Diciamolo francamente, le baruffe ingaggiate dall’apparente motivazione dell’intitolazione costituiscono, al di là della sponda su cui ci si colloca, uno dei casi più lapalissiani di uso strumentale della memoria.
Da una parte, per chi inclina a far trarre vantaggio alle posizioni politiche professate e, dall’altra, per chi vi si oppone per le ragioni esattamente opposte. Diciamo subito che non intendiamo in nessun caso partecipare a questa poco appassionante tenzone. E ne esplicitiamo nel prosieguo le ragioni.
Ci pare doveroso fornire una sintesi del profilo biografico e professionale di quell’Oriana Fallaci, che una polemica ad usum delphini (dai toni francamente intollerabili) ha dato in pasto a finalità sgangherate.
Impegnata per tradizione famigliare nella Giustizia e Libertà espressione del socialismo liberale dei fratelli Rosselli, la protagonista della vexata quaestio partecipa giovanissima alla Resistenza.
Approda, al termine del secondo conflitto mondiale, alla professione giornalistica; percorrendo tutte le tappe di una prestigiosa carriera, in cui non ha lasciato inesplorato alcun settore (cronaca, corrispondenza di guerra, inviata sui nuovi stili di vita e di mondanità, intervistatrice di personaggi mondiali).
Nel corso degli anni intervista: re Husayn di Giordania, Võ Nguyên Giáp, Pietro Nenni, Giulio Andreotti, Giorgio Amendola, l'arcivescovo Makarios, il citato Alekos Panagulis, Nguyá»ÂÂÂÂÂÂ?n Cao Kỳ, Yasser Arafat, Mohammad Reza Pahlavi, Hailé Selassié, Henry Kissinger, Walter Cronkite, Federico Fellini, Indira Gandhi, Golda Meir, Nguyá»ÂÂÂÂÂÂ?n VÄÂÂÂÂÂÂ?n Thiá»ÂÂÂÂÂÂ?u, Zulfiqar Ali Bhutto, Deng Xiaoping, Willy Brandt, Sean Connery, Mùammar Gheddafi e l'ayatollah Khomeini.
Non si nega al giornalismo di inchiesta e di denuncia; come nel caso della misteriosa morte di Pierpaolo Pasolini, di cui intuisce (ed inutilmente denuncia) il movente politico.
È anche inviata nei teatri del golpismo. Come nel caso della giunta militare greca. Nel 1973, ad Atene conosce Alexandros Panagulis, ne condivide la testimonianza antifascista e ne diventa compagna di vita fino alla morte di lui, avvenuta a seguito di un misterioso incidente stradale il 1º maggio 1976.
Scrive dodici libri, di cui sono state vendute 22 milioni di copie.
Nell’ultimo periodo si trasferisce ed opera stabilmente a New York; fino alla prematura scomparsa. Tale fase è significativamente contraddistinta dall’analisi e dall’approfondimento dei nuovi scenari mondiali, fortemente focalizzati dalla questione islamica.
Una questione vista da vicino, dall’osservazione diretta come inviata di guerra nel Golfo Persico ed in Afganistan; come suggerirebbe la constatazione di quanto sta accadendo.
Riportiamo molto succintamente alcuni passi di scritti di vent’anni fa, dal, secondo noi, valore profetico:
"Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione.
Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri".
La sua produzione giornalistica e letteraria, universalmente (anche dalla sinistra quando testimoniava l’antifascismo e veniva percepita come intellettuale engagée) apprezzata a livello mondiale, non fu mai conformista. E, come tale, ebbe, per i suoi contenuti, estimatori e critici. La seconda categoria si sarebbe infoltita, da quando comincerà ad occuparsi di islamismo e di antagonismo no global.
Anche per carattere un po’ spigoloso, non assunse mai la posa dell’intellettuale ecumenico e piacione.
Nella scelta di essere tumulata nel cimitero degli Allori, di rito evangelico, ma accogliente anche atei, musulmani ed ebrei, è incontrovertibilmente insito uno spirito fortemente ispirato da tolleranza.
Vero è che la Fallaci, la cui testimonianza si è sempre mantenuta ad altissimi livelli ed in piena luce, ha finito per diventare il bersaglio di un vasto bacino di antipatizzanti, quando non proprio di ostilità, giurate ed irricomponibili.
Il valore profetico delle sue analisi, sviluppate da punti di osservazione difficilmente confutabili, si è potuto verificare, vieppiù la progressione della scena mondiale è andata focalizzandone la puntuale concretezza e rispondenza.
Anche non volendola condividere od amare, la Fallaci ha testimoniato in largo anticipo snodi storici che sono all’evidenza.
