Ci è giunto un interessante spunto proveniente dalla fertile penna di Dario Balotta, indimenticato dirigente della Cisl regionale Ferrovieri, attualmente testimonial dei valori ambientalisti. Non sempre lo condividiamo (in alcuni suoi picchi radicali). Ma sempre apprezziamo la sua guideline di preservazione della natura dagli eccessi di un interventismo antropico (specialmente quando é manifestamente dettato “tornaconti” contrastanti con il bene comune).
Di buon grado ospitiamo nella nostra testata la riflessione che riguarda “il terzo ponte sul Po”. E che ci induce ad un approfondimento a quattro mani.
AUTOVIE PADANE (BRESCIA CREMONA PIACENZA): INUTILE UN TERZO PONTE SUL PO A CREMONA, MENTRE QUELLO DELLA BECCA (PAVIA) ATTENDE DA ANNI DI ESSERE RIFATTO
L'avvio delle procedure di esproprio per la realizzazione del terzo ponte sul Po tra Cremona e Castelvetro (Piacenza) e della gronda, ripropone il tema dell'assenza di una programmazione dei trasporti e di un piano di priorità delle infrastrutture per i trasporti da realizzare in Italia. La costruzione del terzo ponte renderebbe l'area cremonese affacciata sul Po iperdotata di infrastrutture di attraversamento del fiume, vista la presenza dei due attraversamenti attuali, uno stradale e uno autostradale. Senza contare quello ferroviario, diventerebbero tre ponti in tre km di distanza in linea d'aria. Troppa grazia. Ciò sarebbe possibile grazie all'assenza di un nuovo piano della viabilità extraurbana della provincia di Cremona, visto che l'ultimo risale al 2004.
Tutto mentre decine di ponti sul Po sono ammalorati, e altri andrebbero ampliati per la ridotta larghezza della carreggiata: per non parlare del traballante ponte della Becca (in provincia di Pavia), costruito in ferro nel 1912. Già nel 2010 era un'urgenza costruirne lì uno nuovo, quando fu salvato dal crollo e poi riaperto a senso unico alternato per le auto, ma chiuso ai mezzi pesanti con gravi danni al sistema produttivo.
Forse il ministero dei Trasporti, quando il 21 maggio 2017 ha sottoscritto la Convenzione con la concessionaria Autovie Padane per la gestione dell'Autostrada A21 Piacenza-Cremona-Brescia, non aveva in mente quali fossero le priorità del territorio lombardo. Eppure Autovie padane, controllata dal gruppo Gavio, gestisce un'autostrada, la Torino-Piacenza, che a Broni (Pavia) riceve anche il traffico proveniente dal ponte sulla Becca. Non solo, ma la sede del gruppo è a pochi chilometri dal ponte.
I verdi europei chiedono con forza che il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile riveda la convenzione con Autovie Padane (A21) e dirotti altrove i 360 milioni di spesa previsti per il terzo ponte sul Po inseriti nel PEF (Piano Economico Finanziario). L'accordo di concessione con il gruppo Gavio prevede investimenti per 360 milioni da ritornare allo Stato con opere stradali: invece che per un terzo ponte a Cremona, potrebbero essere meglio impiegati con la costruzione del nuovo ponte della Becca e la manutenzione di quelli ammalorati tra Mantova, Cremona e Pavia.
Dario Balotta - Europa Verde - Milano, 10 febbraio 2022
Tertium non datur?
Diversamente, dalla chiosa di altre testate sul contributo di Balotta, scegliamo un profilo meno didascalico. Per intima convinzione, per aderenza ad una consolidata consegna editoriale, per una parziale condivisione delle argomentazioni sviluppate dal nostro interlocutore.
Apparentemente, ripetiamo apparentemente!, conoscendo i radicati convincimenti di Balotta, potremmo essere di fronte ad una riaffermazione di principio filo ambientalista.
Fermo restando che, pur avendo una visione più pragmatica, anche a noi non piace che si sprechino risorse ambientali immolate per la realizzazione di infrastrutture non essenziali.
