Una categoria antropica, questa, che si esprime con gesti rigorosamente anonimi e presumibilmente notturni, quasi sempre protesi a dar sfogo (ad eccezione di quel sopra le righe “Chicca ti erre o i a!” impresso davanti a casa) ai malumori popolari nei confronti del potere. Specie all'approssimarsi di qualche campagna elettorale. Nei giorni scorsi i siamo imbattuti in un murale, il cui autore ha voluto lasciare, in termini di interpretazioni, decisamente poco al caso. Sia pure per inciso, come si faccia a postulare l'incremento arboreo contestualmente al decremento boschivo costituisce, comunque, un enigma.
Tutto appare molto più chiaro, quando si accostano i cognomi immortalati dal graffito.
Avrebbero potuto gli àuguri deludere una così veemente perorazione rivolta agli dei? Ancor meno di loro avrebbe potuto esimersi il professor Alambicchi che, notoriamente, dispone della miracolosa “arcivernice”?
Fatto si è che i destini dei due personaggi, politici e mediatici, sino a qualche mese fa particolarmente in auge, si sono improvvisamente complicati. Causa un complesso di vicissitudini, politiche e non, confluite in una prestazione elettorale che non verrà iscritta nei loro migliori annali.
D'altro lato, le porte girevoli della politica, si sa, regolano il transito di chi va (con un comprensibile fardello di rincrescimenti) e di chi, assistito da sorte benigna, viene.
Già lo stesso Marchese del Grillo aveva osservato che il mondo è fatto a scale…con quel che segue.
Siccome siamo partiti da un graffito, continuiamo il ragionamento avvalendoci di una delle decine di download, images, video che quotidianamente ci vengono propinati da amici, da semplici conoscenti o, non infrequentemente, da illustri sconosciuti (nella cui mail list siamo finiti nostro malgrado).
Il cui consistente traffico, specie se associato alla presumibile quantità di tempo dedicato e di inventiva sollecitata, francamente ci stupisce.
Completiamo a tale preambolo facendo menzione della nostra idiosincrasia nei confronti del dilagante fenomeno di motteggio, in modalità tridimensionale (voce, video, immagine). A contrariarci concorre, nella fattispecie, la constatazione che, nell'intento di satireggiare l'avversario politico, si è finito col dissacrare miti intramontabili della comica (nel caso, Stan Laurel & Oliver Hardy).
Dal fotomontaggio esce una sorta di Frankestein, che non sappiamo quanto sarebbe piaciuto ai campioni della (vera) risata. Il volto divertito e compiaciuto (per quanto nel prosieguo degli eventi potrebbe incupirsi ed anche attenuare il buonumore in chi ne è stato movente), della copia che ha retinato Stan and Oliver, risponde, però, a comprensibili motivi.
In meno di cinque anni lo Stanly pentastellato ha portato in vetta alle classifiche dei consensi un fantasmagorico movimento di ispirazione antisistemica e l'Oliver post-leghista ha non solo triplicato l'eredità del Bossi leghista, ma, addirittura, sta mettendo a segno un'inimmaginabile OPA sul senior partner del tempo che fu.
Nessuno dei due ci ha mai appassionato e, nonostante l'evidenza di una sonante impresa elettorale, non c'è la minima probabilità che si possa aprire in noi qualche minimo spiraglio per un ripensamento. Ma è inconfutabile la conclusione che i due, marciando separati e colpendo uniti, ci hanno saputo fare (sportivamente: chapeau!)nella non scontata impresa di ascendere dall'iniziale ruolo di outsiders a quello di vincitori indiscussi e, soprattutto, di imprescindibili detentori delle carte che conteranno nelle partite successive.
Ci sconcerta non tanto il risultato non esattamente imprevedibile (ancorché di dimensioni debordanti, lo confessiamo, dalle pur nefaste nostre previsioni), quanto il “dopo-partita”.
È passato quasi un mese dalle urne (del cui esito già si sa tutto, tranne il modo con cui uscirne) e nel campo di centro-sinistra (e, segnatamente, nel PD, che ne è stato a lungo il perno), ma non pare poter cogliere, nei gesti (molti dei quali ispirati dalla vonclausewitziana continuazione delle lacerazioni interne in altre forme) e nel wording, quella particolare sollecitudine a dar conto della propria condotta e delle proprie responsabilità. Come, sarebbe giusto potessero attendersi gli iscritti, il popolo delle primarie, i settori di elettorato, che, nonostante le pur infelici previsioni, si sono ribaditi nelle urne e, neanche lontanamente lusingati dall'idea di praticare il bandwagoning ma intenzionati a non deflettere, amerebbero essere confortati da comportamenti congrui.
