…avrebbe concluso la Sora Lella, nonna cinematografica di Mimmo. Leggendo l'edizione in articulo mortis. di fine dicembre 2017 dicembre, che titolava “Vita Cattolica, da cento anni fedele ai lettori e al Vangelo”. Infatti, senza neanche un filo di vergogna, il 21 sarebbe uscita (ma sempre in omaggio alla fedeltà ai lettori e al Vangelo) l'ultima edizione.
Questa scelta, che prima di essere editoriale costituiva un cambio di passo etico-morale, avrebbe fornito un contributo (considerando la fonte) autorevole alla rarefazione dell'offerta di informazione e di approfondimento in capo all'editoria tradizionale.
Non casualmente, qualche settimana appresso, avremmo scritto: “Mancherà questa voce spenta-
Anche per questo modo salutare di dirsele e di suscitare riflessioni, mancherà, nei contesti non esattamente esaltanti ed edificanti dell'era del digitale, la funzione della informazione/formazione “analogica”; di cui, abbiamo ripetutamente detto, La Vita Cattolica è stata per lungo tempo apprezzata protagonista (anche se di parte).”
Ovviamente, nulla, specialmente di questi tempi caratterizzati da rapidi e profondi stravolgimenti, può essere considerato immutabile. Anche per ciò che attiene alla strumentazione terrena dei Kombinat spirituali per eccellenza.
Ma, insomma, est modus in rebus! Si celebravano i 101 di un onorato servizio e, contestualmente (e molto ipocritamente) se ne taceva (con franchezza, come sarebbe stato lecito attendersi da una fonte così autorevole!) lo sbocco finale ed irreversibile.
Si elogiavano i trentuno anni e sette mesi della direzione di Vincenzo Rini, che aveva fatto di Vita Cattolica un giornale rispettabile, non clericale, ma ecclesiale e locale in senso pieno. E contemporaneamente, in omaggio al cambiamento dei tempi (soprattutto, nel senso del processo di omologazione alle linee guida del nuovo Pontificato) si regolavano conti pregressi e si assestava, innanzitutto, un clamoroso ed inspiegabile gesto destruens, dal valere, come alcuni altri a venire, simbolico-identificativo del cambio di passo (del nuovo titolare della storica cathedra).
Le nuove strategie comunicative, funzionali ai cambi di passo, puntano molto sull'effetto annuncio. E' il caso della “rottamazione”. Che viene enunciata per moltiplicarne l'effetto. E' quanto sta avvenendo nella Chiesa col nuovo papato che all'enunciazione di snodi, inaspettati e di portata non certamente trascurabile, fa seguire profondi aggiustamenti nei gesti di valenza simbolica, nello stile dei comportamenti rivolti all'esterno, nella filiera dei meccanismi interni. Dai massimi vertici di governo, alle strutture intermedie, alla ramificazione periferica del ministero ecclesiale.
Le prime battute di questa strategia rimandano, per le loro modalità in contrasto con i classici piedi di piombo, a quel certo clangore con cui il papa gesuita (mai ascendenza è apparsa così discrepante con il gesto insistito) sta dando corpo ad uno spoil system (a 360° e senza molti esitazioni). Astraendo dalla tutto sommato marginalità del turn over che riguarda il livello basico parrocchiale, il cambiamento ha riguardato (come si è potuto constatare nel nostro territorio) soprattutto il livello intermedio delle sedi vescovili. Che sta avvenendo contestualmente al raggiungimento dei canonici 75 anni (di età) ed attraverso il passaggio del testimone a successori dall'anagrafe e dal cursus inconsueti per gli standards tradizionali. Insomma, si ha l'impressione che il Papa venuto dal Sud del mondo stia attuando una rottamazione a vasto raggio.
Avrà le sue ragioni che a noi francamente poco importa approfondire. Per quanto non ci sfugga il convincimento che tale nuova impronta tenda ad ottimizzare, attraverso una vasta operazione sulla struttura interna, i risultati di un pontificato significativamente discontinuo rispetto al passato.
Avremmo anche potuto farci, come qualcuno discretamente osservò, i fatti nostri, che in teoria non dovrebbero includere “coccodrilli” per una voce (teoricamente) avversaria.
