Con il che precisiamo che in nessun caso intendiamo tirare in ballo anticipi di sentenze né tantomeno valutazioni di ordine etico-morale.
Semplicemente riteniamo doveroso richiamarci al quel “l'avevamo detto” (in solitudine o tutt'al più in ristretta compagnia), in materia di avvisaglie circa procedure gestionali, in capo al Teatro Cittadino, un po' così.
Si ripete, a margine dell'approdo del lavoro investigativo confluito nell'ipotesi di abuso d'ufficio, che andrà verificata da un vaglio possibilmente scevro da pulsioni giustizialiste e da revenge sanctions.
Una condizione, in nessun caso, consentita sarebbe lo stupore del “non avrei mai immaginato”.
Perché di chiacchiere su fatti non esattamente corrispondenti alla trasparenza e a parametri procedurali minimalmente in linea con gli obblighi pubblici, ne sono circolate per anni. Non tutti i trenta in cui si è dipanata una sovraintendenza dai tratti satrapici, ma in buona parte.
Avvisaglie circa vincoli allentati nei gesti amministrativi (soprattutto, in materia di ingaggi) erano manifeste fin dalla notte dei tempi.
Si sarebbe potuto azzardare che fossero licenze dedotte inerzialmente dalla precedente gestione “condominiale”. Che sarebbe cessata (anche nelle consapevolezze e negli stili comportamentali) di essere tale dal momento sia della “municipalizzazione” sia della traslazione alla forma della Fondazione.
Completiamo la premessa su una riflessione che riguarda i titoli di coda di una “testimonianza”, durata oltre il lecito e il buon senso, con l'esternazione di uno sconcerto di fronte ad un diffusa reazione-non reazione, che, se pur circoscritta al segmento di rilevanza giudiziaria, aveva gonfiato vene tempiali e petti, fino a qualche mese fa. Quando, volendo riassumere brevemente il percorso, fu consumata la lesa maestà della cessazione dopo trent'anni di un incarico, assistito praticamente da un ingaggio da pieni e incontrollati poteri.
Che la pratica di spesa corrente nella massima istituzione teatrale cittadina fosse un po' ispirata da modalità da helicopter money, sia pure ovattata dall'ipocrisia ma intuibile nelle confidenze, nelle evidenze, nelle smargiassate, non era recisamente negato, era semplicemente metabolizzato nella fattispecie delle claudicanze laterali. Giustificate dalla “grandezza” dei risultati e dal talento monocratico.
Ripetiamo, si sarebbe potuto arrivare ad un fine corsa non necessariamente così chiassoso e divisivo; soprattutto, per la piega giudiziaria che, da parte degli irriducibili supporters di una carriera così vistosamente portata sugli scudi, sembra approdare ad un tamquam non esset.
E non si sa bene per l'imbarazzo di una ammissione postuma o per l'incoercibile, intimo convincimento dell'inesistenza di rilevanza penale combinata, di fronte all'ineluttabilità dell'accertamento, con la certezza che tutto sia frutto di una ritorsione.
D'altro lato, il procedimento investigativo non sarebbe neanche iniziato se lo “spione” nominato nel CdA dal dissacratore Galimberti non avesse avviato i passi cui ogni amministratore sarebbe tenuto.
Non lo conosciamo e non ci interessano particolari sul suo excursus che lo ha portato a condividere una gestione, che, sempre in base ai rilievi della sua relazione (depositati in CdA e presumibilmente in Procura) faceva acqua da tutti le parti e si resse per molti anni con “licenze” finanziarie.
La filiera dei “ma ve la fate scappare”, “come fare senza di lei?”, “il Ponchielli dopo di lei non sarà più lo stesso” e di sconcertanti presagi per le sorti dello storico teatro segnò un picco nella temperie della transizione e del passaggio del testimone dallo storico deus ex machina al subentrante.
Se è permessa una chiosa, aggiungeremmo che l'esercizio di qualità della politica non è acqua, anche quando le decisioni si rivelano giustificate e feconde.
Ma a prescindere e a dispetto di ciò il teatrino politico cremonese non ha mancato di farsi riconoscere per quello che é.
I supporters convinti delle loro ragioni fino al limite dell'irragionevolezza e dell'autocastrazione. I competitors, situati sulla sponda della discontinuità, vincenti, ma percepiti o fatti percepire animati da calcoli non esattamente di valore comunitario.
In realtà anche se nella partita il Sindaco-parolaio esce vincitore, dal punto di vista del risultato del game oltre che dalla verifica delle motivazioni, continua a pesare sulla sua performance (che nessuno dei suoi predecessori aveva voluto affrontare) se non proprio con le ossa rotte certamente con lo stigma del re Mida capovolto.
La eccessiva narrazione (impulso in lui incomprimibile) associata ai “ricami” dei suoi detrattori lo relega infatti nel ruolo di colui che aveva capito e che si era assunto conseguenti responsabilità, ma che non era stato capace di gestire con accortezza i percorsi.
