Procede la nostra testimonianza di aggiornamento e di approfondimento attorno agli sviluppi di ciò che per immediatezza abbiamo definito “crisi Ucraina”. Una sineddoche che per quanto applicata all'epicentro di una vicenda, inaspettata nelle estensioni e nella tempistica, ma non nelle probabilità dietro l'angolo, che sta mettendo a nudo l'inceppamento di un equilibrio, erroneamente percepito come irreversibile (almeno dal punto di vista dell'innesco di contrasti di ordine bellico).
La “caduta del muro”, accompagnata dall'implosione della “cortina” e del modello sovietico, aveva fatto illudere circa la sostenibilità di un inestinguibile happy end di un secondo dopoguerra durato mezzo secolo, affidato ad una pax romana. Risolta non già come quella tramandata dalla storia, fatta di imposizioni del vincitore; bensì da quella specie di gentlemen agreement con cui il vincitore (l'Occidente) con fair play concedeva al competitor (tutto ciò che era stato dietro la “cortina”) l'onore delle armi. Senza che gli sconfitti si sentissero umiliati dal trionfo dei vincitori.
Dai primi di marzo appare manifesta la deflagrazione di un equilibrio (arrivato a fine corsa e non a nostra insaputa) che, con la suggestione di una narrazione capace di lusingare vaste platee del campo avverso, aveva “tenuto su le carte”.
Sulla base di due (non disinteressati) equivoci: una supposta equivalenza dei modelli prodotti dal terzo dopoguerra (fredda) e la presunzione di sovrapponibilità dei “liberismi”, quello economico e quello politico.
Equivalente, come abbiamo saputo in diretta (nel corso del mezzo secolo in cui la rossa bandiera sventolò sul Cremlino e, sia pure in un clima di “riluttanza” ma anche di conformismo, nei paesi satellite), non fu l'offerta sovietica. Per tenore di vita individuale, compensato, dicevano gli storyteller del Cremlino e i replicanti sovietizzati (dell'Est e dell'Ovest), dal soddisfacimento dei più importanti bisogni collettivi (istruzione e salute). Non equivalente il rating tecnologico, anche se oltre la “cortina” era investito quasi esclusivamente nell'apparato bellico.
Non equivalente neanche il livello di deterrenza militare. Anche se il temuto apparato nucleare, per il quale il modello sovietico si era svenato e collassato in una gara impari, bastò a tenere col fiato sospeso il mondo libero.
L'Occidente si accontentò della conversione economica in senso de collettivizzato, dell'adozione di modelli politico-istituzionali nominalmente “democratici”, di un'ammaina-bandiera di simboli e di nomenclature, che in realtà si sarebbe dimostrata ispirata da un percepibile gattopardismo.
Kombinat trasformati in entità private (ma ghermite dagli oligarchi trasformati in great businessmen). Appartchiki e oligarchi della nomenklatura totalitaria, interpreti fino alla fase agonica del “socialismo reale”, approdati (senza neanche l'incomodo di una decente discontinuità) all'interpretazione di un modello convertito ad una democrazia, in toto assimilabile alla “democratura” (neologismo recente cucito addosso ad un sistema politico contraddistinto da prerogative libearaldemocratiche formali, ma, in realtà, replicante nella sostanza i paradigmi del totalitarismo assoluto.
Quell' “insomma…vedetevela un po' voi in casa vostra”, purché attiviate un “sciogliete le righe” dei vincoli del “Patto di Varsavia” e allentiate la presa del contrasto militare, avrebbe costituito nei successivi trent'anni un “concept” suscettibile di orientare il vero core business subentrato alla caduta del muro nelle strategie del “mondo libero”.
Ispirato e accompagnato dalle suggestioni della globalizzazione e dall'aspettativa di incardinare sinergie economico-finanziarie con gli eredi di un sistema deflagrato, che avevano bisogno di tutto ad iniziare dal know how. Ma che sapevano di avere enormi giacimenti di materie prime e di poter contare, si sa mai, dell'intatto apparato militare ereditato dal sovietismo.
