Volendo completare l’eccesso di libagioni hanno scelto l’anfiteatro del parco al Po (ex area Frazzi) su cui sorge l’Arena Giardino e, con la complicità della notte e l’isolamento del sito, hanno devastato il devastabile. Vale a dire lo schermo per le proiezioni cinematografiche. Non c’era molto altro. Ad eccezione dei gradoni in cemento.
Ma si sono inopinatamente arresi. Mai disperare: avrebbero avuto sicuramente successo se li avessero presi a testate.
In tal caso l’ironia soccorre lo sconcerto provocato nell’animo e nelle consapevolezze di fronte ad un episodio (uno dei tanti che si ripetono ogni giorno che il buondio manda sulla terra) di ordinario vandalismo, cui ci si sta assuefacendo. Ordinario, perché, appunto, ripetitivo ed inesauribile. E gratuito, perché privo di qualsiasi giustificabile motivazione che non sia la devastazione e la violenza, sulle cose e sulle persone.
Se His Majesty the Mayor (or the Assessor) si fosse degnato, così doverosamente ottemperando ad un elementare adempimento di carica istituzionale e di galateo (per di più avvertito in un’offerta contraddistinta da un profluvio di impulsi alla trasparenza, al rapporto diretto, alla rigenerazione, venuto francamente a noia sia per l’inadempienza sul piano pratico, con le debite eccezioni per il cerchio magico, sia per la manifesta e gratuita insincerità) di cogliere il trasparentissimo invito, implicito nella mite denuncia di Giorgio Brugnoli, di Gigi Manfredini e della stampa locale, ne avrebbe tratto utili insegnamenti.
Ma, senza darne spiegazione, il vertice comunale (ad eccezione dell’unico consigliere partecipante, il leghista Fanti) ha negativamente risolto il morettiano dilemma: non ci vado? Vado, ma resto in disparte?
Che questa giunta sia ab ovo in disparte rispetto alla realtà del cumulo di problemi e criticità di Cremona è un fatto incontrovertibile. Quindi anche se qualcuno del Palazzo fosse venuto…
Ma, tanto per essere chiari, il Palazzo non c’è proprio venuto. Limitandosi ad assicurare la partecipazione al rammarico ed allo sgomento.
Peccato, perché gli amici di Brugnoli e, latu senso, della decima musa, raccoltisi nello spiazzo antistante l’ingresso dell’Arena (interdetto, sic!, per motivi di sicurezza), non erano uno sparuto gruppetto di patetici nostalgici. Bensì un centinaio di persone, che, unitamente alla solidarietà al gestore di eventi cinematografici ed artistici in senso generale, hanno sviluppato, con larga e sentita partecipazione, ragionamenti di (aspettata) qualità e di utilità per un interlocutore istituzionale che volesse ascoltare.
Ragionamenti di valenza pluridisciplinare, dovremmo aggiungere.
Perché, partendo dal focus della devastazione operata su una struttura appartenente al Comune, ma di fatto dal medesimo ridotta al rango di res relicta o di res nullius (ad eccezione della categoria di malintenzionati, ormai assurta a classe dirigente dei destini della comunità) l’analisi sviluppata avrebbe potuta essere feconda. Soprattutto, per una nomenklatura dalle performances disastrose e dall’incorreggibile autoreferenzialità, che ha come unico rimando i fasti, si fa per dire, del decennio centrale di questo ultimo quarto di secolo.
Il centinaio di testimoni che si sono spontaneamente raccolti all’Arena era prevalentemente composto da semplici cittadini, da ex amministratori comunali (dell’epoca del recupero delle ex Fornaci Frassi), da espressioni della cultura popolare (Morandi e Micio della Lega di Piadena), organizzatori teatrali, insegnanti, esperti giornalisti come Antonio Leoni. Si potrebbe tentare una definizione strictu senso di popolo dei cinefili. Che ha, tra l’altro, particolarmente apprezzato la testimonianza, silenziosa ma significativa, dell’attore cremonese Dario Cantarelli.
