Sull'election day di fine settembre sono destinati a confluire sia il repessage degli appuntamenti alle urne rinviati per effetto del lockdown quanto il complesso di incrostazioni delle irrisolte questioni dell'efficienza istituzionale.
Si possono ben comprendere le ragioni che, essendo alle viste un non improbabile nuovo lockdown, che hanno indotto a raggruppare la chiamata referendaria sulla legge di riduzione della composizione e il rinnovo di sette Consigli Regionali e di numerosi Comuni; ma, indubbiamente, non gioverà alle consapevolezze del corpo elettorale, chiamato ad esprimersi su questioni non esattamente irrilevanti, l'offerta di uno scenario nematicamente variegato ed inputs politici suscettibili di deragliare le percezioni.
Non è nostra intenzione iscriverci nell'elenco del radicalismo della purezza referendaria. Ma non possiamo esimerci dal manifestare preoccupazione per la sinecura con cui ci si appresta a decidere su una materia, quella del ritocchino della composizione numerica delle Camere, senza aver minimamente approfondito la connessione tra le conseguenze della scelta sottoposta all'omologazione popolare e il più vasto e più importante tema della rimodulazione del cameralismo e dell'efficientamento dell'ordinamento istituzionale.
Indubbiamente, la scelta, per alcuni versi quasi obbligata, di porre nell'agenda dell'election day anche il rinnovo delle Regioni e dei Comuni, comprensibilmente più dotati di appealing nei confronti degli elettori, finirà per rendere un cattivo servizio, in termini di chiarezza e di consapevolezza, alla comprensione delle scelte in campo.
Per questa ragione, la nostra testata, approssimandosi la chiamata alle urne, si riserva, oltre che un doveroso approfondimento, anche una riflessione più ampia sulla riforma istituzionale che è (o dovrebbe essere) implicita nell'oggetto referendario. Per la quale sollecitiamo sin d'ora l'invio di contributi.
Mentre, sulla tornata amministrativa, che interesserà marginalmente la Provincia di Cremona e che riguarderà solo i Comuni di Soncino, Persico Dosimo e Corte dè Frati, intendiamo svolgere da subito un'analisi che parte un po' più da lontano e che vorrebbe contribuire a far alzare lo sguardo dalle opzioni elettorali stricto sensu per non perdere di vista, transitando per li rami delle perduranti criticità dell'amministrazione periferica, la deriva dell'ordinamento istituzionale locale.
Ad iniziare da quella colossale eterogenesi dei fini insiti nell'istituzione delle Regioni, come strumento legislativo di programmazione e di decentramento sul territorio dell'azione pubblica, finito, come abbiamo ripetutamente denunciato su questa testata, per replicare esponenzialmente le cattive posture dello Stato centralista.
È solo il caso di accennare alla conseguenza perversa della riforma del cosiddetto articolo V, che inventando, sull'altare della dilatazione dell'interventismo delle istituzioni locali, la formula dei poteri concorrenti, ha manifestamente (lo dimostra la gestione dell'emergenza pandemica) approfondito le endemiche pulsioni alla sovrapposizione delle funzioni e delle attribuzioni di fatto.
Fu quello lo snodo che griffò la transizione alla seconda repubblica dei Governatori, delle autonomie regionali differenziate, del maggioritario diffuso.
Perseguiti con la baldanza della semplificazione, implicita nella transizione alla politica liquida ed all'associazionismo leggero.
Se ce ne fosse stato bisogno, la gestione dell'emergenza pandemica scolpirebbe indelebilmente il nesso di causalità tra il mediamente modesto livello di efficienza (quando non di inadeguatezza) delle Regioni dei Governatori e le risultanze della sistematica verticalizzazione dei poteri. Esercitate prevalentemente sul terreno della ricorrente soppressione delle originarie funzioni gestionali e di controllo delle istituzioni locali in materia di sanità e del tendenziale annullamento di qualsiasi ambito partecipativo sul terreno delle politiche di riequilibrio territoriale.
Una strategia questa che si è avvalsa, negli ultimi anni, degli esiti della sciagurata legge Del Rio che, preannunciando la soppressione della Provincia nel contesto della riforma Renzi ha (anche col concorso delle Regioni chiamate a rimodulare funzioni ed ambiti) di fatto ingessato (in un assurdo contesto di sospensione) la non soppressione dell'ente intermedio territoriale. Che, soprattutto, in realtà periferiche come la nostra, aveva dato storicamente un prova accettabile sul terreno della capacità identificativa dell'appartenenza ed aggregativa delle vocazioni.
