Speranza, per quanto l’argomento fosse di per se stesso funesto, del tutto infondata. Il combinato disposto tra l’accanimento delle dinamiche meteorologiche e le conseguenze dell’insipienza umana ci avrebbe riservato, nell’arco di un mese, un filotto di calamità dalle conseguenze incalcolabili. Rimediabili solo su tempi lunghi; e con un rilevante dispendio di risorse pubbliche e private, soprattutto con un cambiamento radicale di mentalità.
Mentre sulle due prime condizioni opinione pubblica, media e politica sembrano concordi (soprattutto, nell’attivazione della filiera della stima di danni ipertrofici e nella rivendicazione di provvidenze), sulla terza appare veramente problematico un impulso resipiscente.
La bulimia mediatica, d’altro lato, getta in pasto alla platea l’argomento del giorno e l’orizzonte dell’approfondimento, delle riflessioni e della delineazione dei propositi si trasforma in un ring, in cui le posizioni sono prima di tutto (a discarico di responsabilità) antagonistiche e, tendenzialmente, votate in senso contrario alla coesione, alla lettura della realtà e, di conseguenza, alla programmazione degli interventi.
Neanche uno che ammetta che, effettive mutazioni climatiche (ma nel corso dei millenni non monitorati dalla preistoria quante volte saranno avvenute?) ed eccezionali concentrazioni di fenomeni a parte, i comportamenti, individuali e comunitari, pregressi ed attuali, siano, prevalentemente, alla base della moltiplicazione delle conseguenze delle avversità meteorologiche.
Contro ogni logica ed evidenza, si va di scaricabarile delle responsabilità e di rivendicazionismo delle provvidenze e degli indennizzi.
È stato così per ogni criticità, affrontata solo sul piano della spesa, imponente e costante, ma irrilevante dal punto di vista della modifica strutturale delle condizioni. Poi, cedendo talvolta all’impulso di fare qualche regola o progetto (sistematicamente disattesi), tutto torna come prima.
Si è fatta l’ammuina, occasionata dalla pesantezza della congiuntura e dalla tragicità della perdita di vite umane; ma, poi, anche grazie alla dilatazione dei centri decisionali (e di spesa) favoriti dalla bella idea delle funzioni concorrenti, ognuno per sé e dio per tutti.
Le Regioni erano state pensate come completamento della repubblica delle autonomie, in grado di avvicinare alla realtà territoriale i poteri politico-istituzionali (così migliorando il livello di consapevolezza delle problematiche e l’efficienza degli interventi).
Per eterogenesi dei fini, le Regioni, tradendo la missione di istituzione prevalentemente legislativa ed integrando l’elefantiasi ed il centralismo burocratici dello Stato, hanno totalmente disatteso lo spirito riformistico, fagocitato colossali risorse pubbliche, distorto un armonico equilibrio di competenze tra i livelli istituzionali.
Siamo ricorsi, nella nostra analisi, ad un politically correct, che la lite da ringhiera tra i “governatori” (sic!) ed il premier (fuori sede perché impegnato nell’accudimento della specie più pacifica dei mammiferi, i coala, in procinto di modificare, per queste intrusioni, tale indole) non meriterebbe per l’irresponsabilità etica e la bassezza del linguaggio della “testimonianza”.
Ma ormai, poiché tutto si gioca sul decadimento cognitivo e sulla smemoratezza dei sudditi, si va a colpo sicuro! Usque tandem? Mah! Effettivamente, siamo già molto oltre la proverbiale canna del gas.
Se dal quinto continente il premier rottamatore e castigatore, fosse un po’ più circostanziato nei progetti (ci riferiamo a quelle reticenti linee da new deal), potrebbe anche capitare di centrare propositi sensati.
Dopo il ’29, il grande Roosvelt fece girare la ruota dell’economia con un vasto programma di opere infrastrutturali, capaci di immettere moneta ed investimenti pubblici e privati nei meccanismi dell’economia. Ci sarà stata una ragione, se a missione compiuta, la dottrina economica per oltre ottant’anni non ha mai staccato lo sguardo dalla teoria roosveltiana, applicata ai cicli recessivi invertibili con politiche infrastrutturali capaci di porre rimedio alle calamità ed alle criticità naturali!
Ma si sa, l’unica ruota ben conosciuta dal premier non sembra essere quella dell’economia, bensì quella della fortuna, di Mike Bomgiorno.
Facendo i debiti scongiuri per un deprecabile uso distorto, potremmo anche ricorrere alle vulgate di supporto alle teorie keynesiane; secondo cui, pur di far girare la ruota economica, non sarebbe disdicevole scavare inutilmente buche e poi ricoprirle.
Gruviera com’è, ormai, la dissestata morfologia dello Stivale, non ci sarebbe bisogno che ne venissero scavate altre. Basterebbe, andando con molta approssimazione, semplicemente tapparle e fare in modo che, per incuria ed irresponsabilità, non si riaprissero.