Indubbiamente erano lì per professare la loro predilezione per lo spettacolo cinematografico nella versione comunitaria. Ma fermarci qui, sarebbe fortemente riduttivo. Perché la dozzina degli intervenuti ha sviluppato un’analisi molto più vasta che, in negativo ed in positivo, è servita a rendere manifesto lo stato dell’arte di Cremona.
Tanta insicurezza, riverberata nell’istinto a rinserrarsi nel privato (a sua volta minacciato dalla violenza a domicilio); tanto degrado per l’incuria (dei cittadini e, soprattutto, della civica amministrazione); tantissima rinuncia alle opportunità di crescita civile e culturale indotte dagli eventi comunitari.
Adesso, ci rivolgiamo al Sindaco. Qui, da dove abbiamo preso gli spunti per scrivere, sorgeva, un secolo fa, uno degli opifici più (nel bene e nel male) significativi della tardiva rivoluzione industriale cremonese. Insieme ad altri del comparto, insediati per l’abbondanza di materia prima e di manovalanza a buon prezzo, dava lavoro, sottopagato, pericoloso, faticante, a centinaia di operai, al limite della schiavitù.
Quando, come in tutte le favole più brutte che belle, il ciclo industriale correlato finì, si presentò il conto del taglio dell’occupazione, da un lato, e, dall’altro, il tentativo di mettere lucrosamente le mani su un promettente comprensorio urbanistico.
Le giunte in carica, animate da sano spirito pragmatico e permeate da una decisa cultura riformista, adottarono un modulo realistico; che consentì una riconversione del suolo ed, ad un tempo, una sua finalizzazione in senso comunitario.
A distanza di tempo, pur non potendosi dire che il risultato, anche per i morsi della crisi, non ha fatto sfracelli, si può dire che la formula si dimostrò equilibrata e feconda.
A rendere tale giudizio complessivo concorse anche la parte sociale del progetto. Rappresentata dallo sforzo di inquadramento di quel volume urbanistico nel contesto cittadino e nel rapporto di un quartiere, che, quarant’anni fa, si stava significativamente dilatando.
Da qui, la compensazione, rappresentata dal recupero dei volumi prettamente industriali come testimonianza di archeologia, appunto, industriale e come opportunità di vita comunitaria.
So bene che anche a quei tempi il dibattito era fortemente influenzato dalla suggestione di un utilitaristico spianiamo tutto e via all’edilizia creativa.
Ma la giunta di sinistra si comportò diversamente; approdando, come appena considerato, ad una soluzione capace di contemperare impulsi utilitaristici e superiori interessi collettivi.
Tra cui, appunto, il parco e l’Arena Giardino; che avrebbero dovuto costituire un polmone di fruizione plurima: ambiente, tempo libero, sviluppo culturale.
So per certo che arriveranno critiche dagli ambienti propensi a fare dell’attività culturale un’occasione di spending deficit. Ma avendolo detto e scritto, trent’anni fa, quando a parlar male di Recitarcantando arrischiavi l’interdetto, lo ribadisco qui. Oggi viene forzosamente tagliata la spesa pubblica. Ma quella valanga di finanziamenti a pioggia di tutti gli eventi che confluivano genericamente nella logica della crescita culturale e specificatamente del sostegno all’effimero, non doveva neppure iniziare.
Certo che molti rimpiangono quei fasti che riempivano le piazze. Ma que reste-t-il di quell’epopea che ha inoculato l’abitudine del panem et circenses?
Ne ha fatto le spese anche la, per alcuni versi incolpevole, attività dell’Arena Giardino; cui, soprattutto, per un pregiudizio politico, quattro anni fa furono sgonfiate le gomme.
Nel frattempo, per contro-ritorsione, la giunta successiva ha raso al suolo altre rassegne. E, sempre nel frattempo, l’opera demolitrice dello spianamento dei presidi della vita civile e culturale è andata avanti.
Indubbiamente, il Comune vive allo stecchetto; nella consapevolezza che i tempi in cui colava il grasso di una spesa pubblica incontrollata non torneranno più.
Meglio farsene una ragione.
Una sinistra che se la fa è meritevole sul piano dell’accredito di una fondamentale consapevolezza.