Ma anche, consapevoli di una siffatta reazione, ritenevamo doveroso non girare le spalle ed affrontare, invece, una questione che era ed é di interesse comunitario. Senza acrimonia, bensì nella consapevolezza che su temi come questo (dello sterminio della stampa), non sono consentite aporie.
Della crisi della democrazia fa parte anche la difficoltà dei giornali e dei media tradizionali. Chi combatte la buona battaglia dell'informazione rende un servizio alla buona società ed alla democrazia.
Ovviamente, non tutti la pensano come noi (e ne hanno tutto il diritto). Ad esempio, Grillo ai cronisti in attesa di intervistarlo chiese (e, per quanto accreditato come ravveduto, ciò costituirebbe per la sinistra riformista un inappellabile motivo di rifiuto di qualsiasi alleanza): “Cosa siete venuti a fare? Ormai non contate più niente. C'è la rete. Quando tornerete in redazione non troverete più le scrivanie. Il tuo giornale ha chiuso, il tuo sta chiudendo, il tuo chiuderà…”
Di contro il non da noi amatissimo Severgnini denunciava: “si sta perdendo la percezione sociale che un giornale, con la gerarchia di notizie e il suo menù quotidiano, sia indispensabile alla democrazia”.
A segnalare il livello di guardia raggiunto dalla selezione darwiniana delle modalità mediatiche, in cui balzano alla piena evidenza la soccombenza dell'informazione tradizionale ed il predominio della nuova comunicazione, resta il fatto che in Italia la circolazione dei quotidiani si è dimezzata negli ultimi dieci anni: da 5,4 milioni di copie a 2,6 al giorno.
Non vorremmo fare la fine dei luddisti, che, incombente la prima rivoluzione industriale, tentarono di contrastare l'avanzata tecnologica. Certamente ci si può informare anche senza leggere le notizie della carta stampata!
Delle economie di scala e delle opportunità relazionali derivanti dalla facilità e dall'immediatezza telematica ed in sé eccezionalmente favorevoli e feconde derivanti dalle modalità concorrenti on line non mette (se non altro per scansare l'identificazione nella fattispecie luddista) conto parlare.
Ma, a distanza di oltre un quarto di secolo dall'esordio di massa del web, sarebbe del tutto incongruo non valutarne anche le controindicazioni L'articolazione della cosiddetta civiltà del digitale è fatta di tecnico/informatica, di speech, di forma mentis. Il cui combinato ha fortemente influenzato l'inarrestabile scadimento delle relazioni civili ed, in conseguenza degli sbandamenti dell'opinione pubblica, l'acutizzarsi della malattia della politica e della democrazia.
Ha, secondo noi, ragione Enrico Mentana a battezzare come «webeti» i navigatori senza bussola e senza cervello, quelli che «sfornando dati fasulli, finte leggi, realtà controfattuali avvelenano i pozzi di Internet».
Il che non accredita la funzione dei giornali come unico e sicuro antidoto. Ma indubbiamente la loro desertificazione annulla una condizione quanto meno di potenziale confronto dialettico.
I pericoli incombenti di una tale deriva dovevano essere ben presenti nelle consapevolezze, se in sede di conclusioni del convegno celebrativo del centenario e nella relativa brochure si annotava “Questo è stato il ruolo di 100 anni di Vita Cattolica. Ma il futuro come sarà? Anzi, ci sarà un futuro?”.
Già ma nello stesso momento in cui il futuro veniva messo in dubbio, lo si annullava, almeno per quanto riguarda la storica testata diocesana. Un settimanale, nato, come abbiamo scritto due anni fa, per assicurare nell'Italia unificata un diritto di tribuna ai cattolici democratici, letteralmente scivolava via. Nell'inconsapevolezza, forse nell'indifferenza. Talmente marcate da configurare una reazione insperata in chi eventualmente avesse messo nel conto dei contesti favorevoli l'assenza di clamori.
D'altronde, siamo di fronte ad un protagonista che raramente si esprime con linguaggi e gesti sopra le righe. Evidentemente, in uno scenario caratterizzato, come si diceva, dall'indifferenza, come sarebbe stato realistico confidare nella possibilità di scalfire una decisione apparsa inappellabile?
