Bue

  02/02/2022

Di Redazione

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È ben lungi in questo momento in chi scrive l'idea che il focus, attivato alla vigilia dell'apertura del seggio elettorale a Camere Riunite possa andare repentinamente, come si suol dire, in soffitta. 

Tale evenienza, magari, sarà prerogativa di chi ha guardato al cruciale passaggio principe dell'ordinamento repubblicano o di chi assiste con irrefrenabile animo agonistico, applicato indifferenziatamente anche alla politica. 

Di più è stata nostra costante sollecitudine, durante tutta questa settimana, di guardare poco al dito e molto alla luna. 

Indubbiamente, la conferma di Mattarella costituisce una buona notizia. In sé e per il combinato di correlazione con gli effetti di stabilizzazione degli equilibri circostanti. 

Non avremmo giurato che sarebbe andata così. Per le premesse di una “pratica”, affrontata senza la necessaria consapevolezza, e per l'assoluta inadeguatezza del parterre degli addetti. 

L'approdo, sul cui carro vogliono salire se non tutti, molti, è indubbiamente il portato di un contesto significativamente fuori dalla fisiologia che aveva, pur nella permanenza di contrapposizioni, garantito il mantenimento di una buona aderenza ai perni su cui l'ispirazione e la prassi della Repubblica si erano mantenuti coerenti. 

Non suoni offesa per nessuno, ma gioiamo per un risultato per cui decenni fa avremmo sollevato, sul terreno della stretta ortodossia, più di un rilievo. 

D'altro lato, non è da adesso che le soluzioni alle ricorrenti criticità del sistema parlamentare sono state affrontate e risolte per il rotto della cuffia. 

Diciamolo francamente. Da Ciampi in poi (passando per Napolitano e per Mattarella) si è garantita la governabilità sotto una cappa di non ineccepibile prassi. Si deve al senso dello Stato ed all'alto quoziente etico degli ultimi tre Presidenti, se il funzionamento della macchina liberaldemocratica ha sottratto l'Italia ad un destino di deragliamenti. Di prassi e di garanzie costituzionali. Nonché di entrata del sistema in una spirale, i cui esiti sarebbero stati imprevedibili. 

La nostra testata, di fronte alla dichiarata indisponibilità di Mattarella ad un bis, aveva stimato che fosse necessario riavvolgere la pellicola di posture non esattamente replicanti la normale prassi e che si tornasse, pur nella consapevolezza dei contesti difficili, alla normale dialettica. 

Suscettibile di mettere in campo candidature espressione di idealismo e di progetti di governo, non più all'insegna della eccezionalità. 

Era questo il richiamo motivazionale per cui avevamo enucleato la candidatura di Valdo Spini. Una figura dotata parimenti degli accrediti di civil servant, ma anche e soprattutto del requisito simbolico di sollecitare il rientro nella normalità. In cui non sia, da un lato, più necessario praticare, sull'altare della governabilità, comportamenti borderline e, dall'altro, si possa consentire, attraverso un impegnativo passaggio di riforma della politica e di parti della norma costituzionale, palesemente incongrui, il ripristino delle prerogative in capo alla democrazia rappresentativa ed ai suoi leaders. 

La battaglia per il Quirinale ha reso evidente il decadimento ormai irreversibile del modello liberaldemocratico basato sull'associazionismo politico imperniato sui partiti, che sono ormai irreversibilmente deboli e disarticolati. Soprattutto, privi di un progetto strategico. La democrazia della rappresentanza, come dice Monica Guerzoni, va ricostruita dalle fondamenta. Avere ancora Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi è una garanzia, all'interno e verso il quadro internazionale. Per il momento abbiamo salvato le terga. Ma non si può andare avanti all'infinito col metadone. Noi ci riteniamo catalogati tra i molti consapevoli dotati di percezioni e consapevolezze “facilitate” dal non archiviato ricordo del modello praticato dell'agibilità dell'ordinamento istituzionale, imperniato sull'associazionismo di massa, fatto di centinaia di migliaia di dirigenti, quadri intermedi e militanti basici attivi, di articolazioni territoriali, di scuole di partito, di giornali ufficiali ma anche di testate di divulgazione tematica e culturale. 