Più autorevolmente di noi Andrea Graziosi, estratto da La Lettura Corsera, osserva: “Il passato comunista…non c'è dubbio che ha un peso. Il regime nato dalla rivoluzione bolscevica è durato 74 anni e la sua eredità ha lasciato un segno. La classe dirigente di oggi viene tutta dall'URSS. Si tratta di un'élite provinciale ignorante perché tagliata furi per decenni dagli sviluppi della cultura internazionale, sensibile al richiamo nazionalista ed al mito della vittoria staliniana nella seconda guerra mondiale… Il crollo dello Stato dopo la fine dell'URSS ha peggiorato la situazione ed è stato facile per Putin, ma anche per tanti russi, incolpare di tutto l'influenza occidentale; mentre la Russia priva di un fisco funzionante e di un vero sistema bancario paga il fallimento di un'economia integralmente statizzata.”
Come dimostra la piega impressa nell'ultimo mese, ma tracciata dagli esordi del ciclo putiniano, la zucca non si sarebbe trasformata in una carrozza. Stesso oligarca despota (e senza neanche gli impicci di Soviet Supremo, di Presidium, di Politburo, di Comitato Centrale), stesse cinghie unidirezionali di trasmissione del potere, stesse, dobbiamo dirlo adesso, guide-line suscettibili di far coincidere le certezze e le pulsioni imperialiste dello zarismo, del socialismo reale, del post-sovietismo.
Perché, con buona pace di quel “grande Barnum” che sta diventando la deterrenza dei pacifisti, dei neutralisti “attivi” e (anche se raramente) dei conclamati filoputiniani, il “mostro” è figlio di questo combinato di circostanze, “domestiche” della transizione postcomunista, e di letture incongrue o “disimpegnate” da parte dell'establishment occidentale.
This is the question. Prenderne consapevolezza sia pure tardiva è (sarebbe) un buon abbrivio, rispetto ad un contesto che, nel volgere di un mese, ha capovolto l'ordine dei fattori di visioni manifestamente non aderenti allo stato dei fatti.
Torneremo nei prossimi giorni a focalizzare questioni, che, per ragione di sintesi, rinviamo a trattazioni particolareggiate.
Ne accenniamo solo uno, in conclusione.
Senza eccessi di drammatizzazione, riteniamo che la complessità della situazione richieda innanzitutto il dovere di testimoniare e di scrivere nella lingua della verità.
Soprattutto, quando fossimo chiamati a raccordare le percezioni dello scenario presente alle consapevolezze di quelli precedenti.
Churchill, severo quando non implacabile censore di certe cattive posture degli italiani, ammoniva a non andare allo stadio con lo stesso spirito con cui si va in guerra (e ovviamente alla guerra).
Perché, anche se molti portatori di apparati cognitivi incongrui e molte anime belle, non se ne sono accorti lo scenario generale che ci gira attorno è di guerra. Circoscritta geograficamente, per il momento. Ma con progressioni che non sono stimabili.
“La colpa é sempre degli americani!”. Già…il refrain di chi almeno ha il coraggio di non paludarsi nella narrazione ipocrita.
C'è, invece, un ineludibile dovere di franchezza. Che ha come incipit il rifiuto di traccheggio in materia di non schieramento o di schieramento sotto mentite spoglie.
Di cui, purtroppo, si avvertono più che segnali patenti dimostrazioni. Che mandano in emersione la nostra potenziale disfatta etico-morale.
Gli accadimenti delle ultime ore rettificano, in certo qual modo, esordi non esattamente congrui. Esce rinsaldato lo sfilacciato rapporto atlantico tra USA ed Europa. È un buon segnale. Fecondo per gli sviluppi (anche immediati) della situazione in atto nell'epicentro della crisi e, soprattutto, e, soprattutto, come “drizzone” di percorsi rivelatisi, ripetiamo, incongrui.
