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L'EcoRassegna della stampa correlata - "Perché ci siamo ridotti a questo"

Di Domenico Cacopardo

  22/07/2022

Di Redazione

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Ricordiamo ai nostri lettori che, contestualmente alla cronaca e alla divulgazione dei contenuti del Congresso Nazionale del PSI, conclusi una settimana a Roma, la nostra testata ha incardinato un ampio spazio di approfondimento e di confronto, aperto a tutte le sensibilità politiche ed in particolare alla comunità socialista. 

L'assemblea congressuale, nei confronti della quale ha operato se non proprio una congiura del silenzio sicuramente una pesante marginalizzazione nell'esercizio del dovere di cronaca nei confronti del più antico partito (munito, sia pure a ranghi ridottissimi, di rappresentanza parlamentare), è venuta, temporalmente, a sovrapporsi al cambio di fase, non inaspettato ma repentino, nella vita istituzionale. Che, come noto, condurrà alla chiamata anticipata alle urne. 

Gioverà molto all'interpretazione sia del prodotto congressuale sia delle prospettive che stanno di fronte alle scelte dei protagonisti della politica, considerare come linea guida il significativo, recente editoriale di Domenico Cacopardo; che fornisce un utile, forse indispensabile rimando agli snodi delle vicende politiche italiane dell'ultimo quarto di secolo. Senza del quale la percezione delle ultime battute della vicenda politica italiana appare problematica.  

Perché ci siamo ridotti a questo

di Domenico Cacopardo

La rabbia è un dato strutturale in ogni paese democratico e la democrazia stessa dovrebbe costituirne l'antidoto, anzi il metodo per ricondurre la rabbia a fattore di stimolo verso decisioni corrette. Non necessariamente rivolte in modo specifico verso i ceti nei quali si annida la rabbia, ma di certo rivolte a conferire alle comunità la sensazione che lo Stato stia facendo di tutto per conferire ai cittadini prospettive di miglioramento. Non promesse, ma credibili attese. 

La rabbia venne evocata in Italia nel 1992 da un gruppo di magistrati che la utilizzarono per offrire alla pubblica opinione alcuni capri espiatori. Insomma, la rabbia serpeggiava nel paese e nei ceti borghesi: i magistrati dettero loro una risposta giudiziaria. La politica latitò: ricordo a me stesso che Giorgio Napolitano, presidente della Camera dei deputati consentì alla Guardia di finanza, incaricata dal pool Mani pulite, di accedere agli uffici parlamentari per prendere visione dei documenti (peraltro pubblici, anzi pubblicati anno dopo anno) sul finanziamento dei partiti. Nella sostanza una inammissibile rinuncia alle tutele di cui la politica è fisiologicamente destinataria, a garanzia della libertà e al contempo un intollerabile abuso della funzione giudiziaria che esondò oltre i suoi limiti costituzionali. 

La questione, peraltro, era un'altra. Dopo la caduta del Muro di Berlino, il 9 settembre 1989, il Pci, diretto da Achille Occhetto, diede luogo alla svolta della Bolognina (12 novembre 1989) nella quale il partito rinnegò parzialmente il proprio passato procedendo sulla strada della trasformazione in Partito democratico della sinistra (3 febbraio 1991). Poco dopo, a Bari (27-30 giugno), il partito socialista, che aveva inserito nel proprio simbolo le parole «Unità socialista», celebrò un congresso che appariva a tutti gli italiani una sorta di «consesso della vittoria» del socialismo democratico sul comunismo totalitario, che aveva appena incassato -senza prenderne sino in fondo atto- il proprio fallimento. Bettino Craxi prospettò agli ex comunisti la costituzione di un unico partito socialdemocratico della sinistra italiana. Uno strumento che avrebbe rotto la democrazia consociativa cui l'Italia era assuefatta e determinato il passaggio a una democrazia competitiva di stampo europeo, nella quale la sinistra democratica, abbandonate le pulsioni del passato, avrebbe rappresentato una prospettiva riformista. A Bari, nel camper nel quale Craxi realizzava i colloqui riservati a margine del congresso, convennero Massimo D'Alema e Valter Veltroni, che sembravano disponibili ad accogliere l'appello socialista per iniziare un cammino comune. 

Non se ne fece nulla. Il lungo lavorio del partito nel mondo giudiziario, determinò la scelta preferenziale di Achille Occhetto, convinto dai suoi consiglieri che la battaglia politica, nella sinistra nazionale, sarebbe stata vinta per l'intervento delle magistrature. Si dimostrava così quanto per gli ex comunisti contasse l'ostilità nei confronti dei socialisti democratici, una riproposizione, quasi 70 anni dopo, della liquidazione dei menscevichi russi a opera dei bolscevichi. 