Il “terzo ponte” esorcizzato (si può dire) non ricadrebbe (per le ragioni che svilupperemo) nella fattispecie appena accennata. Per come si sono messe le cose da un po' di tempo a questa parte, la sua tardiva realizzazione (semmai avvenisse) dimostrerebbe di aver quasi completamente smarrito il suo carattere strategico (semmai lo avesse mai avuto). Eppoi, si dovrebbe sempre fare un conto costi-benefici quando si spendono 360 milioni di euro (il cui spessore finanziario dice anche dell'impatto ambientale, in quel quadrante già molto fragile).
Come sostiene (stavolta) giustamente un recensore (di altra testata) “Cremona è stata storicamente penalizzata dalle scelte della politica in tema di infrastrutture”. A memoria, sono rare le testimonianze in senso contrario a questo assunto. Tra queste il Ponte di Ferro sul Fiume Po (cui si affiancherebbe a poche centinaia di metri “il terzo”); inaugurato (tenetevi forte!) il 20 settembre 1892 e realizzato grazie alla volontà di un cremonese, Francesco Genala, a quel tempo Ministro dei Lavori Pubblici nel Gabinetto Depretis.
A meno ci sfugga qualcosa, nelle temperie successive, di grandi investimenti di iniziativa dei superiori livelli istituzionali non ci pare ce ne siano stati molti. Ne menzioniamo alcuni. Il ponte autostradale di Centropadane (al momento della realizzazione, il più lungo d'Europa) spesato col piano di ammortamento della concessione.
Il Ponte S. Daniele-Roccabianca, finanziato dal Ministero ma col concorso delle Province di Cremona e di Parma. Il Ponte sull'Adda della bretella di Pizzighettone e, più a valle, quello di Crotta-Maccastorna. Difficilmente di queste strutture viarie si potrebbe dire che siano state finanziariamente impegnative e, soprattutto, rivestissero un profilo strategico in grado di attivare un valore aggiunto del normale traffico veicolare locale e/o interprovinciale.
Ciò posto, andrebbe soggiunto che il “fisico” finanziario (specie dopo la vandalizzazione dell'Ente Provincia e la totale marginalizzazione del territorio da parte della Regione Lombardia) si è praticamente azzerato, sul versante degli investimenti per lo sviluppo infrastrutturale.
A ragione di ciò le istituzioni locali, che, come quelle del nostro territorio, non possono più contare sulla benevolenza o sulla lungimiranza di rappresentanti avveduti come Francesco Genala o continuano a crogiolarsi (con effetto moltiplicatore sulla ulteriore periferizzazione rispetto allo sviluppo) nella loro marginalità o si danno da fare. Attraverso il tentativo di mettere a carico (o immaginando di poterci riuscire) i progetti strutturali (specie, viari) delle opere adducenti della viabilità autostradale.
Insomma, non avendo risorse in proprio e non riuscendo a prelazionare lo Stato come “pantalone” sostitutivo, diventa obbligata la messa in carico, come opere compensative, agli investimenti in capo alle concessioni. Ex novo o modificative degli originari atti concessionali.
Sotto tale profilo andrebbe ulteriormente soggiunto che, con il trasferimento della concessione della Piacenza/Brescia, dall'originaria SpA a capitale prevalentemente pubblico ad un gestore totalmente privato, il brodo del pressing comunitario si è andato allungando.
Dovremmo a questo punto anche fugare un approccio sbagliato all'approvvigionamento delle fonti finanziarie. Perché, quand'anche si riuscisse a spesare con le risorse del piano finanziario concessionale, da qualche parte la provvista deve essere reperita. In questa fattispecie, non dal finanziamento statale diretto, ma dal gettito derivante dai pedaggi e dalla decurtazione dei dividendi spettanti al concedente. Attraverso il prolungamento della duration concessionale ovvero attraverso il ricarico sulle tariffe (procedura questa, in cui il Gruppo Gavio presenta un talento magistrale).
Che il nuovo Concessionario sia venuto a Cremona (come prima in altri importanti distretti, fino a diventare un prevalent partner dell'esercizio viario) non per amministrare qualche centinaio di stipendi e qualche filiera manutentiva (in aggiunta ovviamente agli utili di esercizio) è fin troppo facile dubitare.