Di fronte a siffatti contesti un sistema istituzionale e civile come il nostro (che ha risalito le prime posizioni dei paesi “accreditati”) dovrebbe avvertire i medesimi impulsi che dimostrarono paesi come la Gran Bretagna, posti di fronte all'ineludibilità di grandi sfide.
Non sono ammesse dissolvenze: decidere da che parte stare.
Sembra, invece, dalle performances del Capitano del Papete e di alcuni pretoriani grillini, che tale impulso non sia avvertito. Lo “stringiamoci a coorte” appare un imperativo destinato ad essere prerogativa dei praticanti lo sport.
C'è, infine, una questione che, per quanto catalogata nel crogiuolo delle criticità del momento, sarebbe sbagliato mantenere nella marginalità delle priorità. Delle consapevolezze e delle decisioni conseguenti. Ci riferiamo alla questione dell'adeguamento (agli impegni internazionali, sottoscritti e sistematicamente inapplicati) della “spesa militare”. Detta così, la questione, da un lato, costituirebbe un insperato supporto a chi continua, nonostante l'evidenza del momento cruciale, a campare sugli allori del facile populismo e, dall'altro, sminuirebbe la testimonianza di una forte correzione di linea comportamentale.
Diciamolo francamente, al di là del valore dei combattenti espressi dal popolo (nelle trincee della prima guerra e ad El Alamein), l'apparato della difesa italiana non è invidiabile.
L'attuale spesa militare è già al 2% del PIL, ma è prevalentemente uno stipendificio. Da sperare che non se ne abbia bisogno. Non per il valore dei militari italiani professionalizzati, che hanno dimostrato in questi anni dedizione e senso di umanità. Però prevalentemente ad un ingaggio che prevedeva interposizione e peacekeeping. Raramente l'esercito italiana è stato impegnato in scenari come quelli in corso in Ucraina. La verità è che, anche secondo la valutazione dei nostri vertici militari, i nostri soldati non sono preparati a combattere. Non abbiamo contezza della congruità del nostro apparato tecnico; ma indubbiamente, all'insegna del moto “si vis pacem para (se non proprio bellum) defensiones.
Gli inaspettati sviluppi degli scenari orientali ammoniscono il nostro Paese a dismettere l'impulso, per quanto si riferisce alla difesa, ad essere a carico della NATO, degli USA, dei paesi alleati che diversamente da noi fanno responsabilmente la loro parte.
Il tema è reso centrale, non solo dalla criticità del momento; ma ha una permanente rilevanza come pilastro costituzionale (art. 11). La dismissione, prima psicologica che operativa, dell'adeguatezza della difesa nazionale, è frutto del convincimento che 80 anni di coesistenza (non sempre pacifica) non avrebbero avuto altri sviluppi che lo smantellamento degli apparati e, come abbiamo anticipato, dell'etica comunitaria. Non rinneghiamo niente dei nostri convincimenti in materia di pieno diritto all'obiezione. Ma, tra i tanti campanelli fatti suonare dalla crisi dell'Europa orientale, il primo riguarda lo stato dell'arte delle fonti etiche, degli investimenti civili, dell'adeguato impiego di apparati ed uomini nel dovere di difesa del, come si diceva un po' enfaticamente, sacro suolo (e di chi vi vive).
Necesse una campagna di mobilitazione delle coscienze e di riarmo, che prima di essere militare, è civile. Qualcuno riesce (sinceramente!) ad immaginare la reazione del modello Italia nello stesso scenario in cui si è venuta a trovare l'Ucraina?
L'inversione delle consapevolezze, che integra anche (assolutamente!) una profonda revisione della destinazione della spesa corrente e degli investimenti, deve cominciare da una profonda campagna di educazione civile. Che non può non prevedere qualche ritocco al rifiuto del servizio militare come uno delle contropartite basilari dell'appartenenza al consorzio civile nazionale. E se non proprio al macero, ma a profonda revisione va sottoposto l'aforisma “svuotare gli arsenali per riempire i granai”. Pertini, con questo suo suggestivo aforisma, è stato preso troppo in parola. Negli ultimi vent'anni si sono, nonostante le spending review (applicate, guarda caso, con tagli lineari, ai settori fondamentali dello Stato, come istruzione, sanità e, appunto, difesa) riempiti eccessivamente i “granai” dell'assistenzialismo.