Ma, siccome non c’è peggior interlocutore del portatore di pregiudizi, la celebre scrittrice continua a catalizzare su di sé (specie da quando il suo pensiero ha trovato clamorosi riscontri) un ostracismo esteso e tenace. Parimenti dietro il suo pensiero si sono incolonnati inaspettati laudatores, interessati a tirarle la giacca per finalità strumentali (quasi mai giustificate ed incompatibili con le sue radici culturali ed etiche).
Nelle prime file dei contraddittori si colloca quella “sinistra morale”, il cui perno è fortemente conficcato nell’indefettibile sicumera dell’Occidente sempre colpevole. Che ha come corollario, i dogmi dell’accoglienza di rifugiati e migranti (senza distinzione) e del multiculturalismo/integrazione,
Per farla breve, la Fallaci è assurta sempre più a simbolo del pensiero di tutti coloro che ritengono l’Islam incompatibile, non solo con la cultura cristiana, ma in particolare con una società liberaldemocratica e che postulano l’irrinunciabilità dei cardini civili occidentali. Per ragioni di chiarezza, eorum ego! Ed il nostro apprezzato consigliere comunale socialista, avv. Paolo Carletti, che nei giorni scorsi ebbe a dichiarare: “Credo con ragionevole certezza che Oriana Fallaci sarebbe inorridita di fronte all’uso strumentale e propagandistico che si sta facendo del suo nome. Rivoluzionaria, Partigiana, libertaria e coraggiosa fuori misura. Oriana era lontana anni luce dagli stilemi della destra reazionaria che la porta oggi sul palmo della mano”.
Sempre sullo stesso timbro si esprime, con un articolo su Italia Oggi il cui testo integrale alleghiamo, Domenico Cacopardo, già presidente di Sezione del Consiglio di Stato, scrittore ed editorialista per prestigiose testate.
Per converso, è diventata, suo malgrado, un simbolo riprovevole per tutti coloro che mentalmente costituiscono l’asse portante dell’inclinazione a quella che Michel Houellebecq ha definito soumission.
Già, la sinistra morale, storicamente portata ad una rappresentazione sempre in negativo di quei cardini, le gerarchie ecclesiali portate ad affrontare la perdita di appeal dei nuovi scenari mondiali anche attraverso il dumping religioso, il ventre molle ed amorfo di fasce di opinione facilmente influenzabili da narrazioni pervase da falso umanitarismo.
Rebus sic stantibus, il suo alto profilo, poco consono alle categorie interpretative di portatori di basso provincialismo, costituisce, a prescindere dall’appartenenza ad uno degli opposti fronti, controindicazione ad esiti fecondi a confronti dialettici del tipo di quello in corso.
Che, lo si deduce dal rilievo vistosamente in negativo dei rimandi della stampa nazionale, arricchisce il palmares del livello civile e culturale di Cremona.
La Commissione toponomastica, reinsediata recentemente (a seguito della prevedibile rottamazione in corso nell’organigramma del “cerchio magico” sindacale, avrebbe potuto limitarsi a constatare un’improcedibilità per mancanza di requisiti (non sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa) ed incardinare, a futura memoria, una linea-guida super-partes (suscettibile di ridimensionare le velleità strumentali) insita nelle memorie di uno dei massimi esperti di toponomastica cremonese. Quel prof. Gianfranco Taglietti, opportunamente richiamato dall’ultima edizione del settimanale Mondo Padano a firma di Fabrizio Loffi, che, avendo svolto la sua funzione di esperto in contesti meno rissosi, ebbe a ricordare “A proposito di nomi illustri, la nostra Commissione di toponomastica si attiene al criterio di escludere i nomi di grandissimi che non abbiano avuto rapporti con la nostra città. “
In tal modo si ridurrebbe l’area delle potenziali controversie indotte da impulsi non esattamente sereni, buttando così la palla nel campo delle personalità autoctone. E qui è il caso di fare solo telegrafica menzione all’intitolazione di una via alla memoria del maggior cantante lirico Aldo Protti, finito, con strascichi giudiziari per i competitors della querelle, in un tritacarne che non fa certamente onore a Cremona.
Insomma, da qualche anno, la toponomastica inclina a consolidarsi come toponomo-machia; vale a dire ad una battaglia permanente su qualsiasi proposta venga avanzata per rendere evidente nel nome delle civiche vie la testimonianza di cittadini illustri.
Fortunatamente (si fa ovviamente per dire!) lo sviluppo urbanistico da tempo si è arrestato. Non nascono nuovi quartieri e non ci sono nuove vie da intitolare.
Ma, anche ciò non costituisce efficace deterrente alla toponomastica ipertrofica e strumentale; in quanto i fautori della guerriglia, appunto, toponomastica si accontentano di piazzette, cortili, anfratti, purché intitolabili ai propri eroi (ed invisi alla parte avversa).