Oggi i partiti, meglio i movimenti, hanno come perni più divergenti che convergenti una intelaiatura raffazzonata, di correnti somiglianti a bande mediatiche. E non corrispondono né al modello liberaldemocratico del 1948 né alle esigenze fisiologiche di una democrazia matura ma efficiente chiamata a misurarsi con profondi cambiamenti. 

Come scrive oggi Antonio Polito sul Corriere: occorre protestare un'idea della politica, che in nome del popolo, si presenta da anni come nuova, diversa, irriverente, moderna, antipolitica, in realtà una specie deteriore della politica. 

Necesse alzare lo sguardo dalla quotidianità e dai corti panorami dei calcoli leaderistici. La situazione nazionale, rimessa in sesto grazie al governo dei tecnici e per effetto dalla marginalizzazione dei partiti, deve essere prima consolidata e poi rimessa stabilmente sui binari. 

Soprattutto, occorre trovare coesione sul principio della politica come servizio al bene comune della Patria. 

Difficilmente nel parlamento italiano si è sentito e si sentirà la voce dell'opposizione emula della dichiarazione del capo della minoranza parlamentare portoghese (Rui Rio): “signor primo ministro conti sul nostro aiuto, perché la sua fortuna è la nostra” 

Per un dovere di sottolineatura comportamentale, il citato Capogruppo, di fronte alla sconfitta elettorale di due giorni fa (circostanza ancor più desueta nei gesti politico parlamentari italiani) ha rassegnato le dismissioni dall'incarico. 

Nell'intento di alzare il livello della riflessione politica, pubblichiamo su licenza degli autori e dei rispettivi editori, pubblichiamo due contributi di Domenico Cacopardo e di Mauro del Bue. 

Mattarella&Amato 

di Domenico Cacopardo

Il mood dell'informazione nazionale -di un impressionante e imbarazzante conformismo- si sofferma, a proposito delle modalità di elezione di Sergio Mattarella per un secondo mandato di presidente della Repubblica sulla facile affermazione del fallimento della politica e, addirittura, in diversi casi, della democrazia. 

Secondo me, ciò che è accaduto è tutto il contrario di un fallimento della politica e/o della democrazia. 

Gli istituti democratici e, in questi giorni primo fra essi il Parlamento, hanno superato la prova dimostrando la validità di un sistema che, secondo Winston Churchill “… è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che sono state sperimentate sino a ora” (discorso alla Camera dei comuni del novembre 1947). Infatti, dopo al 6° giorno di votazioni, la pressione dei parlamentari («senatores boni viri, senatus mala bestia») ha sfondato gli arzigogoli inconsistenti dei cosiddetti leader dei partiti, imponendo il ritorno al nome di Sergio Mattarella, onorato poi da una valanga di voti. 

Ciò che non ha funzionato, infatti, sono i partiti attuali (forma decaduta e anchilosata dei partiti intorno ai quali nacque la Repubblica) e le loro dirigenze, mai come oggi lontani mille miglia dalle ragioni della politica, dalle esigenze dei cittadini, dalle necessità dell'economia e della società. 

Un fallimento che coinvolge tutti o quasi, giacché Giorgia Meloni, avendo deciso di proporre il suo partito, Fratelli d'Italia, come alternativa di sistema (o nel sistema) ha giocato le sue carte sapendo che nella migliore delle ipotesi avrebbe raggiunto il proprio fine, nella peggiore avrebbe partecipato a una elezione di rottura degli equilibri su cui solidamente, ma non quanto sarebbe necessario, poggia il Paese. E ad eccezione di Matteo Renzi, pura intelligenza politica, macchiata da frequenti eccessi di egotismo, che ha navigato di bolina, sapendo sempre quale fosse la posizione giusta per il piccolo timone che teneva e tiene saldamente in mano.  