Uscendo dal maccheronico, suggeriremmo a Renzi, magari anche solo dietro l’impulso di partecipare al remake quizzaiolo (perché sulla determinazione di ben governare cominciano a vacillare le nostre speranze) di informarsi sui precedenti. Tipo, la Tennessee Valley Authority (TVA): una società federale USA, costituita (e fatta egregiamente funzionare) nel 1933 per favorire la navigazione interna, per controllare il regime delle acque, per produrre energia, ed, in generale, per invertire il ciclo economico nella Valle del Tennessee, diventato pesantemente recessivo a seguito della Grande Depressione. La Valle del Tennessee comprendeva, oltre che l’omonimo Stato, l’Alabama, il Mississippi, il Kentucky, e, parzialmente, la Georgia, il North Carolina e la Virginia.
Non sappiamo se la notizia metterà in ambasce il nostro giovane premier, approdato, nonostante la tessera del PSE in tasca, alle dottrine neo-monetaristiche, ma si trattò di un grande successo. Di un progetto, che postulava il primo significativo caso di economia pianificata in un sistema liberista. Per di più, teorizzato da un movimento politico, il Partito Democratico (guarda caso!) non iscritto alla famiglia socialista europea, ma testimone di un riformismo molto più fervido di quello de noantri.
L’idea, a dispetto delle vulgate propagandistiche di leaders dalle visioni incompatibili, sarebbe stata, nonostante gli anatemi giudo-demo-plutocratici, letteralmente imitata dal puzzone fascista nell’agro-pontino.
Altresì, ricordiamo al leader democrat che, alla fine degli anni ottanta (del ventesimo secolo), il Parlamento licenziò il piano nazionale dei trasporti, che incorporava anche la navigazione interna e, con essa, l’idea di bacinizzazione del Grande Fiume.
Non se ne sarebbe fatto niente. Né a livello di governo centrale (nonostante i favorevoli indirizzi comunitari) né, inopinatamente, ai livelli istituzionali immediatamente inferiori; dove le Regioni avrebbero dato prova di una coriacea neghittosità.
Che si sarebbe manifestata stornando i fondi già stanziati, non utilizzando quelli comunitari ed incorporando (nel caso della Lombardia) il patrimonio di quegli enti istituiti per la navigazione e la regimazione-bacinizzazione del Po (considerati inutili).
Ciò premesso le sguaiate polemiche in corso, occasionate dall’emergenza idrogeologica, ci sembrano insopportabili; non foss’altro perché non porteranno a nulla di fecondo.
A ciò pensavo qualche ora fa, quando percorrendo il Ponte Giuseppe Verdi, ho avuto piena consapevolezza dei potenziali pericoli della “piena”, che raccoglie tutto quanto avviene a monte (ma non di meno mette a repentaglio la popolazione, il territorio, le attività economiche e civili).
Sempre riferendomi alla saggezza guareschiana (di casa da queste parti), mi è venuto fatalisticamente di considerare che, sotto tale punto di vista, i padani non possono che accettare l’ineluttabilità delle periodiche escursioni del grande fiume.
Ciò che dovevano fare (il buon senso, la lungimiranza, l’accortezza, il rispetto del territorio) l’hanno fatto nei secoli. Quando l’Italia è diventata una grande nazione, e si è potuta permettere rilevanti opere pubbliche, le bizze del Po (non eliminabili se non, come abbiamo detto, con un auspicabile new deal del terzo millennio) sono state efficacemente fronteggiate. Con l’intervento degli organi pubblici; ma, soprattutto, con la condivisione di coloro che vi erano direttamente coinvolti, come di coloro che venivano e vengono mossi solo dall’etica della responsabilità civile e dall’afflato comunitario.
È stato così nel 1951, nel 1994, nel 2000 (tanto per citare i momenti più significativi).
Arrivato sull’argine di Isola Pescatori ho avuto conferma del perché questo modello di feconda coesione ha retto nei secoli; all’insulto della forza della natura, come ai guasti recati dall’insipienza dei superiori livelli istituzionali!
C’è un’Italia migliore di quanto si percepisce dalla sgangherata quotidianità di un Paese che non diventa mai adulto dal punto di vista della coscienza civile.
La fanno migliore il giovane Sindaco di quel piccolo Comune, dalla Protezione Civile, dai volontari e da qualche decina di giovani militari del Genio; alla cui esperta dedizione si affida una popolazione seriamente minacciata dai ricorrenti pericoli di esondazione forieri di guai biblici.
Come loro, si muovono tutte le comunità rivierasche, da sempre abituate ad autogestire le proprie emergenze più che ad aspettare miracolosi quanto improbabili interventi superiori.
Per onorare questa coesione civile pubblichiamo, per gentile concessione dell’Editore Persico, ampi stralci de La grande paura, un’importante testimonianza della piena del 2000. È dedicato a “tutti coloro che hanno ascoltato la terribile voce del fiume e continuano ad amarlo”
E.V.
Foto delle Colonie Padane di Cremona e di Isola Pescaroli
In allegato anche alcune pagine del libro " La Grande Paura" che ricorda l'alluvione del 2000 a Stagno Lombardo