Da appartenenti (sia pure in defilata posizione) a quel campo, anche noi abbiamo percepito la mazzata. E, sia pure tribolatamente, ce ne stiamo facendo una ragione.
Meno comprendiamo un'elaborazione del lutto che ci sembra ispirata da surrealismo. Quasi si fosse in presenza di un evento che non ci riguarda da vicino e che in nessun caso (o molto marginalmente) ci mette in discussione.
È lecito ed accettabile che un nuovo corso (che ha ingombrato chiassosamente la scena per cinque anni) sia diventato, tutto ad un tratto, reticente, inconsapevole, sdegnosamente afono (salvo che per la reiterazione di testimonianze inverosimili)? Quasi fosse preda dei tormenti del Michele di Ecce Bombo (“No, veramente, non mi va. Ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Che dici, vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o..”).
Se ci è consentito, consiglieremmo a Michele di non andare al bar; bensì in sezione, in Federazione, nei circoli, nelle sale pubbliche. Ad interrogarsi e ad (umilmente) interrogare. Per cercare di capire e di spiegare. Per correggere la rotta dei comportamenti rivelatisi manifestamente in contrasto con le aspettative del proprio retroterra. Magari con lo sforzo di astrarli (pur ammettendoli autocriticamente) dalle linee guida del progetto politico. Che magari non sarà stato capito per difetto di comunicazione o per posture irritanti o sarà stato subissato dalla preconcetta canea populistica. Ma che merita di essere sottoposto ad un severo test di verifica. Donde possano scaturire le residue condizioni per una (non scontata) ripartenza.
Ciò che vogliamo sostenere è che l'abbrivio postelettorale del nostro campo di appartenenza non porta (per come è stato affrontato) né ad una spiegazione ragionata ed esaustiva della sconfitta né ad un bandolo che consenta di riorganizzare sia una spendibile sintesi politica sia la riaggregazione delle indispensabili energie ideali e civili.
Senza delle quali è inimmaginabile anche il semplice ruolo di opposizione; per non parlare di una rivincita che, nelle condizioni dati, appare un miraggio.
Comprensibile che sia problematico l'atterraggio da un passato di ruoli rilevanti ed imprescindibili a scenari decisamente meno gratificanti. Ma prima si esce dalla trance del combinato tra la batosta elettorale e l'impatto dell'insediamento delle Camere (che sembra obnubilare la consapevolezza della dura realtà) e meglio sarà per la sinistra.
Non è certamente incoraggiante che la reggenza del prime contractor dello scombiccherato asset elettorale del centro-sinistra (messo a punto ad immagine e somiglianza della non meno surrealistica legge elettorale) abbia trasmesso la direttiva (prontamente accolta dai destinatari locali) di congelare la struttura dirigenziale ad ogni livello. Che senso abbia un siffatto indirizzo, se contestualmente non si attiva una profonda riflessione politica, è tutto da chiarire.
Né può apparire bastevole l'iniziativa di indire una riunione della Direzione provinciale, svoltasi, parrebbe, in forma “protetta”. Fatto questo che rivelerebbe un'allarmante regressione negli standards di trasparenza e di apertura al rapporto con gli associati, gli elettori e l'opinione pubblica (da coinvolgere, invece, pienamente in una ricerca dolorosa ma ineludibile).
Per non parlare, poi, della totale assenza di iniziative di raccordo con i partners minori dell'alleanza. La cui esclusione da una collettiva riflessione post-elettorale direbbe, più di quanto già non abbia detto la marginalità nella gestione dell'alleanza, della pervicace autosufficienza del PD rispetto a qualsiasi prospettiva di rilancio di un centro-sinistra in chiave pluralista.
Né appare di particolare conforto la constatazione che la sola piccola famiglia socialista, cremonese e cremasca (diversamente dagli organi centrali che anche in questo si sono colpevolmente accodati al PD) abbia sentito il dovere, verso se stessa e verso i propri elettori, di non marcare visita (per di più,rendendo pubblici la convocazione, il dibattito e le conclusioni).