Già, ma come tagliare? Non è qui il sito conveniente per una siffatta analisi.
Si dovrebbe cominciare dal voluttuario. Ma qui casca l’asino. Perché in tale categoria viene d’ufficio e subito iscritta la spesa attinente al sapere. Vale a dire, volendo dimostrare di non guardare in faccia a nessuno, si sega il ramo su cui siede la prospettiva, specie in fasi critiche, di mantenere alto lo standard civile di una comunità.
Ma, passando allo step successivo ed accettando l’ineluttabilità del taglio alla spesa culturale, si può accettare che il 90% o giù di lì venga assorbito dal mantenimento del teatro-gioiello di Cremona?
Un teatro che vive fuori dal tempo, che si permette una sovraintendenza trentennale, che municipalizza il servizio ristoro, che mette in campo un organico fuori dal buon senso.
Ne fanno le spese, ça va sans dire, le altre muse!
Quindi non si trovano i danari per cofinanziare le rassegne (specialmente quelle estive, molto apprezzate); come non si trovano neanche le poche e miserabili migliaia di euro per mantenere e proteggere (dal tempo e dai vandalismi) le strutture comunali.
Con la conseguenza che, oltre a non rendere possibili le rassegne collaudate ed apprezzate, non permetterà in futuro neanche le proiezioni cinematografiche. Un settore questo in forte ipossia, indotta dai cambiamenti delle tecnologie e dagli stili di vita oltre che ovviamente dalla drastica caduta del potere di acquisto delle masse.
Se le residue attività non hanno ancora consegnato le chiavi è perché esistono ancora a Cremona campioni della testimonianza civile, appassionati più dalla consapevolezza di essere utili alla città che a far tornare i conti.
Tra questi pochi, due Giorgio: Brugnoli e Mantovani. Del primo si sa tutto. Del secondo aggiungiamo che, nella sua difficile e rischiosa impresa di mantenere in vita la Società Filodrammatica, ha badato prima di tutto a salvarne l’attività cinematografica.
Anche grazie, diciamolo onestamente, al Comune ed alla convenzione/partnership che, con pochi soldi pubblici, consente di tenere aperta l’unica sala presente nel centro storico.
Senza di essa la vivibilità di Cremona sarebbe fortemente compromessa. Alla tendenza a ritirarsi nel privato, nelle fasce festive e serali, si aggiungerebbe la conseguenza di consegnare definitivamente il controllo ai protagonisti neri ed inquietanti tanto della malavita come degli stili sopra le righe.
È questa, Signor Sindaco, Signor Assessore alla Sicurezza, Signor Assessore alla Trasparenza, la Cremona che volete ricavare dalla vostra “rigenerazione”?
Stavolta, come si dice a Roma, avete fatto sega, marinando ingiustificatamente.
Ma l’aggregato degli inputs posti dalla vicenda e dai tanti interrogativi adiacenti, costituirà nel tempo qualcosa di più della nuvola di Fantozzi.
Cremona non è, civilmente e culturalmente, il paesino siciliano Giancaldo; dove una ridotta di inguaribili cinefili assistette mestamente alla demolizione del Nuovo Cinema Paradiso. Almeno osiamo crederlo. A patto che, in aggiunta alle fondate critiche rivolte alle disattenzioni ed inerzie dei pubblici poteri, si concretizzino, come hanno segnalato alcuni spunti del dibattito, indispensabili consapevolezze. Il Comune deve agire; ma è finita la stagione della bulimia del tutto gratis.
Chi ama il cinema, gli eventi artistici, le occasioni di vita comunitari, tragga le conseguenze (magari appendendo al chiodo le pantofole di ordinanza corollario dell’utenza televisiva e, se ama il cinema, si rechi nelle strutture deputate a dispensarlo nelle condizioni ottimali).
Alcuni anni fa, a Mantova stava chiudendo l’ultima sala cinematografica a base dopolavoristica. Il pericolo fu scongiurato dalla costituzione degli appassionati in associazione di utenti. Che come primo atto posero mano al portafoglio ed attivarono quell’autofinanziamento pre-condizione per il salvataggio.
E.V.