Il mondo è cambiato, bisogna prenderne atto.
Nel presente focus Ucraina/9 a seguire postiamo:
*la cronaca della bellissima Serata FOR Ukraine al Teatro Filodrammatici
*Il progetto facciamo la pace* di Badalu
*gli editoriali “Un paese dis-unito” di Domenico Cacopardo e “Il Psi al fianco della resistenza ucraina” di Mauro Del Bue
*l'avvio della campagna di raccolta aiuti for Ukraine (nella nostra gallery)
Al teatro Filodrammatici
La Cremona dell'arte e della musica a fianco del popolo ucraino
Cast della Serata
le allieve di Nadiya Petrenko:
Ella Warcaba - soprano
Kseniia Overko - soprano
Beatrice Greggio - soprano
Tetiana Petriv - soprano
Maria Clara Maiztegui - soprano
Nadiya Petrenko - mezzosoprano
Tsakane Maswanganyi - soprano
Coralie Destrijcker - soprano
Ambrogio Maestri - baritono
Luca Bodini tenore
Coro Ponchelli-Vertova
Pianoforte e Direzione: Patrizia Bernelich
Diciamo che, al di là del coinvolgimento emotivo, la Serata ha espresso una notevole performance artistica. Molto apprezzata dai partecipanti. D'altro lato, questa constatazione non è una novità per Cremona, che da tempo beneficia dell'impegno della Società Filodrammatica Cremonese ed, in particolare, del talento di Nadyia Petrenko e della sua scuola di perfezionamento.
La Città è stata presente con due suoi Assessore, Maura Ruggeri e Rosita Viola, che hanno voluto indirizzare un saluto.
“Ringraziamo la Società Filodrammatica, l'Accademia di Canto Libero, il Coro Ponchielli-Vertova per aver organizzato la Serata di Solidarietà for Ukraine che abbiamo patrocinato come Comune, un riconoscimento non formale ma sentito così come la nostra partecipazione e presenza - dichiarano l'Assessore Ruggeri e Viola. Un concerto di qualità, coinvolgente per la scelta dei brani e con una finalità concreta, aiutare la popolazione ucraina colpita dalla guerra. Un aiuto che continua con l'asta di oggetti in programma in questi giorni”.
Si intensificano le iniziative dirette a raccogliere e ad inviare aiuti, in qualsiasi forma, al martoriato popolo ucraino, ai combattenti e alla cittadinanza impossibilitata ad abbandonare il proprio paese o costretta a scegliere la conduzione di profugo (che auspichiamo temporanea).
Nelle ultime ore il Governo Italiano, sua sponte e/o sensibilizzato dall'ampio e diffuso afflato umanitario espresso dal popolo italiano, ha adottato organici provvedimenti intesi a qualificare l'accoglienza, affinché sia efficace e decorosa. Un indirizzo questo apprezzabile, che comunque non revoca la scesa in campo della popolazione italiana. Che, quantomeno, traccia visibilmente un percorso di percezione, di consapevolezza e di mobilitazione comunitaria.
Importante è il senso di questa mobilitazione indirizzata a polarizzare la testimonianza di condivisione e sostegno alla nazione ucraina nei confronti della quale si vuole, con un ignobile atto di guerra che non sta risparmiando nulla del repertorio di efferatezza e disumanità, coartare l'indipendenza e la libertà di opzione del modello di governo.
Il popolo italiano, quasi nella sia interezza, dimostra di interpretare adeguatamente le ragioni e le responsabilità di una crisi che corre il rischio di diventare incontrollabile anche per la coesistenza nel continente europeo e financo mondiale.
Numerosi sono i canali, anche a Cremona e nel territorio provinciale, attraverso cui la concreta solidarietà si sta estrinsecando.