Farebbe bene il PD (e con esso quel che resta della testimonianza socialista) a recuperare in fretta il senso della pluralità di apporti, che appaiono sin d'ora indispensabili ad una ragionata analisi dell'insuccesso e ad una plausibile offerta di progetto politico.
Alla cui formulazione appare sin d'ora indispensabile il pieno coinvolgimento di un campo talmente allargato da non escludere in partenza l'eventualità di una profonda rimodulazione di quello che è stato l'assetto del centro-sinistra fino a 4 marzo.
Le urne, a prescindere da un giudizio sui fatti, hanno incontrovertibilmente decretato la sconfitta della testimonianza di governo dell'ultima legislatura.
La criminalizzazione di Renzi ha avuto come perno indefettibile la certezza che il suo ciclo sia stato costellato solo da errori e demeriti. Ma non è così. Innanzitutto, all'ex premier/leader andrebbe riconosciuto il merito di aver quanto meno tentato la discontinuità dei riferimenti del PD rispetto alla preesistenza dei partners ex-DC ed ex-PCI. Tale premessa ha orientato lo sforzo di recupero del ritardo progettuale dei primi dieci anni di PD, restato arroccato ad una sorta di gestione stralcio della terza via (in quasi totale dismissione ovunque).
Con la proposta di riformare la terza parte della Costituzione il PD ha dimostrato la piena consapevolezza che il ritardo accumulato dal quarto di secolo del ciclo ulivista non poteva essere recuperato se non attraverso una forte accelerazione riformista.
Tra i principali errori del PD di Renzi, come ha recentemente osservato Galli della Loggia, emerge la pervicacia nel costruire la propria campagna e la propria immagine in una prospettiva specularmente opposta ai propri competitors. Così consentendo loro la sistematica occupazione degli spazi liberati da un'acritica accettazione dell'esistente e da un'esclusiva gestione del potere. Per di più in un rapporto stimato come collateralistico all'establishment, ritenuto causa delle disuguaglianze che hanno costituito il principale addebito.
Troppo facile imputare a posteriori scelte inappropriatamente considerate impopolari e penalizzanti i ceti di riferimento.
Alcune di queste formulazioni (ad eccezione di testimonianze meno dogmatiche in materia di flussi migratori e di alcuni diritti civili au caviar) non erano (nel contesto dato) mediabili; pena il venir meno dell'asse portante di un progetto politico realisticamente proteso a coniugare le ragioni della ripresa, dell'efficientamento del sistema e delle ricadute sociali correttive.
Ciò doverosamente premesso, non si può tuttavia rinunciare a reiterare il rilievo su un eccesso di autoreferenzialità e su una quasi totale assenza di minimale propensione a semplici riserve suggerite quanto meno dal contatto con cambiamenti, profondi e non esattamente configurabili nei loro effetti duraturi.
Tale propensione non dovrebbe trovare giustificazione nell'impulso a compiacere quelle ragioni di continuità col profilo “di forza di lotta e di governo”, di cui le frange della sinistra refluita nei movimenti populisti hanno avvertito la mancanza, bensì nell'avvertenza a non distaccarsi mai dai perni di un rigoroso riformismo, ispirato da pensiero critico.
Le urne hanno, soprattutto, decretato implacabilmente la compiuta obsolescenza dello strumento e del progetto politico con cui i sopravvissuti eredi della prima repubblica erano succeduti a se stessi, nella presunzione di perpetuare all'infinito risposte incompatibili con i cambiamenti già metabolizzati e quelli presumibilmente in divenire.
Tale considerazione porta a ritenere che poco di quanto ha sin qui costituito l'intelaiatura della sinistra moderata possa essere riconvertito nelle linea guida della ripartenza.
Per ricostruire non semplicemente la sinistra che (sia nelle sue versioni storiche sia in quella più recente delle terza via) è morta e sepolta; ma un'alternativa riformista, europeista e democratica (la cui esigenza avvertiamo tutti quanto meno per non consegnare il Paese a una maggioranza senza opposizioni).
Un'agenda da mettere a punto se non proprio in fretta, comunque senza troppo tergiversare o troppo concedere a pretattiche dettate da preservazioni poco nobili.
Quel che vogliamo sostenere è, come abbiamo anticipato, che non basteranno ritracciamenti di offerta politica e ritocchi di nomenklatura (come, purtroppo, l'ammuina in atto da un mese fa temere).
