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Col cerino in mano

...le polveri erano state accese, in sede locale, da un inopinato pronunciamento del prete di Gallignano

  10/05/2020

Di Enrico Vidali

Col+cerino+in+mano

Fa sentire un po' maramaldi l'incomprimibile impulso a ritornarci su. Anche se è passato solo qualche giorno, una scansione temporale che, per gli standards mediatici correnti, fa sembrare un'eternità suscettibile di consegnare il fatto, tamquam non esset, al dimenticatoio. Anche se il retroterra di quell'acuzie “dialettica” sembrerebbero, alla luce di quanto si sta velocemente (e negativamente) evolvendo, appartenere ad una fattispecie bagatellare. Invece, noi ci torniamo su non certamente per tigna, ma perché la vicenda, per la sua gravità e per gli insegnamenti che se ne debbono trarre, non va archiviata.  Si sarà agevolmente capito che ci riferiamo alla performance del prete di Gallignano, che, nelle more degli smarrimenti innescati dall'immane tragedia pandemica e del modo più acconcio a rapportarvi l'azione pubblica e i comportamenti collettivi, ha ritenuto conveniente fornire un proprio “contributo”.

Oggi, con le coscienze ancora obnubilate dalla percezione di un flagello, ben lontano dalla conclusione, e dall'incerta, altalenante coesione comunitaria (tutt'altro che scontata), siamo qui a raccontarci, se non proprio lo scampato pericolo, almeno l'impressione che, toccando ferro, la risposta del popolo italiano, a parte qualche iniziale e, prevedibile, sacca di resistenza, si è rivelata, per quanto si riferisce alla "fase 1", inaspettatamente virtuosa.

Detto dell'incontenibilità delle pulsioni ludico-motorie e ludo-patiche, dell'irrinunciabilità al vagabondaggio ed a riti delle movide e dell'happy hours, che hanno riguardato aliquote non esattamente trascurabili ma limitate, si può formulare una valutazione sorprendentemente non severa nei confronti della risposta di un popolo, per il quale è latente l'aforisma di Winston Churchill (secondo cui va ad assistere alle partite di calcio come se andasse in guerra e va in guerra come se fosse diretto ad un incontro calcistico).

La premessa suggerisce che la (non sempre) vituperata comunità nazionale ha raggiunto e, per alcuni aspetti, superato gli standards di comportamenti civili, sin qui prerogativa riconosciuta dei paesi-modello.

Bisognerebbe, anche per evitare di impiccarci ad uno sciovinismo, di maniera e dalla tenuta imprevedibile, aggiungere che l'armonizzazione e la convergenza a comportamenti individuali e collettivi non è stata esattamente un pranzo di gala.

Al netto della ricaduta della solita irrefrenabile tentazione alla divaricazione (generalmente orientata da sempre poco nobili impulsi) tra le diverse catene di comando istituzionale e tra le forze politiche (mai dome nella permanente tenzone elettorale che fa strame dei superiori interessi comunitari), il percorso era tutt'altro che scontato. Dal suo abbrivio, caratterizzato, come si ricorderà (visto che è cosa di poco più di un mese fa), dai segnali preoccupanti provenienti dalle carceri, in cui risultavano evidenti le tracce dell'influenza esterna dei famigliari, ma, soprattutto, della malavita e dei circoli insurrezionalisti.

In generale, le complicazioni dell'imperativo a convergere collettivamente su percorsi comportamentali senza alternative, avrebbero potuto riflettere il timore delle ripercussioni socio-economiche  e del mutamento degli stili di vita, in contesti contraddistinti da culture non esattamente rinunciatarie.

Ebbene, questa realistica analisi apparirebbe in parte smentita, più che a livello delle insondabili introspezioni soggettive, dal factcheck della "fase 1".

Nessuno può giurare sulla continuità di un comportamento, che definire virtuoso sarebbe eccessivo, ma che indubbiamente ha riservato riscontri inaspettati. Forse perché influenzati da una metabolizzazione a rilascio lento di una  narrazione a bassa intensità sulla vera entità del guaio e o forse ancor più dalla scaramantica aspettativa di uscirne in tempi non biblici e pagandone poco dazio.

Se, invece, per condizioni allo stato non esattamente configurabili (ma non imponderabili), la "fase 1" fosse destinata a rivelarsi, tra qualche mese, solo un début e le contromisure pretendessero la messa in campo di ben altre batterie scientifiche, socioeconomiche e comportamentali, la questione del coinvolgimento della popolazione si prospetterebbe necessariamente sotto angolature più impegnative.