Si è trattato di un'occasione perduta. 

Ogni tentativo successivo di innestare nel corpaccione ex comunista la linfa del riformismo socialista, compresa la cosiddetta «Cosa 2» (l'iniziativa di Massimo D'Alema per accogliere -a parità di condizioni nel Partito democratico della sinistra elementi provenienti dal Psi) fallì e fallì non in modo clamoroso, ma nell'assorbimento giorno per giorno ddi singoli elementi che non misero in discussione l'unicum rappresentato dagli eredi del Pci. Un unicum, fondato su una rete di strutture economiche (la cooperazione, un universo che andava e va dalle cooperative di consumo alle banche) che assicuravano sì rifornimenti finanziari, ma soprattutto un'area di osmosi nella quale venivano occupati personaggi provenienti della politica o giovani in attesa di entrare in politica. Un insieme che mobilitava diversi milioni di famiglie, in sinallagma inscindibile con le strutture del partito. Questo mondo che Pierluigi Bersani definì non a caso la «ditta» è rimasto sempre ripiegato in se stesso, cooptando nel sistema la sinistra ex-democristiana, denominata anch'essa non a caso «sinistra economica». Un mondo incapace di seguire e interpretare le esigenze degli italiani, chiuso nella difesa del proprio fortino che, peraltro, andava indebolendosi. 

Volendo essere espliciti il Pds, poi Ds, poi, insieme agli ex Dc, Pd ha la responsabilità storica e politica dell'insorgere del populismo grillino, la prima esplosione di rabbia di una parte della cittadinanza (proletariato e sottoproletariato), proprio per la mancanza di risposte che solo una forza politica socialdemocratica avrebbe potuto assicurare. 

Una responsabilità, i cui connotati emergono anche dalla liquidazione di Matteo Renzi e della sua esperienza riformista, il richiamo della foresta dei ceti ex-comunisti nella lotta alla riforma costituzionale approvata dal Parlamento e di cui il Pd a trazione Renzi aveva ottenuta l'approvazione. Una responsabilità che si trova anche nelle modalità di lotta nei confronti della destra berlusconiana: un partito contro un uomo e contro il suo partito senza alcuna capacità di essere realmente alternativo. Il fallimento della candidatura di Francesco Rutelli -il migliore esponente della Margherita, molto migliore di gran parte dei gerarchi ex comunisti- non è il segno del suo fallimento, ma il segno del fallimento della legislatura 1996-2001, nata sotto la cattiva stella di una conduzione molto di parte del Quirinale di Scalfaro, regista improprio della lotta antiberlusconiana, nella quale nessuna svolta politica reale s'era concretizzata mentre s'erano consolidate alcune storture destinate a lasciare il segno, prima fra tutte le modalità di adesione all'euro. 

Alla rabbia degli italiani, Craxi nel 1984, aveva cercato e trovato una risposta nel taglio della scala mobile, definita dopo una lunga trattativa col sindacato riformista di Benvenuto, Carniti e Lama (poi smentito da Berlinguer). 

Mario Monti fu chiamato a correggere errori e dissipazioni non soltanto berlusconiani, ma altresì dei governi della sinistra, incapaci di realizzare alcuna svolta riformista. Ricordo che il governo D'Alema 2 cadde sì sulla sconfitta nelle elezioni regionali (che non comportavano di per sé una sfiducia nei confronti del governo, benché D'Alema le avesse caricate di un significato spiccatamente politico), ma soprattutto perché la stolida conduzione della Cgil da parte di Sergio Cofferati impedì la riforma del mercato del lavoro e delle pensioni, sulla quale il governo aveva tentato di introdurre elementi di modernità a lungo rinviati. Non capì, Cofferati, che una riforma fatta da un governo di sinistra-centro avrebbe avuto caratteri di maggiore praticabilità, per il sindacato, rispetto a qualsiasi altra riforma. 

Insomma, i successi e i disastri dei grillini vecchi e recenti hanno un cuore antico, ritrovabile nella mancata risposta da parte della sinistra democratica della domanda di equilibrato cambiamento che alimentava la rabbia dei ceti popolari soprattutto del Sud. 

La crisi di questi giorni è una crisi strutturale, che pretende risposte innovative e riformiste di cui non si vede l'ombra.

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