In tale prospettiva si colloca, ad esempio, la Serata for Ukraine presso La Società Filodrammatica Cremonese, svoltasi giovedì 24 marzo, in una percepibile cornice di pubblico consapevole e solidale, di canto lirico di elevato livello. Che ha avuto, con la messa in campo di tanti talenti lirici, il suo epicentro emotivo, con l'esibizione canora della cantante Nadyia Petrenko. Da anni residente ed operante a Cremona. E da anni indefettibile e coerente riferimento morale della resistenza ucraina.
Non possiamo che compiacercene e, conseguentemente, sostenere questa campagna. Che, come anticipato, dovrà proseguire, anche, se azzardiamo, in un contesto meno improvvisato e più selettivo.
Appare inutile e forse dispersivo aprire nuovi canali. Il nostro suggerimento è, a questo punto, potenziare i canali già aperti. Invitando (considerando, a mente del capottamento della campagna di donazioni per la pandemia) i sottoscrittori degli aiuti a verificare il rating dei promotori.
Nel corso dell'evento lirico, il cui ricavato derivante da libera oblazione all'ingresso ha aperto una campagna di donazioni. Simbolicamente inaugurata dalla generosa messa a disposizione di un veicolo di antiquariato la cui realizzazione, tramite messa all'asta, andrà a beneficio della raccolta.
Consigliamo gli interessati a rivolgersi alla Segreteria del Circolo Filo.
Un paese dis-unito
di Domenico Cacopardo
L'Italia, dopo quattordici giorni di guerra ucraina, è un paese disunito, con una minoranza aggrappata all'utopia del disarmo generale e al rifiuto di condannare gli aggressori russi.
Una minoranza che non è strettamente classificabile, anche se sembra prevalere un'area sindacale e di sinistra capeggiata da Landini: un uomo della cui buona fede occorre dubitare visto che chiede un intervento Onu rivelatosi impossibile proprio per l'opposizione russa. Impossibile addirittura dal 2015, quando l'Onu esaminò, su richiesta dell'Ucraina, l'idea di una forza di interposizione non europea tra russi e ucraini nel Donbass (la Crimea era già stata inglobata nel territorio russo e, dal punto di vista etnico, con qualche ragione) e dovette fermarsi perché sul punto la Russia esercitò il proprio diritto di veto. Circostanza che dimostra come Vladimir Putin, ripercorrendo i passi del suo predecessore tedesco, Hitler, abbia in mente un disegno di conquiste imperiali, puntando sulle comunità russe che vivono in stati confinanti. A dispetto del principio di territorialità che dopo la II guerra mondiale e la fine della Guerra fredda (vinta dagli Usa e dall'Occidente) era diventato il criterio-guida della pace condivisa. Confini intangibili cioè velleità di ampliamento territoriale impossibili da soddisfare: mai un principio come questo nella storia è stato disatteso dalla politica internazionale.
Comunque, è l'idea stessa di neutralità a essere in crisi: come si può essere neutrali mentre Abele viene massacrato da Caino? Sergio Staino, il disegnatore di sinistra, illustrava domenica una vignetta nella quale una donna esclamava: «C'è Davide che vuole una fionda per abbattere Golia!» Le rispondeva un tizio (somigliante a Landini): «No davvero … che cerchi il dialogo, piuttosto!»