Gli altri, da Salvini a Letta riscuotono una votazione insufficiente. E preoccupante. Sia la Lega non più Nord (e sottolineo il fatto per i devastanti effetti che ha avuto) che il Pd sono due partiti che affondano le proprie radici nella prima Repubblica. Essi costituiscono parte del patrimonio storico nazionale e parte non marginale del sistema democratico che intendiamo preservare e, magari, rilanciare.  

Per la Lega, le questioni sono due: una leadership sgangherata e incapace di comprendere i fondamentali della politica che, dal 2018, momento del maggior splendore, ha inanellato una serie di sconfitte (dall'estate del Papeete al gennaio 2022) senza rendere conto al partito, che peraltro dispone di organi collegiali democratici. L'altra è costituita dalla rincorsa di sirene improbabili e dannose, quelle del sovranismo nazionalista, e dall'abbandono della sostanziosa costituency costituita dal tessuto delle piccole medie e grandi imprese del Nord. Esse (in affannosa ricerca di manodopera anche extracomunitaria) hanno l'interesse a essere parte di un sistema allargato come l'Europa col quale si sono misurate con successo e con prospettive di ulteriori affermazioni. È bastato l'instaurarsi di un governo stimabile e stimato per creare la fiducia necessaria a realizzare la più rapida ripresa economica mai accaduta, superiore alla Germania. Una ripresa che non è un miracolo di governo, ma un miracolo imprenditoriale, degli italiani che sanno e vogliono lavorare meglio degli altri. Degli italiani che si misurano con il mercato, rifiutando con sdegno la fannullanza garantita da un assegno dello Stato.  

Del resto, il successo italiano in Europa, nelle istituzioni europee che ci ha permesso di fruire (in itinere) del più ingente finanziamento mai ottenuto dall'Italia si fonda sulla forza del Paese, prima che sulla credibilità del suo premier. 

Penso che sia nell'interesse dell'Italia e degli italiani che la Lega divenga un protagonista positivo dell'agone politico nazionale, portatore delle esigenze del mondo dell'impresa (se ci riflettiamo l'imprenditorialità diffusa italiana è un fatto di per sé democratico) e di quel buon governo che in genere nelle regioni e nei comuni è merito delle amministrazioni leghiste (non tutte, ma tante, tantissime). 

E un pilastro, un po' eroso dai venti acidi cui è stato sottoposto, è il proprio il Pd. Il partito democratico, nato a Torino il 14 ottobre 2007, avrebbe dovuto essere il partito del riformismo progressista, detto in una parola del riformismo socialista che s'era affacciato in Italia ed era stato ricacciato indietro da una serie di immaginabili reazioni retrive. Un partito parente del partito democratico americano, nel quale coesistono le diverse anime dell'area liberal di quel paese. Tanto che dopo un inizio stentato con il capo rivolto al passato più che al futuro, un giovane leader, Matteo Renzi, ne aveva conquistato il comando e l'aveva condotto sulla via del riformismo anche costituzionale. I ceti conservatori (che costituiscono un solido potere nel partito, con le reti economiche e sociali che ne sono emanazione) hanno chiuso l'esperienza, riprendendo in mano le sue redini. È questo che manca al Paese: una forza di riformismo democratico che guardi al futuro e interpreti le esigenze delle giovani generazioni.  

Degli altri, i residuali con potenzialità latenti, avremo modo di scrivere presto. 

E c'è un segno significativo in questo sabato 29 gennaio: in contemporanea con l'elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, è stato eletto il presidente della Corte costituzionale, nella persona di Giuliano Amato. Un socialista, un riformista che la legge del contrappasso pone alla testa del sistema giudiziario di garanzia nel momento più opportuno, quello in cui la Repubblica può riprendere il suo cammino di crescita civile, economica, morale. 

Ai due presidenti, accomunati dal giorno di elezione e da una storia politica di democrazia attiva, vanno formulati i più caldi auguri di successo. 

Per l'Italia. Per l'Europa. Per noi tutti. 

Mesi difficili si appressano: la tensione internazionale tende a sostituirsi alla piaga del Covid-19, portando seco venti di guerra e prezzi da pagare sul fronte energetico.  