La sua storia, infatti, è costellata da un consolidato core business orientato, più che sulla gestione dell'esercizio, sulla costruzione.
Ricordato che l'unica Società di costruzione ed esercizio della generazione immediatamente successiva alla A1 ad aver perso la concessione è stata la Centropadane (tutte le altre coeve, dopo proroghe inenarrabili, l'hanno spuntata), sarà utile non perdere di vista che l'appealing degli iniziali 88,8 km di nastro stradale era collegato sia alla prospettiva di realizzare, con la partecipata, la Cremona-Mantova (di cui il gruppo Gavio è socio) sia al completamento delle opere adducenti: il raccordo autostradale Ospitaletto-Montichiari, l'uscita Brescia Sud, le circonvallazioni di Pontevico e Robecco, sul versante bresciano; il collegamento diretto tra i terminal delle due A21 e il collegamento delle medesime alla viabilità ordinaria, sul versante piacentino; “il terzo ponte sul Po”, sul versante cremonese.
Difficile pronunciarsi sull'equivalenza della spartizione, dettata dai partners territoriali. Equivalenza in termini di asse strategico e di volume di spesa. Sono vere, però, alcune incontestabili circostanze: i due partners della Centropadane (geograficamente, la testa e la coda) hanno visto praticamente risolto il loro cahiers de doléances viari (Brescia si è accaparrata anche la terza corsia esclusiva nella tratta Brescia-Manerbio). Alcuni cantieri sono ancora in corso; ma sul loro completamento c'è da giurare che non si tratterà di incompiute.
Con un palmo di naso é restata la sola Cremona. A danno della quale potrebbe operare una tardiva resipiscenza in sede governativa in materia di congruità di una spesa pubblica bulimica e non sempre giustificata da opzioni oculate e di correlazione con la prevalente linea guida del PNRR (di cui difficilmente, considerando il carattere strategico, sfugge l'attenzionamento della regia europea). Agli amici Verdi Europei che (come recita l'outing di Dario Balotta) “chiedono con forza che il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile riveda la convenzione con Autovie Padane (A21) e dirotti altrove i 360 milioni di spesa previsti…” sfugge quasi sicuramente il retroterra di precedenti, che abbiamo sia pure di sfuggita summentovato.
Ben lungi da noi il richiamo alla filosofia del “o de Franza o de Spagna…purché…”; che a nostro parere non giustificherebbe l'impuntatura per una realizzazione non congrua, nella spesa e nel risultato, alle ragioni strategiche di un intervento di 360 mln di euro (se ricordiamo bene) che non può essere ad impatto zero sulle circostanze.
Sul fatto che al subentrante gruppo gestionale, come abbiamo premesso, non sfugga il business e che il decaduto management cremonese dell'ex Centropadane abbia dormito all'umido non dovrebbe essere dubbio alcuno. E con questo non ci riferiamo all'attuale gestore che è subentrato nella concessione tre anni fa e che, come apprendiamo dal quotidiano cartaceo, ha riattivato la filiera (a partire dal progetto definitivo e dal dossier delle aree interessate all'opera).
Sulla sbrigativa arbitrarietà delle conclusioni del Verdi Europei e di Lega Ambiente della cancellazione definitiva dell'opera e del dirottamento dell'importo per “la costruzione del nuovo ponte della Becca e la manutenzione di quelli ammalorati tra Mantova, Cremona e Pavia” non si sa se pesi di più il dna NIMBY (niente nel mio cortile e, se proprio si deve, nel cortile più lontano) o l'esatta consapevolezza dei problemi viabilistici che sottendono all'arretratezza di Cremona. Su cui pesa una gigantesca dose di surrealismo; per cui il gruzzolo accumulato dal monte pedaggi acquisiti sulla giurisdizione del traffico da Brescia a Piacenza verrebbe dirottato a beneficio di un comprensorio, che in comune ha solo la circostanza rappresentata dallo stesso esercente delle due diversificate concessioni.