Già se n'era avuta sensazione a contatto coi primi sintomi di sfilacciamento conseguenti alla débacle referendaria. Che, come la classica palla scivolata sul pendio, è diventata la valanga che ha travolto i depositi teorici (per quanto sommari), l'intelaiatura organizzativa e dirigenziale, la filiera di raccordo con il bacino culturale e sociale di riferimento, i destini di mantenimento del ruolo civile (si può, senza offesa, anche leggere, di carriera) di migliaia di operatori che ne hanno sin cui costituito la dorsale.
Per essere chiari, azzardiamo che le residue prospettive di mantenimento dell'influenza di forza di governo per il centro sinistra sono legate ad un taglio ancora più netto di quanto abbia fatto Renzi con la continuità. There is not alternative!
Non sono consentiti colori pastello ed attendismi. Come è ben noto, il medico pietoso fa la piaga purulenta.
Stamani, sul Corsera, l'apprezzato politologo Galli della Loggia si chiede (e si risponde): “Ripartire da Renzi? Impossibile, se il diretto interessato non approda (anche caratterialmente) ad una sponda ben diversa di consapevolezze capaci di innescare virtuosamente il dna di quel processo che rilanciò il PSI.”
Sia consentito a noi (non foss'altro perché, in materia di elaborazione dei lutti elettorali, siamo del mestiere) intercalare i nostri ricordi con i rimandi suggeriti dall'editorialista (sulla base di evidenti analogie tra i due scenari).
Abbiamo provato sulla nostra pelle lo sgradevole dolciastro sapore del sangue della sconfitta.
La più devastante fu quella del giugno 1976; quando i socialisti, alla ricerca di “equilibri più avanzati”, stimati maggiormente congrui ad un accettabile rapporto costi/benefici per chi, come loro, era nella prima linea di quei foschi scenari, immolarono la universalmente stimata leadership di Francesco De Martino, vecchio professore di diritto romano, intellettuale di sterminata cultura, testimone del socialismo azionista.
La strepitosa avanzata del PCI, di dimensioni molto simili a quella del M5S di adesso, non solo “segnava il fallimento della quindicinnale collaborazione dei socialisti con la DC lasciandolo privo di una strategia”(come lucidamente annota Galli della Loggia), bensì costituiva la dimostrazione plastica dell'insuccesso del PSI autonomista nell'intercettare il necessario consenso popolare. Condizione base per imprimere un'accelerazione al processo riformista che, per la resistenza conservatrice (della DC e dei poteri più o meno occulti) e per la delegittimazione portata avanti dall'irriducibile (in termini non del tutto dissimili a quella manifestata dalle voci neo-populistiche) opposizione comunista, si era depotenziato. Il centro sinistra a trazione Moro/Nenni aveva, sin dalla metà degli anni 60, inoculato nel sistema Italia (che aveva realizzato la ricostruzione ed un processo espansivo di dimensioni sorprendenti) significative dosi di riforme di struttura. Vale a dire, di provvedimenti destinati ad incidere nel sistema Italia, attraverso diritti civili più avanzati e possibilità di recupero normativo ed economico a vantaggio del lavoro dipendente.
Su questa strada il campo riformista (area laico-socialista e cattolici progressisti) avevano incontrato i “grillini” del tempo. Il loro terico bacino politico e sociale di riferimento avrebbe, nonostante l'opposizione demagogica del PCI, tratto vantaggio dalle riforme del centro-sinistra. Ma, con la formidabile metafora Pietro Nenni, il PCI avrebbe raccolto i frutti dall'albero scosso dai riformisti. Le elezioni del giugno 1976 sancirono senza alcun ulteriore dubbio l'irreversibilità di una funesta tendenza (per alcuni versi non imparagonabile alle dinamiche contemporanee).
Nonostante tutto (le buone prove e l'ansia profonda di far progredire gli avamposti del riformismo di sinistra) le liste socialiste inforcarono un cappotto. Un minimo storico, si disse. Foriero di una frustrante constatazione di marginalità ed, in progressione, di spoliazione, da parte del PCI, del poco che restava del socialismo italiano.
Giovani e vecchi militanti, nonostante la visuale influenzata dall'angolatura anagrafica, furono accomunati da una cocente delusione; che, però, pur potendo in teoria anche orientare ad un rompete le righe, indusse ad una sofferta e rigorosa ricerca. Delle ragioni del deludente risultato, ma, soprattutto, dell'accertamento della permanenza della “ragione sociale”. Vale a dire della permanenza di un ruolo, nella politica e nella sinistra italiana, per i socialisti.