Li affronteremo come una Nazione soltanto se alla sobrietà di Mattarella e Draghi si aggiungerà la forza della concordia del paese politico, almeno di coloro che costituiscono la maggioranza di governo. 

Libera volpe in libero pollaio 

di Domenico Cacopardo

Ormai, mentre sembra assestarsi la situazione politica -anche se rimangono problemi politici e funzionali nel governo- si possono tirare le altre somme in sospeso. Ci riferiamo innanzi tutto a Forza Italia che sembrava moribonda, quasi morta e che invece è tornata in vita. E non per merito del cavaliere sempre più lontano da Roma e dalle pochezze della vita, ma per merito di coloro che sono rimasti sul pezzo nel governo e in Parlamento, dimostrando che la gamba di centro del centro-destra non solo è viva e vitale, ma ha anche un ruolo da svolgere nel governo e nel Paese proprio in questo anno di passaggio dalla rielezione di Sergio Mattarella sino alle elezioni prossime venture nelle quali gli eligendi saranno 600, 400 deputati e 200 senatori, oltre 300 seggi in meno dei nostri giorni. 

Una strage di aspiranti deputati e di aspiranti senatori, che sarà evitata solo da coloro che possiedono doti e attributi per superare la dura cernita. Il ridimensionamento del numero dei parlamentari, peraltro, è un'opportunità per la politica nazionale (il paradosso è che proprio coloro che volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, l'hanno richiuso come un inaccessibile forziere): dato per acquisito che la fase che attraversiamo (ripresa e investimento storico -PNRR-) va salvaguardata, è evidente che se si crea un «Rassemblement» una confederazione di forze politiche che si richiamano all'azione politica di Draghi, il 2023 potrà diventare la legislatura del consolidamento di un nuovo corso politico inauguratosi il 13 febbraio 2021, giorno del giuramento del governo dell'ex-presidente della BCE. 

Sono convinto che anche Draghi sia consapevole di questa necessità e che non abbia consentito a una sua messa in terra per i turbamenti e gli sconquassi che provocherebbe nel governo e nella sua stabilità. Ciò non toglie che un'area che in autonomia si richiama all'azione politica del premier c'è e ha notevoli possibilità di portare a casa un risultato importante e positivo. 

In essa, Forza Italia, ciò che oggi, potrà svolgere un ruolo cruciale. E sbaglia Matteo Salvini -per la solita inguaribile miopia- a cercare di attrarre il partito fondato da Berlusconi in un improbabile partito repubblicano pronto a competere con Giorgia Meloni per interpretare la destra alternativa. Sbaglia giacché il luogo nel quale si concluderanno i giochi nella prossima legislatura è il centro (ed è il centro che, in definitiva, ha vinto la battaglia per il Quirinale) e gli strumenti sono una legge elettorale proporzionale con sbarramento e un partito, il «rassemblement» interprete della linea politica vincente in Europa e in Italia, segnata dall'esperienza Draghi. 

Il consiglio federale di ieri e quelli prossimi venturi dovrebbero soprattutto segnare -a parte la questione di una leadership convincente ed in sintonia con la contemporaneità- l'ingresso della Lega nell'ampia area, una prateria, rappresentata dal centro conservatore e riformista, difensore dei fondamentali dell'economia a partire dall'equilibrio di bilancio, titolare di un disegno strategico adeguato a inserirci nel «main stream» del terzo millennio, protagonisti del nuovo corso europeo, caratterizzato sì dall'alleanza Macron-Draghi ma con Draghi elemento di raccordo con il cancelliere Olaf Scholz nella funzione di arbitratore delle prossime scelte dell'Unione. Una prospettiva, per la Lega, già delineata in modo convincente da Giancarlo Giorgetti, ministro efficiente e preparato (è Andrea Orlando l'ostacolo peggiore per la soluzione delle questioni critiche del dicastero dello sviluppo economico). 

Ed è probabile che anche Matteo Renzi, il parlamentare più dotato di fiuto politico, possa essere della partita se il «rassemblement» si realizzerà. 