Ciascuno tende a cogliere e a trattenere nella mente e nelle aspettative ciò che conferma i suoi convincimenti.
Cosa succederà nel palazzo d'angolo di Via Tribunali non è dato sapere.
I silenti sostenitori dell'ancien regime sono scomparsi dalla scena. Noi che siamo sempre stati osservatori critici, siamo indotti a considerare che l'epilogo, giunto troppo tardi, ma porta in emersione obiezioni mai consentite per tanti anni.
Si dovrà apprendere dall'esperienza, per evitare di ripetere gli errori.
Il tentativo di ripetere ciò che c'era prima, di fare ritorno alla normalità e di fingere che sia finito tutto.
Soprattutto, bisognerà colmare l'assenza di una visione di prospettiva. E procedere a fari spenti. Inerzialmente rispetto all'epilogo di una vicenda che, a prescindere dal lato giudiziario, impone una forte discontinuità. Mentre, nelle more del cambiamento, si andava prospettando una transizione dolce, anzi gattopardesca
Confortante il segnale derivante dalla cifra progettuale della nuova sovraintendenza, che induce a percepire quella volontà di discontinuità rispetto alla governance durata 30 anni. Di cui, con tutto il rispetto, tutto si può dire, tranne che fosse ispirata dal senso di ricerca di profili di caratterizzazione. Non meno encomiabile è l'endorsement di Cigni al momento dell'annuncio del cartello a valere per la rassegna monteverdiana: “La sfida è arrivare a tutti, perché ciò crea identità della città, con la musica, la storia, l'architettura, la sua bellezza fino alle persone che la popolano”.
In cui è implicita la consapevolezza che, in aggiunta all'imbarazzante passato, ci si trova di fronte ad una prospettiva resa complicata sia dalle inestimabili conseguenze della precedente gestione finanziaria (tutte da valutare) sia dal contesto postpandemico.
Cremona non potrà più permettersi gestioni teatrali a pié di lista e a tariffe politiche. Su questo profilo aggiungiamo la necessità di un radicale cambiamento di questa filosofia da panem et circenses. Confluita nello scambio di accettazione supina della civica amministrazione di costi ingiustificati ed intollerabili contro pretese di qualità dei cartelloni e tariffe da saldo.
Per andare allo stadio (quando si poteva) si pagava in tribuna numerata quasi mille euro ma alle rappresentazioni al Ponchielli dovevano funzionare i prezzi “politici”. Di più, come ci sembra di cogliere, nelle esternazioni del sovraintendente Cigni, una certa consapevolezza della dismissione delle velleità totalizzanti del Teatro di Corso Vittorio Emanuele.
Ce ne sono, come abbiamo ripetutamente considerato in passato, almeno altri due. Il teatro bomboniera dei Filodrammatici che copre, con onore e economie di scala, un segmento minore, ma utile al patrimonio artistico e culturale diffuso nella città.
E, soprattutto, c'è quell'unicum mondiale dell'auditorium di Piazza Marconi. Sempre più apprezzato e conosciuto in città, nel territorio, a livello nazionale e mondiale.
Già il patrimonio teatrale e artistico non polarizzato nel solo maggior Teatro, ma diffuso nella città e correlato anche ad alcune novità positive, come le opportunità dischiuse dalla “città universitaria”.
Basta pensare di vivere sugli allori (che andrebbero verificati) e sulle aspettative gratuite.
Incoraggiate dalla condizione “della città della musica e del violino”. Vero, ma se pippi all'umido, non ci sarà trippa per i mici.
Lo dice apertis verbis (in un'apprezzata intervista pubblicata dal settimanale Mondo Padano) il professor Roberto Codazzi, che tra le tante altre apprezzate cose, è direttore artistico musicale del Museo del Violino.
Speriamo che conceda anche alla nostra testata un'occasione di approfondimento su un tema di primario interesse per le aspirazioni e le sorti insite nel progetto di fare di Cremona veramente una città di richiamo mondiale.
Cremona, dopo essere stata sgambettata dalle città sorelle di Bergamo e di Brescia nel riconoscimento di città della cultura, ha perso anche il treno del riconoscimento dell'elenco delle città creative.
Codazzi coraggiosamente indica nelle precondizioni non performanti di Cremona il fatto che, il Comune anziché alzare lo sguardo su standards internazionalmente praticati di elevazione della qualità, è inchiavardato, se non proprio nella paccottiglia, nell'offerta seriale. Premuta da un associazionismo culturale volonteroso ma limitato e pretesa da una domanda “popolare”, che la politica non sa o non vuole elevare.
Insomma, non si interrompe il “sogno” del format “Recitarcantando”, tre anni fa portato, in occasione del quarantesimo anniversario, sugli scudi dell'ex Sovrintendente del Ponchielli. Decisamente bisognerà cambiare registro.