Il post pandemia, auspicabilmente, dovrebbe contribuire, come abbiamo scritto qualche giorno fa a commento della “malaria”, a delineare un modello di sviluppo meno pervaso dalla prevalenza delle ragioni di profitto su quelle della qualità della vita.
Ma, ad un certo punto, non v'è chi non veda che a colpi di “NO” a tutto non si contribuisce concretamente alla salvaguardia dell'ambiente, ma si accentua irreversibilmente il decadimento del modello socioeconomico territoriale.
Come si percepirà facilmente la nostra posizione è ad un tempo dialogante sulle opzioni più congrue all'interesse territoriale e assolutamente non inficiata da pregiudizi pro o contro l'opera.
Non sarà certamente il rivival di “nonna quercia” a farci deflettere in senso favorevole o contrario alla preservazione dogmatica del “tutto dov'è e com'è”.
Sappiamo da noi che l'ipotesi del terzo ponte sul Po insiste in un distretto territoriale paesaggisticamente molto fragile.
Sappiamo, però, almeno un altro paio di cose. Sgombriamo il campo delle incomprensioni dal “lo vogliamo perché ci spetta!” (a monte della spartizione con Brescia e Piacenza).
E diciamo che, se la realizzazione s'ha da fare, non sussisterebbe il problema del reperimento delle risorse finanziarie (fermo restando che l'idea di spostarle a beneficio della provincia di Pavia è quanto meno balzana).
La riflessione, quindi, (in aggiunta al ribadimento che, nel caso affermativo, progetto ed esecuzione dovranno passare sotto le forche caudine di una stretta aderenza alla preservazione paesaggistica ed ambientale), è se la struttura viaria serva o meno.
A questo punto riserviamo ai nostri lettori un outing che ha del clamoroso e che, in qualche misura potrebbe essere dissolvente delle motivazioni per la realizzazione della Cremona-Mantova: il mezzo secolo dell'esercizio della A21 Brescia-Cremona-Piacenza ha dimostrato che, per Cremona) l'indotto (in termini di attrazione di attività economiche e di efficientamento della rete viabilistica correlata) si sta rivelando modesto (per non dire nullo).
Paradossalmente, questo giudizio di ricaduta a saldo zero, potrebbe, se si pensa alle conseguenze sulla viabilità ordinaria, essere addirittura giudicato algebricamente negativo.
Il fatto è che gli 88,8 km di asse di collegamento Nord Sud avrebbero dovuto dirigersi un po' più a Est (Peschiera) e non come, in sede di definizione del progetto di massima, a Brescia (come pretese, all'inizio degli anni 60 un assessore provinciale un cui fratello aveva fatto una strepitosa carriera Oltretevere).
Paradossalmente il progetto definitivo, al netto del terminal nord, avrebbe proseguito (a cominciare dalla localizzazione del ponte sul Po e dalle due uscite di Cremona) in una dimensione non baricentrica.
A dimostrazione di ciò, per ovviare agli inconvenienti determinati su quello che avrebbe dovuto essere un piano compensativo di strutture adducenti, si sarebbero aperti contenziosi inenarrabili tra la Concessionaria, l'ANAS e le istituzioni locali (Comune Capoluogo e Provincia).
Solo più tardi, molto più tardi, si sarebbe, ad esempio realizzata “la tangenzialina” (dicono, non per ottimizzare i collegamenti autostrada-tangenziale, bensì per servire i flussi dell'inceneritore e dell'area attrezzata per i rifiuti).
C'est tout! Il problema era ben presente nel periodo in cui, con il varo dell'Azienda Regionale dei Porti e con la permanenza delle velleità del Canale Navigabile, permanevano ancora non infondate aspettative per realizzare a Cremona un centro interscambio merci e un'area industriale, capaci di inserire il territorio in un disegno di sviluppo).
Era ben presente nelle riflessioni della sala-regia politica ed istituzionale che nella seconda metà degli anni 80 aveva avviato un ragionamento col Comune di Castelvetro Piacentino indirizzato alla costruzione di una bretella suscettibile di togliere la SS dall'abitato, di collegarla all'uscita di Cremona Sud e, attraverso un nuovo ponte, alla tangenziale di Cremona e, specificatamente, all'area portuale (contestualmente attrezzata al collegamento ferroviario e, tendenzialmente, collegata alla Castelleonese col futuro peduncolo di Cavatigozzi).