Qualche parola sui 5Stelle: con le zucche non si cucina una catalana. Per una catalana ci vogliono le aragoste. Ormai, s'è capito che Giuseppe Conte è del tutto inadeguato per guidare i resti del movimento. E che Luigi Di Maio è cresciuto per indubbi meriti e qualità propri, essendo stato capace di mettere a frutto la preziosa esperienza che sta compiendo nei governi cui ha partecipato, soprattutto nel cruciale e formativo ministero degli esteri. Se c'è qualcuno che nel cosiddetto centro-sinistra potrà e dovrà avere un ruolo significativo questi è proprio l'ex-bibitaro del San Paolo di Napoli, asceso ai vertici dello Stato un po' per caso e molto per intelligenza e furbizia, doti che, accoppiate, possono determinare il successo nella vita. Dopo avere imparato un decentissimo inglese, sta mettendo a posto congiuntivi e sintassi, a dimostrazione che il giovanotto possiede doti che non mostrò quand'era studente. 

Non c'è da avere timore per la penultima raffica rappresentata dall'ondivago Di Battista e dagli estremisti del nulla. 

Il Paese è cambiato per la pandemia e perché è entrato in una nuova fase storico-economica. È in essa che si gioca la prima sfida del nuovo millennio e per giocarla ci vuole gente preparata e determinata. 

Un altro aspetto di svolta è rappresentato dall'elezione di Giuliano Amato alla presidenza della Corte costituzionale. Ho avuto rapporti quotidiani di lavoro con lui quand'era sottosegretario alla presidenza (Craxi primo ministro) e reco con me un ricordo indelebile delle sue qualità professionali e politiche, quelle che messe a fattor comune nel governo determinarono il successo del governo nel suo complesso. Bruno Visentini, repubblicano, ministro delle finanze, personalità non facile, non faceva -come peraltro tanti altri ministri- un passo se non ‘sentivà Giuliano, come lo chiamavano amichevolmente coloro che lavoravano con lui.  

La sua strada da presidente della Corte non sarà una strada giustizialista o garantista. Sarà l'unica strada che la Costituzione offre alla Corte costituzionale e alle altre corti di giustizia: quella dell'equilibrio e dell'effettività delle norme, spesso sbandierate come vessilli o labari quando non sono altro che regole di comportamento per i cittadini e la società. Avendo sempre presente che il compito del giudice non è quello di «fare giustizia», ma di applicare la legge secondo «onestà e giustizia» e il compito della Corte costituzionale è soprattutto quello di valutare la coerenza della legge con le norme basilari iscritte, appunto, nella Costituzione. E le prese di posizione di alti magistrati, anche in occasione dell'ultima inaugurazione dell'anno giudiziario (un rito trito e ritrito nel quale affiorano impropriamente le questioni di corporazione) a proposito dell'ergastolo ostativo (condannato dalla Corte presieduta da Marta Cartabia) sono qui, fresche di stampa a mostrare come il libretto rosso contenente la Costituzione sia spesso agitato da persone che la Costituzione sostanzialmente non amano. 

La legge non è un'arma utile per minacciare un avversario o per promuovere un minaccioso e furbo magistrato. La legge, appunto, è lo strumento principe della civile, democratica convivenza.

Il bis

Mauro Del Bue 29 Gennaio 2022 L'EDITORIALE 

Non poteva che finire come nel 2013. Il Parlamento non é in grado di eleggere un nuovo presidente della Repubblica e prega quello vecchio di rimanere. Almeno per un pò. Le proposte più bizzarre sulle quali si era cercato il consenso sono tramontate, compreso l'ultima, la più inquietante, che prevedeva, con l'accordo preventivo tra Salvini e Conte, l'elezione del capo dei Servizi segreti Elisabetta Belloni. 