Fino ad ora la situazione è stata tenuta sotto controllo dal combinato disposto rappresentato da una accorta comunicazione della catena di comando e, soprattutto, dall'esemplare dedizione degli operatori medici e paramedici e dal volontariato.

Nelle more dell'oscillazione del piano probabilistico di una fuoruscita ravvicinata dalla fase acuta del problema o, diononvoglia, di un suo avvitamento, sarebbe preferibile acconciarsi sul versante di una escalation dei comportamenti etici, collettivi ed individuali, di ben altro spessore. Come, d'altro lato, sta dimostrando il fenomeno del "tana liberi tutti", scatenato dalla parziale apertura dell'8 maggio; usato come passaggio propiziatorio e anticipatore della spallata che è percepita la fatidica data del 15 maggio. Immaginata, ormai dai più e a dispetto della permanenza del quadro quo ante, come totale asfaltatura dei vincoli e delle limitazioni imposte dalla natura del guaio.

La nostra conformazione, prevalentemente individualista, non trae vantaggio, ad esempio, dalle dottrine, come il confucianesimo, che fanno dell'etica collettiva un caposaldo capace di saldare dottrina religiosa e ordinamento civile.

Claudio Magris, citando un racconto di Borges, dice: “Cambierà il mondo, ma non cambierò io”, fingendo di ignorare che il peggio e il tragico non sono dietro di noi.

Osserva oggi sul Corsera Aldo Cazzullo: "i tedeschi si stanno comportando da tedeschi osservando scrupolosamente le ferree disposizioni del governo". Risultato? La Germania ha meno di un quinto dei morti dell'Italia, Francia, Spagna, Regno Unito.

Nella mappatura delle potenziali sacche di refrattarietà si è andata distinguendo la risposta della Chiesa Cattolica.

Sia chiaro, noi ben comprendiamo il bisogno di trascendenza e di spiritualità avvertito, specialmente in momenti drammatici come questo che stiamo vivendo, da ampie fasce di popolazione.

Ma rivendichiamo, anche perché il mutamento degli stili relazionali non implica nessuna rinuncia alla libertà di culto, il pieno assoggettamento della pratica religiosa alle rimodulazioni imposte dall'imperativo di controllare la pandemia e di bloccare l'avvitamento dei contagi. 

Figurarsi, poi, se questi spicchi di riconquista di spazi riguardano l'esercizio comunitario della spiritualità! Noi non mettiamo sullo stesso piano sgambate, ore felici, spettacoli e quant'altro di ludico, e la intangibile  libertà religiosa (di qualsiasi culto) 

Ci pare, però, doveroso affermare che questa piena libertà debba avvenire entro modalità che non siano in contrasto con l'ordinamento civile e la salvaguardia dei cittadini.

Forse il ragionamento, al di là delle nostre reali intenzioni, si allargherebbe a dismisura.

Ma è impossibile rinunciare a cogliere due input nelle potenziali frizioni tra l'ordinamento civile e quello cattolico: l'allentamento (forse anche il cedimento) dell'appealing religioso sulle coscienze individuali e collettive, da un lato, e, dall'altro, l'evidente obsolescenza di una gerarchia ormai frantumata nella sua graniticità monocratica.

Il prevedibile portato di questa tragedia pandemica consegnerà anche lo smottamento di alcuni primari ancoraggi della tradizionale intelaiatura comunitaria.

È, infatti, già avvertibile la stanchezza, nelle percezioni e forse anche nelle consapevolezze, della centralità dei convincimenti e della pratica religiosa. Che era già iniziato da tempo come conseguenza dell'affermarsi della secolarizzazione e dell'agnosticismo, specie tra le nuove generazione. 

Ma che ha sicuramente preso velocità dalle incognite e dagli smarrimenti indotti dalla devastante pandemia; fino a rendere quasi del tutto obsolete le tradizionali narrazioni della Chiesa Cattolica.

Siamo diventati, come sostiene Franco Garelli nell'appena uscito “Gente di poca fede”, “un popolo incerto su Dio ma ricco di sentimenti religiosi, disorientato ed ondivago nelle sue valutazioni etiche e morali”.