Gli interrogativi cominciarono a correre a scrutinio ancora in corso. Le riunioni a qualsiasi livello furono convocate per la serata del martedì successivo alla chiusura dei seggi elettorali. Le riunioni periferiche, s'intende. A dimostrazione che il corpo della militanza, diversamente dal PCI, rivendicava una sua autonoma sfera di analisi e di giudizio. Il Comitato Centrale (cui il sottoscritto partecipò da imbucato al seguito dell'appena eletto senatore Carnesella) si svolse al Midas Hotel di Roma. In uno scenario, occorrerebbe aggiungere, di delusione ma anche di consapevolezza dell'imperativo e dei margini reali di un tentativo di resilienza. Individuati in una precondizione ineludibile: radicale cambiamento dei vertici, associato al radicale cambiamento, non solo di linea politica, ma di retroterra teorico.
I socialisti, consapevoli della causalità di una lunga assuefazione ai ruoli di governo imposti (anche allora) dal senso di responsabilità verso l'Italia, si sottrassero all'incombenza della governabilità e si presero una pausa. Per riordinare le idee in vista della ripartenza
Prima di approdare a nuove funzioni di governo, il corso craxiano si misurò con un'impegnativa sistemazione teorica. Il 41°Congresso di Torino del 1978 incardinò la nuov strategia socialista sui binari della “strategia dell'alternativa”, come risposta al berlingueriano compromesso storico.
Al drastico ringiovanimento|rinnovamento dei ranghi dirigenziali che aveva portato alla leva dei “colonnelli” aveva fatto seguito una stagione di eccezionale elaborazione (“Il progetto socialista” licenziato dalla conferenza programmatica di Rimini che mise a punto la teoria dei meriti e dei bisogni, con cui enucleare un inedito progetto di giustizia sociale).
Per giungere al Congresso di Palermo, che definendo l'autoriforma interna, impresse accelerazione ad una diversa dislocazione del Partito nel rapporto con il proprio bacino di riferimenti culturali e sociali.
Si imputa inappropriatamente a Craxi un marcato decisionismo della propria leadership. Che, effettivamente, aveva segnato sin dall'esordio, una marcata discontinuità con quella sorta di consociativismo del passato, esiziale per la chiarezza e la tempestività di azione politica.
La leadership craxiana, in realtà, si avvalse quasi sempre sia di una vasta condivisione della propria linea da parte delle variegate sensibilità sia della feconda apertura verso l'esterno dei motori elaborativi.
A fianco degli organi statutari, la giovane dirigenza (per dire, Craxi all'epoca aveva solo due, tre anni in più di Renzi e Boschi) attivò una serie di strumenti (permanenti e/o ad hoc) di studio e di approfondimento, che avrebbero dato autorevolezza e spessore al nuovo progetto politico ed una nuova marcata identità politico-ideale.
Forse l'accostamento tra i due scenari può essere azzardata e la derivazione delle risolutive ricette di una sindrome apparentemente ideopatica del centro-sinistra può essere stimata semplicistica.
Ma, fermo restando, da un lato, che negli ultimi cinque anni il PD ha esaurita la leva del ringiovanimento dei ranghi dirigenziali e, dall'altro, che la ricerca teorico-progettuale ha scontato per intero la difficoltà a rapportarsi ai cambiamenti forieri di quella desertificazione planetaria del tradizionali pensiero progressista, non ci pare, nell'attuale contesto, esistano molte alternative (almeno di metodo) alle linee guida cui, a metà anni settanta, i socialisti ispirarono la ridefinizione della loro testimonianza.
E i socialisti di oggi (quelli della piccola nomenklatura, che si è esaurita in un suicidio rituale di cirenaica sussidiarietà)? Rigorosamente non pervenuti!
Imitano Renzi anche nello sdegnato silenzio.