Non siamo un paese sudamericano in cui può succedere di tutto. Ma, a parte l'alta considerazione che la Belloni merita, hanno fatto bene i nostri Nencini e Maraio a rigettare la proposta ancora prima che venisse formulata. E ha fatto bene Matteo Renzi a contrastarla efficacemente per primo. In molti escono sconfitti da questa penosa e asfissiante querelle. Che non è stata tale per il numero di votazioni richieste, molte di più ne sono servite a eleggere nel 1992 Scalfaro e ancora di più per eleggere Leone nel 1971. L'immagine che ne esce profondamente logorata è quella di una classe politica che meriterebbe di stare tutta dietro la lavagna con poche eccezioni. Di fronte a noi sta lo sfascio del bipolarismo imposto da leggi elettorali che non solo non hanno saputo diminuire la frantumazione politica, ma l'hanno vieppiù favorita e incrementata. Oggi nel Parlamento della Repubblica italiana convivono ben 15 gruppi parlamentari contro i sei, sette della cosiddetta Prima Repubblica. Escono sconfitti Salvini e la Meloni, che avevano l'ambizione, che si scontrava con l'aritmetica, di eleggere un presidente di centro-destra e hanno finito per umiliare la seconda carica dello stato. E per rompere (vediamo se sarà definitiva la rottura) con Forza Italia che ha rivendicato un ruolo autonomo. Esce sconfitto il centro che aveva scommesso su Casini e sulla possibilità di fungere da mediatore tra i due poli. Esce sconfitta la sinistra che non ha mai proposto un candidato, se non il signor Sediamoci, come ha rilevato beffardamente l'onorevole Fratoianni. Ed escono sepolti i Cinque stelle, che si sono rivelati un gruppo inaffidabile che prima sottoscrive un patto d'unità d'azione con Pd e Leu e poi lancia una candidata con Salvini. Caro Enrico, non c'è da star sereni quando si tratta con Conte. Speriamo che il Pd impari la lezione. Adesso siamo pronti a celebrare il bis. Che sarà, forse, breve. Per permettere a Mario Draghi di ultimare i lavori del suo governo e poter succedere a Mattarella tra un anno e mezzo. A meno che non ci siano nuovi colpi di scena, in un'anteprima del Festival piuttosto desolante.

Il post presidente

Mauro Del Bue 31 Gennaio 2022 L'EDITORIALE 

Tutto é bene quel che finisce bene? Neanche per sogno. Il finir bene è stato il prodotto del male che é stato seminato nei giorni della spasmodica ricerca di un presidente. 

È stato determinato dall'alzata di mani collettiva, da un'impotenza gravissima dell'insieme della classe politica italiana. Una resa del Parlamento che ha partorito la supplica a Mattarella. Bisogna trarne immediate conseguenze fotografando la realtà. Il bipolarismo si é spezzato violentemente. A destra, con Forza Italia resasi autonoma (già al momento della votazione sulla Casellati) da Salvini e dalla Meloni. Gli ultimi due resisi autonomi tra loro, dopo la decisione del primo di votare Mattarella. Ma anche a sinistra. Si è cominciato col blindare un patto a tre, col commento dettato e ridotto a uno. Poi Conte si è sfilato e con Salvini e Meloni ha battezzato la Belloni, mentre Letta dava l'impressione di gradire. Ci son volute le dichiarazioni di Renzi, anticipate da quelle di Nencini, e poi di Leu, per fargli cambiare idea. Evidente che il bipolarismo sia oggi un'illusione e che ciascuna forza politica deve correre da sola e non fingere di essere legata da un vincolo di coalizione per romperlo il giorno dopo. D'altronde che in questa legislatura i vincoli elettorali siano stati logorati è testimoniato prima dalla maggioranza gialloverde con i Cinque stelle che se n'erano dette di cotte di crude in campagna elettorale, e poi dal governo giallorosso con Pd e i grillini che s'erano combattuti all'arma bianca, per finire al governo di quasi tutti che nessuno aveva prospettato all'elettorato. Oltretutto ci mancava il balletto degli gnomi in occasione dell'elezione del presidente della Repubblica. Se fossimo seri e conseguenti, ma ne dubito, procederemmo con una legge proporzionale per eleggere un Parlamento costituente nel 2023, confermando un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi, con il compito di varare una grande riforma istituzionale e costituzionale che finalmente parta dalla scelta sulla forma di stato. Nel lontano 1979 ci fu un leader politico che lo propose, ricordate? 

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