Più sopra ci riferiamo all'obsolescenza della dottrina cattolica, come perno centrale dell'aggregato spirituale e civile; ma dovremmo anche far cenno alla correlata perdita di ruolo sul controllo delle coscienze.

Diciamolo francamente: per come è messa la Chiesa Cattolica (che fin qui ha meglio tenuto in termini di metabolizzazione delle conseguenze della secolarizzazione rispetto alle chiese cristiane riformate) non può rinunciare né ai potenziali né all'intensità dell'armamentario fatto di dogmatismo, di infallibilità, di liturgie comunitarie.

Pena l'irreversibile periferizzazione della mission sul piano spirituale, che seguirebbe e/o andrebbe di pari passo con il tracollo del collateralismo civile.

La Chiesa ha ben compreso che le tradizionali ricette esplicative di così immani tragedie, dispensate per secoli, non reggerebbero l'impatto con un'opinione acculturatasi nei secoli recenti.

Ma sembra aver stimato le controindicazioni derivanti non già da una discontinuità definitiva, ma semplicemente da una rarefazione della comunitaria pratica religiosa. Che, al di là degli allentamenti cautelativi di legge, potrebbe essere indotta da circospezioni comportamentali, e che si rivelerebbe, in tempi lunghi, esiziale per la tenuta della testimonianza spirituale e, per ricaduta, del sistema di condizionamento dell'ordinamento civile.

I settori meno accorti sembrano fissare il mantenimento delle posizioni nel perimetro dell'esercizio formale del culto; che ha sicuramente un potere aggregativo, ma che tutt'al più serve a rinviare la resa dei conti.

L'assoggettamento ad ineludibili quanto contingenti restrizioni sta inducendo alcuni circoli ecclesiastici a protestare una sorta di lesa maestà.

Che, pur manifestando in alcuni casi la fattispecie dell'insubordinazione alla prevalenza delle prerogative costituzionali, sembra più che altro diretta a conseguire un "serrate le file" sul terreno oscurantista.

Se si eccettua la sempre chiara e coerente assertività (almeno sul punto) di Papa Francesco “Preghiamo il Signore, perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell'obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni”, in generale, la gerarchia cattolica esce ammaccata, in termine di autorevolezza, dalla vicenda delle contromisure comportamentali imposte dalla pandemia.

Solo una tardiva e resipiscente ricucitura ha incerottato, senza però cancellarla del tutto, una frattura che è stata manifesta tra le posizioni Vaticane e la sempre più marcata dissidenze dei settori conservatori, annidati nella CEI. Il cui Presidente era arrivato ad affermare una sorta di alzamiento “I vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l'esercizio della libertà di culto“, salvo ripiegare, di fronte alla consapevolezza dell'enormità o del contrordine papale, in un più potabile quanto imbarazzante esternazione di “gratitudine nei confronti del premier Conte per il dialogo continuo e proficuo e la condivisione delle linee di un accordo che consentirà di riprendere appena possibile anche le messe con i fedeli”.

Questa evidente contrapposizione interna nelle alte sfere ha avuto modo di riverberarsi anche nella periferia.

I Vescovi delle due Diocesi della provincia, che, all'inizio non erano sembrati collimanti, sono approdati ad una più responsabile testimonianza “La priorità è evitare che la pandemia cresca di nuovo”. Alla nota congiunta, cui, tanto per usare un eufemismo, non deve essere estraneo l'ordine di servizio della CEI, ispirato, se non proprio dallo Spirito Santo, dalla constatazione di essere stati in precedenza, abbondantemente sopra le righe; nonché la tardiva ma realistica consapevolezza del pericolo di scatenare, insieme ad un devastante indotto di propagazione del virus, anche una incontrollabile deriva di complicazione dei rapporti tra Stato e Chiesa.

Tutto è bene quel che finisce bene. Del che è segnalatore l'endorsement del Cardinal Bassetti, che ha espresso “gratitudine nei confronti del premier Conte per il dialogo continuo e proficuo e la condivisione delle linee di un accordo che consentirà di riprendere appena possibile anche le messe con i fedeli”.

Ma, prima di questo approdo resipiscente (che auspichiamo definitivo), le polveri erano state accese, in sede locale, da un inopinato pronunciamento del prete di Gallignano, una frazione dell'importante borgo di Soncino.

L'intemerata, che, se ha risparmiato l'idea veterotestamentaria del male come punizione divina, ha coinvolto la riproposizione di un campionario dottrinale manifestamente oscurantista, si è collocata assolutamente al di fuori di una testimonianza cattolica generalmente consapevole dei tempi e della gravità della congiuntura.

Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, ben noto per la sua larghezza di orizzonti, in questi giorni, suggeriva: “Dio non vuole la sofferenza umana e, se la volesse, sarebbe un Dio perverso, da rifiutare e condannare”.

I titoli di coda lo consegnano inesorabilmente alla percezione di un comportamento irresponsabile e, per certi versi, illegale; nonché di una testimonianza in negativo, sul piano sia etico sia congruo al ruolo.

Del che si ha prova manifesta nella generata presa di distanza da parte sia dei fedeli che, più in generale, dell'opinione pubblica.

Come dimostra, a campione, la lettera indirizzata al quotidiano provinciale di Silvano Bonali (che riportiamo in allegato integralmente) 

E come ulteriormente induce a riflettere in tal senso un ulteriore contributo: “Il Signore apprezza di più una preghiera fatta con il cuore che magari la partecipazione alla messa per farsi vedere con la pelliccia e i gioielli o il vestito bello con cravatta di seta”

E, dato che ci siamo, suggeriamo l'idea che peggio del buso di questa caduta di stile e di responsabilità c'è stato il taccone della riconsacrazione del tempio violato dall'intervento degli agenti, chiamati a fare null'altro che il loro dovere.

L'appello, compiacente se non addirittura ruffiano, ad un gesto di buon cuore a favore dei meno fortunati non è che la plastica evidenza della consapevolezza della scomoda condizione di essere stato l'ultimo detentore del proverbiale cerino.

Tali gesti sono, come dimostra la straordinaria raccolta di fondi a favore della sanità del territorio, nel dna della nostra popolazione, praticante o laica che sia.

Semmai suscita fastidio che, in momenti così straordinariamente difficili, l'appello al buon cuore venga, ad usum delphini, agitato dal parroco di una gerarchia ecclesiale che introita ogni anno dallo Stato Italiano il controvalore dell'8 per mille pari ad un miliardo. E che recentemente ha compiuto a Londra un investimento speculativo pari a 600 milioni di euro, attinti dall'Obolo di S. Pietro.

E non possiamo non chiudere questa riflessione imbarazzante con un incrocio di ben altra freschezza con il saluto della portavoce dei Samaritani arrivati in soccorso all'ospedale di Cremona: “Siamo grati a Dio che ci ha concesso di venire qui ad aiutarvi…Quando noi rispondiamo ad una chiamata come questa, lo facciamo per amare.”

Signor  direttore,

sono sempre più stupito,  da semplice cittadino,  per quanto leggo sul suo giornale di oggi in merito ai fatti del parroco di  Gallignano.

Stupito che Padre Flavio Mazzata che considera sprezzante il comportamento dei carabinieri i quali semplicemente  svolgevano il loro lavoro; in presenza di palese violazione dovevano intervenire. 

Giustifica don Lino, ottimo prete ed ottima persona, che in barba alla legge celebrava in presenza di 14 persone sapendo che violava le norme, in barba anche dell'esempio del papa e del vescovo.

Don Lino, come tanti anziani, pensa di essere autorizzato ad agire come meglio crede; si sa che non era la prima volta che celebrava in presenza di fedeli e nessuno lo fa notare. Per chi dice che ci voleva comprensione  si legga la sua risposta al signor Vallinoto.

Spero tanto, Padre Mazzata, che  in Africa insegni ai suoi fedeli anche di rispettare, non valutare, le leggi dello stato.

E che dire della signora Emanuela Ripa di Meana?   I supermercati sono aperti per necessità e comunque sottoposti a una serie di regole, dai termo scanner al controllo dei flussi per garantire la sicurezza. Pregare invece si può in ogni posto ed ogni dove. Immagino che se le chiese potessero garantire la stessa sicurezza nessuno si opporrebbe alla loro apertura.

E il signor Pedrini che se la prende con lo stato arrogante? Arrogante perché fa rispettare le leggi? 

Che dire poi dell'affermazione che Don Lino doveva “reggere le comprensibili pressioni dei congiunti”?  Suvvia tutti sapevano che stavano violando le disposizioni, Don Lino compreso,  quindi tutti dovevano aspettarsi una rigorosa risposta e non comprensione:  il rispetto si conquista rispettando la comunità.

Grazie per la ospitalità.

Silvano Bonali

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