E dire che la reazione all'ingresso dei carri armati in Ucraina era stata politicamente efficace e aveva riscosso un generale consenso. Ora, il governo diretto da Mario Draghi sta incontrando difficoltà impreviste -nella loro dimensione contestativa- e connesse ad alcune riforme concordate con l'Unione europea per ottenere il finanziamento monstre stabilito per il rilancio post-Covid. Nei confronti dell'aggiornamento del catasto immobiliare e della liberalizzazione delle concessioni di spiagge la Lega di Matteo Salvini sta facendo barricate. Il merito della battaglia è discutibile, discutibilissimo. Prima di tutto la cosiddetta riforma del catasto non è una riforma dell'imposizione sugli immobili. È, invece, un provvedimento che avvia il processo di ammodernamento del catasto cioè di parificazione tra la realtà e le scritture, appunto, catastali. Certo, una volta compiuta questa operazione, lo Stato potrà modificare il sistema di imposizione immobiliare, eliminando le vaste aree di elusione e riequilibrando gli oneri. Ma questo secondo passo potrà avvenire solo nel 2026 e sarà compito del governo che avremo tra 4 anni. Questo significa che Matteo Salvini con la rude, irragionevole opposizione a un aggiornamento pensa -evidentemente- che nel 2026 non avrà più voce in capitolo. Cosa possibile, viste le posizioni politiche che ha assunto durante la sua leadership della Lega. Quanto alle concessioni dei lidi, si tratta di una liberalizzazione. Essa comporterà che a scadenza le concessioni saranno affidate dopo un procedimento concorsuale, nel quale -è certo- gli investimenti effettuati dai ‘cessantì (e possibilmente subentranti a sé stessi) saranno correttamente valutati sulla base di parametri condivisi.
C'è quindi qualcosa che sfugge a una valutazione puramente politica nel rifiuto di Salvini cui si è affiancata parte di Forza Italia.
Se il sospetto è l'anticamera della verità emerge con forza una ipotesi specifica. Punto primo: i provvedimenti in questione fanno parte del pacchetto di riforme alle quali s'è impegnata l'Italia. Se essi fossero bocciati dal Parlamento, al governo non restano che le dimissioni.
Punto due: le dimissioni del governo di uno dei paesi Nato e dell'Ue, importante come l'Italia, sarebbero un grande successo dello zar Putin e avrebbero ovviamente una eco mondiale. La storia dell'Italia inaffidabile avrebbe una clamorosa conferma. Punto tre: Salvini e gli amici di Berlusconi amico di Putin avrebbero di che provvisoriamente gloriarsi chiedendo la dovuta riconoscenza.
Punto quattro: il premier Mario Draghi -se è un patriota come ha sinora dimostrato- dovrebbe decidere di continuare a servire il Paese, rimanendo in carica per gestire le elezioni politiche. Punto cinque: la parola passa agli italiani. A dispetto della vulgata generale, secondo me, saprebbero come rispondere all'appello, soprattutto se Mario Draghi continuerà a dimostrarsi patriota e, scendendo nell'agone, guiderà uno schieramento europeista e filo-atlantico. In ogni caso sarebbero gli italiani a decidere. Probabilmente, lo scenario qui sintetizzato è anche il più auspicabile, giacché determinerebbe l'affondamento dei grillini (che dell'inaffidabilità recano il record assoluto) e il recupero di una Lega desalvinizzata. Intanto, la guerra del TG1 è narrata con enfasi appuntata sull'imminenza delle vittorie russe, quasi un “basta: decidetevi e arrendetevi”. Nessuno che umanamente ‘sentà l'eroica lotta per la libertà combattuta da un popolo, tutto un popolo unito.
Il Psi al fianco della resistenza ucraina
Mauro Del Bue del 23marzo 2022 L'editoriale
Ringrazio Vincenzo Maraio, il nostro segretario, di avere raccolto il mio invito a convocare una Direzione sul dramma dell'Ucraina e di avermi chiesto di introdurla. Ho esposto subito una proposta e cioè la presentazione di un emendamento al nostro statuto, da approvare in sede congressuale.
Una modifica che reciti più o meno così: “Il Psi è contrario a tutte le aggressioni di stati indipendenti, liberi, democratici e appoggia nei modi che sono ritenuti i più efficaci la resistenza degli aggrediti”. Non potrei mai stare nello stesso partito di coloro che appoggiano o anche solo giustificano le invasioni straniere a stati indipendenti, liberi, democratici. Questo è il caso dell'Ucraina, paese indipendente dal 1991, ove viveva un popolo in libertà e ove vige una democrazia parlamentare. Con tutti i difetti e tutte le tensioni che ben conosciamo. Ma le deformazioni sul movimento che condusse al cambio di governo del 2014 e della guerra civile in Donbass sono prive di ogni fondamento. Su questi due punti sono intervenuti Edoardo Crisafulli, dirigente della sezione culturale del ministero degli Esteri a Kiev, recentemente rientrato in Italia, e il professor Massimiliano Di Pasquale, uno dei più stimati studiosi dell'Ucraina e autore dei due volumi intitolati Abbecedario Ucraina. E su questi due punti mi propongo di intervenire ancora con adeguati approfondimenti, assieme a Edoardo e Massimiliano esponendo dati certi, e tutti in controtendenza con la guerra ibrida di Putin.