Ci si sarebbe accontentati di un ponte tradizionale o anche di una soluzione in economia offerta dalla possibilità di collegare una carreggiata parallela all'attuale ponte in ferro (il cui asse era stata parzialmente liberato dalla costruzione di un ponte ferroviario dedicato).
Ovviamente, per quanto l'idea di massima del “terzo ponte”, lumeggiato da A21, ricalchi quell'intuizione minimalistica, sarebbe stata largamente migliorativa!
Ovviamente se non si fossero persi per strada 20 anni e passa. (il che non depone a favore della perspicacia del think tank che per quella non breve temperie rappresentò nell'asset societario gli interessi del nostro territorio).
Ma, nel renderci conto, con questo argomentare “indipendente”, di aver delibato la questione su un terreno apparentemente difensivo (con un saldo che potrebbe sfociare in un no contest o, peggio ancora, in un tiè dalla indifferenziata percezione), risaliamo per li rami principali della questione. Vale a dire all'analisi del combinato progettuale in grado di declinare le ragioni dello sviluppo infrastrutturale viario e quelle di una più ampia visione di innovazione del territorio.
Più sopra avevamo accennato ai perni di una visione lunga che faceva premio sulle specificità di un comprensorio, che, fino a qualche anno fa, con una certa prosopopea, si auto denominava “capitale del Po”.
Per oltre un secolo (salvo esaurirsi e quasi scomparire dai quadranti delle analisi e della programmazione, nell'ultimo trentennio) la vocazione di diversificare il paradigma dell'agroalimentare ed agganciare la modernizzazione del modello di sviluppo aveva portato significativamente l'establishment a scommettere sulla peculiarità derivante dalla posizione baricentrica rispetto all'asse del maggior fiume ed alle convergenze dei flussi.
Dal che, anche come conseguenza del Piano nazionale dei trasporti licenziato dal Parlamento alla fine degli anni 80, si era andato rafforzando il proposito di estendere l'iniziale idea del trasporto su acqua (leggi: il canale navigabile Milano Cremona Po) ad una visione più vasta imperniata sull'area portuale come terminal delle rotte e come nevralgica funzione di interscambio e logistica.
A tale indirizzo si uniformarono gli strumenti urbanistici che estesero la destinazione dell'area a funzioni industriali. Una mission questa forse non pienamente colta; ma, anche se parzialmente, l'area attrezzata, contigua al porto ed al primo tratto del Canale è una realtà effettiva.
Se ne era tenuto conto con le sollecitudini, di cui abbiamo detto, per il rafforzamento dei collegamenti viari. Ebbene, questi insediamenti vanno accompagnati anche attraverso l'acquisizione di una par condicio nei confronti di altre aree industriali extra provinciali, favorite da collegamenti viari dedicati.
Eppoi, se vogliamo recuperare la prospettiva di un rilancio delle ambizioni di centro nevralgico per la logistica a base intermodale, è bene essere consapevoli che la dotazione infrastrutturale (oggi in quel quadrante territoriale estremamente carente) è la condizione minima per sperare in un rovesciamento di condizioni sfavorevoli. Diventate significativamente sfavorevoli, ad esempio, nel rapporto con aree equivalenti, come il mantovano comprensorio di Valdaro (in cui le istituzioni locali hanno dimostrato come si agisce).
Perché, tanto per essere chiari, noi non siamo tra coloro che hanno definitivamente archiviato l'idea della bacinizzazione del Po e della sua fruizione come modalità alternativa a quelle prevalenti, ancorché in evidente contrasto con la testimonianza della green economy.
Nessuno, a conclusione, ci metta in bocca qualsiasi nostra condiscendenza a sostegno delle ragioni di Autovia Padana per il “terzo ponte”, tel quel. Il problema, come abbiamo con dovizia di richiami e di riflessioni, esiste. Su un piano strettamente viario e su un piano di tutela, lato sensu, degli interessi originari e potenziali del territorio.