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Dossier Provincia

Una (mezza) notizia buona

  13/01/2022

Di Redazione

Dossier+Provincia

A fine dicembre, chiosando l'esito delle operazioni elettorali per il rinnovo del Consiglio Provinciale e, soprattutto, la chiosa dei players politici in campo, ci veniva spontanea la riflessione che riprendiamo

…non siamo molto lontani dal reale e non esageriamo quando manifestiamo la percezione che si è di fronte allo smottamento del ciclo caratterizzato dalla sinergia tra l'azione civica e la testimonianza dei partiti. Tutti hanno vinto, nessuno ha perso: è ciò che, perdurando la liberazione dall'obbligo di precisare linee di programma su cui tarare l'impegno di vincitori e vinti, condurrà inevitabilmente all'uscita di scena dell'ente intermedio territoriale 

I destini di un territorio marginalizzato come il nostro avrebbero bisogno di un sussulto civico, capace di far imboccare un minimo di remuntada. Un sussulto che fosse prerogativa trasversale di tutte le culture politiche e di tutto il popolo degli amministratori comunali.

A suffragare il fondamento di un pessimismo cosmico, bensì portato della constatazione di consolidati percorsi politici non esattamente virtuosi, c'erano stati, a scrutini appena conclusi, certi pronunciamenti dei corifei d i due dei campo competitors, manifestamente incuranti del livello di guardia, superato da tempo, delle fortune di una istituzione intermedia dell'amministrazione periferica ormai incanalata ad un'obsolescenza, non programmata ma di fatto decretata. Più che da un ragionamento logico, dalla neghittosità, da parte degli investiti di mandato, a farsi carico di un progetto ragionato di rimodulazione istituzionale generale e di correzione di avventate “riforme” (sic), come l'improvvido, estemporaneo, decreto Delrio. Che, come abbiamo indicato e ripetuto (ad nauseam), decretava di fatto la scomparsa dell'Ente intermedio. All'uomo forte del renzismo (ovviamente prima delle capriole dei posizionamenti interni al PD) parve imperdibile l'occasione di prendere due piccioni con una fava sola: attuare l'indirizzo dei tagli lineari in capo alla spending review cominciando dagli “sprechi” di un Ente inutili (La Provincia) e, ad un tempo, iscrivere a futura memoria il suo sostanziale delisting come ente autarchico territoriale (munito di chiare competenze e di risorse certe) nel quadro della “riforma Renzi-Boschi”. Un linkage questo, di dubbia onestà intellettuale e correttezza procedurale e, soprattutto, di inefficace capacità trainante (che avrebbe seppellito le fortune sia della riforma complessiva trainante sia di quella minore trainata). 

In materia di riforma di istituzioni di rilievo istituzionale bisognerebbe partire da presupposti di rango etico, avere un percorso congruo e, soprattutto, evitare la rateizzazione (quando non si ha la certezza dell'esito finale). 

Come siano andate le cose è all'evidenza degli occhi di tutti. Dovrebbero esserlo anche alle consapevolezze di chi lavora di concerto con le realtà periferiche. 

Ma evidentemente le abitudini del medico emiliano, sciaguratamente prestato (anche con ruoli eminenti) alla politica, devono essere influenzate dal proverbiale gatto che “la fa e poi la sotterra…”. 

Non si sa se il prodotto di questa dissennatezza “riformatrice” possa essere definito “un'incompiuta”. Sarebbe potuta andare molto peggio, se il progetto fosse stato punzonato dal referendum del 2016. Anche se l'indotto dell'incompiutezza, che da 2014 consegna l'entità Provincia ad una fattispecie di terra di nessuno, non si sa, in termini di incertezza e di semiparalisi dell'istituzione periferica di secondo livello, costituisca il classico “male minore”. 

In realtà l'Ente Provincia in sette anni è stato vandalizzato di funzioni operative, di organici e di risorse congrue ai compiti che (senza adeguati finanziamenti) permangono e, in particolare, cannibalizzato di alcune prerogative (come l'agricoltura) lestamente avocate dalla Regione Lombardia. 

Già nel 2016 i due parlamentari socialisti di quella legislatura (Oreste Pastorelli e Pia Locatelli) furono primi firmatari di una risoluzione, approvata dalla Camera, in cui si impegnava il governo sulla

necessità di proseguire nello forzo intrapreso al fine di garantire e, se necessario, incrementare le risorse necessarie ad assicurare l'effettivo esercizio delle funzioni fondamentali da parte delle province e delle città metropolitane, anche promuovendo le opportune modifiche alla legislazione vigente.