Il Psi è dalla parte dell'aggredito come prescrive la Carta dell'Onu all'articolo 1 (in cui si impegna l'organizzazione a “reprimere gli atti di aggressione”) e la dichiarazione universale dei diritti umani che afferma “il diritto alla libertà, alla dignità e alla sicurezza delle persone”.
La Costituzione italiana non nega il diritto alla difesa. Anzi, all'articolo 52 afferma che “la difesa della patria è sacro dovere del cittadino” e nel troppo spesso citato articolo 11 che “l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. D'altronde i costituenti avevano fatto la resistenza. Nenni, Longo, Pacciardi in Spagna, Pertini, Morandi, Basso anche in Italia e non potevano certo entrare in contraddizione con loro stessi negando ai popoli il diritto di difendersi. Federico Fubini smonta l'equiparazione con Cuba 62. Non risultano esserci infatti missili offensivi in nessun paese Nato dei paesi dell'ex patto di Varsavia né in nessun paese occidentale europeo tranne la sola Francia, che ha un'organizzazione militare autonoma. Ci sono solo missili senza carica offensiva, ma solo col compito di intercettare e neutralizzare missili altrui, come quelli recentemente installati in Romania e in Polonia. Missili offensivi ci sono invece in Russia che ha sequestrato alle varie repubbliche le loro batterie nucleari accentrandole solo al suo interno. Il vero progetto di Putin non trae alimento dalla natura e dalla geografia del sistema sovietico, non è l'Urss che Putin vuole ripristinare (anzi Putin ha recentemente polemizzato con le Repubbliche a cui si rifaceva Lenin), ma l'impero zarista. Non a caso Putin si tiene dietro il tavolo il simbolo degli zar, quello della grande Russia. Questo implica la sottomissione dei popoli anche se sono ostili. La sottomissione alla Russia di popoli indipendenti. Con la coercizione e se necessario con la guerra, come avvenuto nel secondo conflitto ceceno, come accaduto ieri in Georgia, in Crimea, nel Donbass e oggi in Ucraina. La violenza culturale precede la violenza materiale. Ne è la necessaria origine e il continuo alimento. Stabilisce un destino non un futuro alla sfessa Ucraina che per Putin non esiste. Come non esisteva l'Italia per Metternich al congresso di Vienna. Solo che allora l'Italia non era uno stato e l'Ucraina sì. L'affermazione di Putin é per questo ancora più grave di quella di Metternich. Dichiara l'inesistenza di uno stato esistente, Bene ha fatto il governo italiano a inviare anche armi come tutti paesi europei, compresa naturalmente la Germania presieduta dal socialdemocratico Scholz e la Spagna del presidente socialista Sanchez. La resistenza, lo sappiamo bene noi italiani, la si fa anche con le armi. E chi dice il contrario sa bene di mentire. In Italia abbiamo assistito in questo mese a una sfilata di doppiopesisti, di benaltristi, e di arrendesti. I doppiopesisti sono quelli che sfilavano negli anni settanta coi cartelli “Usa go home”, le donne in nero che protestavano contro l'intervento in Kuwait del 1991. O anche quello di segno opposto che con decisione sfidavano i comunisti sull'Ungheria e la Cecoslovacchia Oggi non si rassegnano all'idea che quel mondo sia finito. Costoro di dividono in due tribù: i doppipesisti viscerali che sfiorano il negazionismo come per il Covid che non esisteva (per i no vax coerentemente non esiste neanche l'aggressione di Putin). Capofila di questi è Luciano Canfora per il quale non esiste la ragione dell'aggredito parafrasando Tucidide nella guerra tra Atene e Sparta, ma neanche i profughi che sono solo “passanti”, mentre per la professoressa Di Cesare non esiste nessuna invasione ma solo una