Anche loro, però, a meno di un gesto di dignità suscettibile di proiettarli nel percorso del più volte citato e del quasi sempre inimitato Cincinnato, dovrebbero, ove interessati ad un edificante e per alcuni versi onorevole passaggio delle consegne, propiziare il richiamo in servizio delle energie colpevolmente catalogate nei ranghi complementari. Si tratta di decine di associazioni politico-culturali di scuola socialista, che, forse anche a causa della loro refrattarietà a farsi omologare in un sistema di testimonianze poco idealistiche (o forse, più probabilmente, per un'interessata idiosincrasia ad allargare la platea dei titolari di diritto di parola e di critica), sono rimaste latenti ed inespresse. Privando così l'area socialista ed il campo di centro-sinistra (in cui almeno idealmente gli epigoni del pensiero socialista dovrebbero riconoscersi) di apporti fecondi.
Vorremmo concludere questo contributo con un'esortazione rivolta alle “riserve” (in cui nemici ed interessati amici hanno, nell'ultimo quarto di secolo, confinato quel che resta della testimonianza socialista). È giunto il momento di riprendere il cammino di questa testimonianza. Partendo dall'idealismo e dalle consapevolezze, suggerite dalla constatazione dei cambiamenti, che la riformulazione di un credibile e spendibile progetto di sinistra riformista non possa prescindere dai perni del pensiero socialista.
Come testimoniare tale volontà di ritorno in campo appartiene a quella sorta di work in progress che viene suggerito, da un lato, dalla consapevolezza della complessità della situazione e, dall'altro, dal meditato proposito di non partire dalle preesistenze.
Azzardiamo che questo ritorno alla piena appartenenza alla sinistra riformista deve avvenire al di fuori degli schemi delle appartenenze predeterminate. Per come è messo, il PD potrebbe, più o meno gradualmente, collassare. Prima che si giunga a ciò, il campo del centro-sinistra avvii, nel suo complesso e senza paratie, un confronto capace di assicurare piena agibilità ed in forma inedite a tutte le energie interessate ad un nuovo progetto di società e di movimento che in esso si identifichi.
Partendo, se ci è consentito, dal tema assolutamente prioritario della tenuta democratica. Che, almeno nelle forme fin qui conosciute, è a forte rischio estinzione. Un rischio questo perso di vista da una sinistra portata negli ultimi anni a vedere il dito e non la luna.
Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, ricercatori di Harvard in How Democracies Die (Come muoiono le democrazie) individuano in soccombenza del sistema politico allo strapotere dell'economia finanziarizzata, in subculturizzazione generalizzata ed in squilibri demografici le concause del collassamento della democrazia. Di quella democrazia definita da Churchill “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre che si sono sperimentate finora”.
A bene vedere l'analisi dei fattori concorrenti alla degenerazione del modello liberaldemocratico in un vasto ventaglio di sistemi autoritari pone l'evidenza su aspetti che quasi sempre vengono trascurati o minimizzati dalla sinistra militante. In particolare, l'indebolimento degli anticorpi radicati in alti livelli culturali e civili e il portato, sulle percezioni delle fasce meno protette ed emarginate, di flussi migratori incontrollati, che proiettano, oltre a scadimento delle protezioni sociali e delle tutele di sicurezza, anche una tendenziale deriva sistemica, derivante dall'immissione nel circuito statuale di apporti culturalmente estranei alla tradizione occidentale quando non ostili od impermeabili alla loro metabolizzazione.
Forse la consapevolezza dei pericoli di deriva dell'architrave della società liberaldemocratica non è stata nella priorità delle analisi e dell'azione della sinistra.
D'altro lato, si va sempre più avvertendo, nell'analisi postelettorale, il nesso di causalità tra perdita di consenso e perdita di relazione con la realtà sociale.
La road map, che ha come traguardo la ristrutturazione della sinistra, non può che essere pervasa dalla riconsiderazione della centralità della partecipazione organizzata dei cittadini come contrasto, da un lato, agli eccessi di individualismo (vale a dire all'impulso dell'individuo a chiudersi in se stesso) e, dall'altro, e alla tendenza dello Stato a debordare nei diversi ambiti della società. Con la partecipazione le persone socializzano, condividono valori e obiettivi, attenuano spinte individualistiche a vantaggio della coesione sociale e della tenuta democratica.
Forse è ciò che è mancato, più che nelle formulazioni teoriche, nell'applicazione pratica della sinistra.
L'Eco del Popolo, nell'intento di aprirsi al confronto, ospita la risoluzione dell'Assemblea dei Circoli Socialisti recentemente svoltasi a Livorno, che ha delineato un percorso di approfondimento politico all'interno della sinistra italiana.
Attendiamo altri contributi per allargare e rendere fecondo il confronto.
E.V.