Inoltre nella risoluzione si invita il Governo a

adottare ogni iniziativa di competenza utile a favorire il ripristino dell'autonomia organizzativa degli enti, anche attraverso la deroga temporanea delle disposizioni di cui all'articolo 1, comma 420, lettere c), d) e) della legge.190 del 2014. 

Sono trascorsi sei anni, senza che da quella raccomandazione, approvata dalla Camera, sortisse un concreto, coerente indirizzo. 

Per essere chiari, il fallimento dell'assurda riforma Delrio sarebbe ricaduto sulle spalle, già gravate ed infragilite, dei Comuni, i cui eletti sarebbero diventati (come avvenne) corpo elettorale e elettorato passivo di questa istituzione dimezzata. 

Si protesta, ma poi, a quotidiano diretto contatto con la realtà periferica territoriale (che non distingue troppo in fatto di attribuzioni e si rivolge all'eletto di prossimità), ce se ne fa una ragione. Anche quando il carico aggiuntivo complica la compatibilità esistenziale con la testimonianza civica e viene svolto (quasi) gratis et amore dei. 

Non possiamo negare, dopo questa incensata ai civils servants diventati protagonisti (bon gré malgré) della sopravvivenza dell'Ente, di aver intravisto un certo impulso di adattamento allo sfruttamento di certi interstizi di potere politico, anche nel nuovo format monco. 

L'enormità dell'amputazione, che per un territorio già marginalizzato come il nostro rispetto alle logiche della destinazione delle risorse e delle compensazioni in termini strategici decretati dalle logiche neocentralistiche della Regione Lombardia, ha comportato ulteriore ulteriori marginalizzazioni ed impoverimento, avrebbe giustificato il gesto, da parte di tutto il territorio e dei rappresentanti elettivi del medesimo, di rovesciare, come si suol dire, il tavolo. 

Ma tant'è su questo terreno si è balbettato qualcosa e poi ce se n'è fatta una ragione. Reinstallando nel format della provvisorietà e della vessazione, paro paro, le medesime logiche che orientano un po' a tutti livelli decisionali l'agire del sistema partito e del personale politico. 

Si sarebbe almeno potuto o dovuto articolare una testimonianza di denuncia più decisa e maggiormente congrua ad una risposta coerente con la natura dell'impasse e col danno al territorio. Ma, come abbiamo anticipato, cammin facendo si è abbozzato al copia-incolla delle claudicanze con cui le logiche “maggioritarie” prevalgono sull'etica della inclusività e della responsabilità comune. 

E anche quando “i campi larghi” si rivelano i campi delle cento pertiche, in cui anche per equilibri di rappresentanza equivalenti si inforca il punto morto, si inventano soluzioni da geometria variabile, in cui contano le logiche di potere. 

A danno, ovviamente, della mission principale che sarebbe la coesione civica e la ricerca di una visione comune. 

L'impasse del risultato delle urne del 18 dicembre deve aver, in controtendenza con certe declamatorie ispirate da logiche di bottega, suonato come un alert di disincentivo a reiterare quelle logiche. E come un endorsement ad invertire il senso di marcia. 

Alla prima seduta del nuovo Consiglio Provinciale, per l'omologa degli eletti e del loro formale insediamento, nonché per l'attribuzione delle deleghe, è avvenuto un fatto nuovo che appare di discontinuità rispetto sia alla situazione immediatamente pregressa sia alla situazione data troppo sbrigativamente per scontata (alias la reiterazione sic et simpliciter di una maggioranza risicatissima e di una minoranza quasi equivalente). 

Facendo saltare il banco di certezze non suffragate e presumibilmente corrette da un tardivo empito di resipiscenza (osiamo sperare in capo al senior partner del centrosinistra), il Presidente Signoroni (il cui mandato proseguirà ancora per un biennio) ha pronunciato un inatteso “Fermi tutti!”. Osiamo sperare che questo gesto declaratorio sia stato suggerito da una virtuosa elaborazione dell'inammissibilità di un intendimento opposto. 

Ma, a rendere ancor più chiaro il gesto di discontinuità, c'è quel “Ora dobbiamo lavorare insieme”.  

Un'esortazione quanto mai ineludibile, oltre che sul piano degli equilibri politici, anche e soprattutto per una circostanza, certamente non virtuosa, che vede non direttamente rappresentati i vertici dei Comuni più importanti e di tutti quelli Capocomprensorio. 

In assenza di chiari pronunciamenti dei “campi” non possiamo convenientemente stimare se l'esternazione presidenziale possa avere un seguito di consenso, armonizzazione e convergenza da parte delle sensibilità che orientano gli eletti. 

Noi ci speriamo.

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