guerra tra stati. Il suo invito al bombardato a comprendere le ragioni del bombardiere ha sfiorato la comicità. Poi ci sono i doppiopesisti problematici quelli che si sistemano gli occhialini, aggrottano le ciglia, perché la situazione é complessa (Gramellini li ha chiamati complessisti). Sono, questi, i fautori della non posizione, della pace a tutti i costi ma la pace bisogna farla in due. Se uno vuole la pace mentre l'altro lo bombarda allora deve arrendersi. Pace a senso unico equivale all'alzata di braccia. Seconda categoria è quella de benaltristi, quelli che sull'Ucraina invitano a parlare della Palestina, dell'Afghanistan, o più indietro del Cile e del Vietnam. Non è vietato parlare di questi argomenti. Ma non si capisce perché questo “ben altro” appaia solo quando si parla di Ucraina e non quando si parlava di quei Paesi. Terza categoria quella degli arrendisti, di destra e di sinistra, quelli che pronosticano che la guerra gli ucraini l'hanno già persa e farebbero bene ad arrendersi perché eviterebbero un inutile spargimento di sangue. Si sono forse sintonizzati sulle frequenze dei generali italiani che la sera stessa dell'inizio delle operazioni militari avevano pronosticato che in 24 massimo 48 ore Putin sarebbe arrivato a Kiev. E invece dopo un mese non ci è arrivato ancora. Perché in un conflitto non conta solo il rapporto delle forze in campo. Contano anche le motivazioni oltre che gli appoggi militari provenienti dall'estero che sono massicci e le forze in campi possono riequilibrare. I generali sono come i virologi. Sbagliano sempre le loro previsioni. Che dire dei partiti politici italiani? Bene il gruppo dirigente del Pd e il ministro Di Maio, sorprendente Salvini che prima vota l'invio delle armi e poi se ne dispiace, zitto (o zittito) Berlusconi, meglio la Meloni che non tradisce il patriottismo del nome del suo partito. I Cinque stelle paiono ulteriormente spappolati. Una certa Granato aveva addirittura proposto un'audizione stile par condicio elettorale tra Zelensky e Putin. Da non credere. Quando l'ignoranza si sposa con la stupidità esce una miscela pericolosa. Speriamo che all'estero la notizia non sia passata… Verso Zelensky si è alzata una barriera ignobile di crucifige da parte degli intellettuali o presunti tali. Loro non possono dare la patente di uomo di stato e tanto meno di eroe a un ex attore comico. Questa puzza sotto il naso che prevale qua e là sui social è una chiara manifestazione di insopportabile razzismo, che oltretutto in Italia, che solo meno di quattro anni fa diede la maggioranza a un comico, dovrebbero essere vietati. Concludendo. Il Psi è per la pace nella salvaguardia del diritto all'autodeterminazione, per un negoziato che ancora non si vede e che non è in contrapposizione con la resistenza. D'Alema ha giustamente osservato che è la resistenza a tenere aperte le porte al negoziato. Se non ci fosse stata la resistenza, Putin avrebbe già in mano l'Ucraina. E cosa fatta capo ha. Di quale negoziato oggi si parlerebbe? Il Psi è per una svolta al Cremlino perché non penso che Putin oggi e soprattutto domani possa essere un interlocutore della comunità internazionale. Anzi il Psi è per verificare se siano stati commessi, come in Bosnia, crimini di guerra e per un eventuale denuncia al Tribunale dell'Aia del capo del Cremlino. Le iniziative. Facciamo opera di divulgazione nell'opinione pubblica delle nostre posizioni, esponiamo la bandiera ucraina nelle nostre sezioni, teniamole aperte per raccogliere fondi e materiale per la popolazione ucraina, e portiamo con una delegazione nel territorio ucraino appena possibile un carico di aiuti.