Ai tempi dei grandi Sindaci (non ne citiamo neppure uno, perché l’individuazione è implicita) tutto ciò non accadeva.
Ma ad un certo punto la natalità di grandi sindaci ha dato forfait. Il convento passa quel che c’é. E quel che passa il convento non è certamente qualificabile come di prima scelta. A cominciare dal possesso di un requisito fondamentale per chi è investito di funzioni di governo comunale: la consapevolezza permanente, al di là delle appartenenze politiche, di rappresentare il senso di condivisione e di identificazione nelle linee-guida civili.
Ma, come è accaduto, se un assessore si impalca a giudice sulla “divisività”, allora non resta altro che certificarne la profonda inadeguatezza rispetto alla capacità di interpretare un ruolo super partes.
D’altro lato, l’assessore è in ottima compagnia, visto che la commissione unanime (tranne il rappresentante di una delle opposizioni), ha certificato l’ostracismo alla proposta (di cui, volendo essere sinceri fino alla brutalità, non se ne avvertiva, anche visti gli sviluppi, la mancanza). Unanime, s’intende, sul giudizio di divisività a carico del profilo della “candidata”.
D’altro lato, uno degli “esperti” ha ritenuto opportuno precisare “La Fallaci è la donna dello scontro di civiltà”. Detto esperto si era, in un recente passato, distinto, in veste istituzionale, per un ostracistico outing contro “il modernismo illuministico”. Ed è ormai evidente che per gli spiriti laici ed illuministici con questa giunta di catto-comunisti non c’è trippa.
Per chiudere il nostro punto di vista in materia, non ci resta che un doppio suggerimento.
Il primo è un invito rivolto ad Edoardo Perazzi, nipote di Oriana, ad assumere iniziativa di formale diffida verso usi strumentali della figura della zia (cui la Regione Lombardia ha recentemente dedicato una sala del Pirellone).
Perazzi, nell’occasione, aveva dichiarato “Ci ha insegnato ad amare la vita e la verità”.
Caro Perazzi, gli sgangherati accadimenti cremonesi (per la cronaca, la “cerimonia” di apposizione della targa da parte di tre volonterosi ha, tra l’altro, occasionato la replica, per “ragioni di sicurezza”, di un imponente spiegamento di agenti) insegnano che qui si ama la (bella) vita, ma non la verità.
Il secondo suggerimento mette a fuoco, non emergendo in materia alcun presupposto di reviviscenza civile, una contromisura pratica, decisamente non partisan: affidarci alla toponomastica politically correct della metropoli newyorkese. Dove l’identificazione stradaria viene effettuata sulla base della numerazione di Avenue (verticali e contate da destra verso sinistra) e Street (orizzontali e contate dal basso verso l’alto).
Un metodo facile e, soprattutto, poco suscettibile di prestarsi alla strumentalizzazione politica!
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PS: Dimenticavamo di annotare che, nell’annuncio dell’assessore alla partita, pare emergere la volontà di un’estensione degli impulsi censori anche alla toponomastica della Bianca Città oltre i binari ferroviari (come Zanoni definiva liricamente il Civico Cimitero).
La Commissione Comunale si occuperà anche del Viale degli Artisti.
Volendo potrebbe occuparsi dello stato di abbandono, che viene ripetutamente (ed inutilmente) lamentato dalla cittadinanza.
Ma, restando al Viale degli Artisti, pare che il Comune si sia accorto che di questo passo (bulimico) il prestigioso viale (una sorta di Pantheon delle arti cremonesi) dovrà essere prolungato ben oltre gli attuali perimetri cimiteriali.
Insomma, siamo di fronte ad una lista d’attesa incongruente alle effettive possibilità di dare risalto ed onore agli artisti cremonesi del passato. Ed incongruente, diciamolo pure, ad una doverosa selezione delle candidature su basi obiettive. Secondo noi, la rivendicazione del titolo di appartenenza alle onoranze artistiche non può prescindere da curricula che evidenzino l’impegno esclusivo nell’attività artistica.
Non basta (e non ci riferiamo a nessun caso specifico) aver composto qualche lirica, dipinto qualche tela, suonato qualche strumento (avendo avuto attività professionali di tutt’altro tipo) per rivendicare un onore di appartenenza. Che, per come è avvenuto fin qui, avrà riscaldato i cuori e gonfiato di orgoglio il petto di famigliari ed estimatori, declassa inevitabilmente le vere testimonianza artistiche.
L’Assessora dice che se ne occuperà. Nel frattempo, pare, abbia decretato una moratoria. Brava! Resta solo da sperare che il prosieguo non replichi il timbro ostracistico fatto emergere dalla più vasta questione toponomastica.
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