A distanza di due anni, siamo oltre i titoli di coda. Con un episodio che, pur non cambiando di un etto la sostanza, proietta una luce sinistra sulla ratio e sullo stile dell'intera vicenda.
“Festos dies colere” obbliga la massima carta della religione monoteista.
Non azzardiamo gerarchie di priorità; ma indubbiamente il giorno della Natività rientra in tale declaratoria.
Per quanto la coincidenza non può in alcun modo essere ascritto ad un perfido calcolo, quanto è avvenuto a ridosso della celebrazione della Natività rappresenta una variante del modo di santificare la festa comandata.
Non per tutti, ça va sans dire; ma per Gigliola Reboani e per Dario Maffezzoni, gli ultimi due redattori de La Vita Cattolica, indubbiamente sì.
Apprendiamo da un social che entrambi hanno ricevuto, a ridosso della Notte Santa, una letterina. A parti invertite, si dovrebbe dire! Di solito, infatti, le letterine si indirizzano (per i più laici a Babbo Natale e a Gesù Bambino per i credenti di prima fila).
Stavolta la letterina è partita dai titolari della rappresentanza terrena della divinità.
Non che fosse un fulmine a ciel sereno o che, pur appartenendo all'ordine del previsto l'annuncio fosse caricato da qualche aggravio accessorio. Ma il gesto, oltre che destare sconcerto per il timing, interroga le coscienze.
Scrive sul suo profilo Gigliola Reboani: “Certo che ricevere la lettera di licenziamento il giorno della Vigilia di Natale…La stavo aspettando. Sapevo che doveva arrivare. Ma almeno avere la creanza di spedirla in modo che arrivi in un'altra data meno…simbolica e carica di significato cristiano. Auguri a chi un lavoro ce l'ha”.
Righe amare, che integrano un rimando sia sulla sensibilità da parte di un'entità che da 2000 anni campa sulla misericordia e sulla Notte Santa sia, più in generale, sulle ricadute umane e professionali di una stretta, che per quanto circoscritta localmente, coinvolge indubbiamente riflessione più vaste.
“Auguri a chi un lavoro ce l'ha”: una fattispecie occupazionale sempre più circoscritta. E, senza voler essere forieri di negativi presagi, destinata a bloccare qualsiasi sensata porta girevole.
La ratio del collocamento in mobilità esterna, che, per il contratto giornalisti non è dal punto di vista economico una sinecura, era correlata alla re immissione in altri corpi redazionali.
Al punto in cui siamo giunti (e la cosa riguarda non solo le testate locali) la mobilità in uscita coincide con una virtuale uscita dalla professione giornalistica.
Secondo chi scrive, con una perdita sostanziale della qualità dell'informazione e del sapere e con una significativa riduzione del bacino delle professioni intellettuali.
Certo che non dobbiamo tornare all'epoca in cui surrettiziamente gran parte degli organici redazionali venivano, attraverso fittizie cooperative di giornalisti o benefits di vario genere destinati alle corporation editoriali, posti a carico dell'erario.
Se, come è tornato ad aleggiare negli ultimi tempi, resta valido il monito alla consapevolezza del costo della democrazia riverberato nella composizione pletorica degli organi elettivi, allora perché non pensare che anche una corretta ed efficiente informazione possa prevedere un costo a carico della comunità?
La nostra solidarietà ai due giornalisti è fuori discussione, unitamente all'auspicio che, per quanto non facilissimo, possano trovare altre opportunità professionali.
Né, d'altro lato, si possono sottoporre al pubblico ludibrio le aziende giornalistiche, costrette dai tempi, a chiudere e a licenziare.
E con ciò ci riferiamo, ovviamente, anche all'editrice diocesana. Per la quale valgono esattamente le stesse prerogative di qualsiasi azienda.
Resta però il fatto che, a parità di prerogative, il dante causa per le testate diocesane è, come si intuisce, un po' particolare.