Lo scenario post lockdown dice più di quanto si era inutilmente detto e denunciato in materia di marginalizzazione della periferia della Lombardia. Lasciata col suo carico di irrisolutezze e di vere e proprie depredazioni consumate sul terreno dell'irrilevanza nelle scelte strategiche e dell'accompagnamento alla razionalizzazione della rete amministrativa.
Ormai, per quanto riguarda la nostra realtà provinciale, approdata, per effetto delle penalizzazioni e delle trascuratezze, ad uno stato se non agonico certamente vegetativo.
Del che devono essere consapevoli anche le stanze dei bottoni del centralismo regionale, se, di fronte alle manifeste evidenze di regressione infrastrutturale e socioeconomica, hanno sentito il dovere di balbettare (come nei casi del cosiddetto “nuovo ospedale” di Cremona e dell'accelerazione dell'infrastrutturazione viaria) improbabili rassicurazioni.
Tale è lo scenario in cui la nostra provincia partecipa all'aliquota comunale dell'election day di settembre, che vedrà in lizza solo tre Comuni: Soncino, Corte dè Frati e Persico Dosimo.
Nella riserva di approfondimenti specifici, in corso di vigilia elettorale, su ogni singola realtà (in particolare quella di Soncino, la cui consistenza favorisce un approfondimento più articolato sul piano politico ed amministrativo), ci pare che la circostanza sia propizia per un'opportuna analisi del profilo critico della nostra realtà territoriale.
Di cui il Comune rappresenta ormai l'unica entità capace di presidiare un territorio articolato e, come si diceva, periferizzato e posto nelle condizioni di non agganciare i processi innovativi in chiave di sviluppo.
Dice sufficientemente di ciò il profilo di un'entità fatta di poco più di 300.000 abitanti dislocati in 115 Comuni, molti dei quali con popolazione inferiore ai mille abitanti.
Una realtà talmente stremata dall'inconsistenza di un'entità ormai non più capace di garantire livelli decenti di sussistenza da porre seri interrogativi sulla possibilità di tenuta. Cosa dire poi della tenuta di decenti livelli di democrazia sostanziale e di partecipazione civile?
Ben lungi da noi l'impulso alla drammatizzazione, ma come non vedere alla vigilia di questa chiamata alle urne sia pur parziale, ma in piena sintonia con quelle precedenti, i prodromi dell'avvitamento della palpabile tendenza allo sbriciolamento ed alla rarefazione della sostenibilità nel tempo della gestione popolare dell'amministrazione comunale e del meccanismo di formazione del ceto politico-amministrativo, che da tempo costituisce un'emergenza latente!
Di cui la difficoltà a garantire scenari dialettici accettabili ed effettivi (almeno due liste contrapposte) è più che un campanello segnalatore.
Di passaggio, facciamo presente che uno dei Comuni coinvolti nel turno elettorale, Persico Dosimo, eccellentemente amministrato per oltre un quarto di secolo, è stato in stand by commissariale come conseguenza dell'impossibilità di eleggere direttamente Sindaco e Consiglio.
Una situazione questa diffusa; che vede grosse difficoltà a raccogliere candidature soprattutto a Sindaco e liste di disponibili a sobbarcarsi compiti impegnativi, rischiosi, non gratificanti da ogni punto di vista.
C'è chi vede in ciò la conseguenza della scelleratezza dello sbarramento dei limiti di mandato. Immaginato, nella migliore delle ipotesi, sulla taglia dei Comuni metropolitani o Capoluogo. Ma totalmente incongruo per le piccole entità.
Prima se ne renderà conto il potere legislativo e meglio sarà per l'efficienza amministrativa e per la tenuta democratica nei contesti periferici.
Ricordiamo con l'occasione che il deputato Pizzetti se ne fece carico con impegno e purtroppo senza riscontri decisivi. Nell'augurargli lunga vita parlamentare, lo invitiamo pubblicamente a non demordere sull'argomento.
Perché è ben evidente questo bollino rosso della vita istituzionale; che una lectio facilior ascriverebbe alla fattispecie della disaffezione alla politica (indubbiamente favorita dalla sciagurata new wave della Seconda Repubblica (in cui il centro-sinistra ha serie responsabilità).
In realtà siamo in presenza di un assottigliamento degli idealismi e delle energie a disposizione dei Comuni, specie quelli piccoli e periferici.
La formula non può che risiedere in un convinto sforzo di armonizzazione e di convergenza nella rete dei Comuni in vista di un progetto aggregativo, partecipato e favorito da seri incentivi.
Come si vede siamo in presenza di un contesto in cui la cultura della sovrapposizione tra testimonianza politico-istituzionale e cinghia di trasmissione partitica non ha più molto senso.
Anche perché assottiglia, come dicevamo, il serbatoio dei civil servants e pone in uno scenario surreale la ricerca di un serio progetto di inversione di una situazione compromessa da tempo.