E' quella Chiesa di Francesco, che, pur predicando accoglienza senza limiti e controlli con un caleidoscopio di oneri, irrilevante per la cathedra ma pesante per lo Stato e raggiungendo l'azimut della demagogia nelle materie di giustizia sociale (alé, redditi e posti di lavoro garantiti per tutti!), dimostra di aver i propri piedi ben saldi nel realismo, quando il proprio corpo incrocia le problematiche dei comuni mortali. Ridimensionando organici e spese nel settore dell'assistenza sanitaria ed ospedaliera, in cui mantiene una sorta di golden share.
E che, soprattutto, incassa dallo Stato Italiano un miliardo di Euro tondo tondo (in aggiunta al getto di altre cospicue “guarentigie”).
Non volgiamo sostituirci a nessuno. Ma indubbiamente sconcerta l'idea che in tale ragguardevole cifra non possa trovare imputazione la spesa di sostegno delle iniziative editoriali.
D'altro lato, se attingi 600 milioni dall'Obolo di S. Pietro per investimenti speculativi nella Swinging London, poi cosa ti resta?
Andrebbe inoltre aggiunto che non tutte le iniziative editoriali del potere temporale cristiano se la passano male od attraversano le criticità determinate dai cambiamenti in corso.
Le “ammiraglie” del sistema editoriale di madre-chiesa, come L'Eco di Bergamo (il principale quotidiano del bergamasco, fondato nel 1880 e controllato in maggioranza dalla Curia), sembrano non toccate dalla riorganizzazione.
Per autodefinizione, “Il giornale dei bergamaschi rappresenta uno dei più riusciti esempi di successo tra le testate italiane: è infatti il quotidiano locale d'Italia con la più alta diffusione”. Sempre per autodefinizione: “per fortuna, non c'è solo la solita Italia dei disservizi e del pressapochismo, ma anche l'altra Italia, quella che funziona e primeggia”. Tale é il riconoscimento rivolto da François Martin, marketing director Graphics Solutions Business di Hewlett-Packard, ai vertici di Centro Stampa Quotidiani, nato dalla collaborazione tra la Sesaab, editrice de «L'Eco di Bergamo», e l'Editoriale Bresciana, che pubblica il «Giornale di Brescia». Il Csqfa da battistrada nel mondo per l'utilizzo della stampante T230 a getto d'inchiostro della Hp per la stampa di quotidiani e si avvarrà di un impianto fotovoltaico capace di erogare 158 kilowatt. Insomma, siamo di fronte ad un combinato tra aggregato finanziario/editoriale, reso simile ad un envencible armada dalla finanza bianca, ed eccellenza tecnologica nel campo della stampa (digitale).
Al CSQ ha chiesto asilo l'ex potenza finanziario/editoriale SEC, che a Cremona edita praticamente in posizione di monopolio, il quotidiano La Provincia. Ottenendo di stampare lì (con risultati di impaginazione non esattamente apprezzati dai lettori) un quotidiano, che, al di là delle criticità, intercetta ancora un discreto bacino (e per le cui fortune formuliamo sinceri voti).
Per concludere una riflessione a vasto raggio, su cui torneremo, confidiamo che qualche giorno fa ci è corso un brivido nella schiena, mentre leggevamo che il Sindaco di un piccolo Comune del Territorio si appellava, per impedire la chiusura della UTIN ospedaliera, alla autorevole azione di Ghota istituzionale (in cui includeva anche S.E. Monsignor Vescovo).
Forse andrebbe spiegato al generoso primo cittadino che, innanzitutto, S.E. (anche se non direttamente) appartiene ad un complesso di interessi che, anche nella fattispecie della soppressione del servizio cremonese, privilegiano ottiche, se non proprio contrapposte, sicuramente concorrenti (l'UTIN di Largo Priori chiude anche per dar spazio alla seconda UTIN bresciana, notoriamente appartenente alla spedalità privata delle Congregazioni).
D'altro lato, del sentiment vescovile in materia di opposizione alla tendenza di concentrazione della rete editoriale pare non esistano soverchie incertezze (come la vicenda di Vita Cattolica dimostra).
E, infine, è nota in materia di ottimizzazione per concentrazione la cultura del Vescovo anche sul versante della spoliazione del patrimonio storico-artistico del territorio, finalizzata alla maggior gloria del costituendo Museo Diocesano.
Sarebbe come se i proverbiali tacchini, alla vigilia della Festa del ringraziamento, si affidassero a…