La perentorietà del monito/auspicio, ovviamente, resta in capo al concept dei portatori di culture progressive per lo sviluppo territoriale e di metodi riformisti per realizzarle. Non già dei teorici dell'”incompiutezza di un progetto nato morto…” e dell'”occorrono altre realizzazioni…”. Rispetto a tali inscalfibili sicumere non si mette conto neanche azzardare un sia pur garbato incrocio delle lame.
Anche se come monito diretto al nostro comune campo “riformista” dovremmo lanciare un'occhiata severa all'indotto negativo (anche sul piano della cattiva e controproducente narrazione) prodotto dal recente annuncio della metabolizzazione negli strumenti urbanistici di un mega sito logistico adiacente a quella che dovrebbe essere il raccordo tra gli assi autostradali, esistenti o in programmazione.
Che senso ha sacrificare aree di pregio ritenute essenziali in una logica infrastrutturale, per, come afferma baldanzosamente l'assessore all'urbanistica, progetti circoscritti che tutt'al più potrebbero fornire qualche decina di posti di lavoro (prevalentemente dequalificati, come lo sono quelli del comparto dei servizi logistici)? In tal modo, oltretutto, alimentando le polemiche (in questo caso non del tutto infondate) dell'ambientalismo.
Qui, già dalle premesse, circoscriviamo il perimetro dell'analisi e delle riflessioni alla cultura del fare, del cosa conviene fare in una visione propulsiva che coniughi permanentemente le ragioni dello sviluppo con i capisaldi di una profonda e coerente svolta di preservazione ambientale.
Obiettivo epocale, inaggirabile, ma sempre correlabile a linee-guida dinamiche.
Soprattutto, proiettate su una visuale territoriale significativamente carente di infrastrutturazione; che, come si sa (ad eccezione dell'ultra radicalismo ambientale) costituisce la dorsale di qualsiasi ragionamento di riequilibrio di chances di avanzamento e di benessere tra aree.
Che la nostra sia stata sfavorita nelle politiche infrastrutturali e, scendendo per li rami, negli insediamenti ci sarebbe poco da eccepire.
Vero che alcuni dei capisaldi delle linee guida, che hanno retto i precedenti cicli dalla ricostruzione in poi (che si pascevano dell'industrializzazione manifatturiera) sono venuti meno e stanno cambiando per effetto dell'imbocco di culture economiche sempre più distanti dalle suggestioni fordiste.
Vero, però, anche che gli interscambi dovranno essere assistiti da una congrua rete infrastrutturale di trasporti, possibilmente vocata dall'intermodalità.
Da tale punto di vista il nostro quadrante (della Lombardia orientale, dell'Emilia, del Veneto), peraltro significativamente trascurato da opzioni strutturali che hanno favorito altre aree, ha tutte le carte in regola per rivendicare, nel suo interesse di riequilibrio e nell'interesse di un riequilibrio equo e lungimirante, quelle attenzioni che sin qui sono state negate.
Per anni sull'argomento infrastrutturale la soglia dell'attenzione (soprattutto, in capo ai vertici istituzionali del territorio) è scemata; anche di fronte all'imperativo di priorità ineludibili. Poi, tutto ad un tratto, si è rimetta in moto un'attenzione, favorita anche dall'esposizione mediatica, che non può non essere considerata di rimessa.
Vale a dire, indotta, per quanto si riferisce al “terzo ponte”, dall'iniziativa di soggetti non istituzionali (come nel caso, appunto, del concessionario autostradale, che ritiene di avere in pancia la realizzazione). Analogamente, per quanto di rimessa dei tagli operati dagli organi statali in materia di grandi opere.
Abbiamo l'impressione che da tempo l'aggregato civico, fatto di rete istituzionale periferica e di espressione dei cosiddetti corpi intermedi sociali, si sia perso l'intero spartito, relativo ad una visione d'insieme della infrastrutturazione e delle sue correlazioni con la sostenibilità di un progetto di sviluppo.
Basta aprire sulla stampa locale un focus tematico e si assiste ad un profluvio di testimonianze più o meno “informate”.
Fanno eccezione a questa abitudine il deputato locale Pizzetti e gli industriali.
Non fu così nel passato. Quando, come si vedrà dall'esame degli allegati che produciamo (L'Eco del Popolo del 30 maggio 1965 e lo studio commissionato dall'Associazione Industriali all'eminente accademico prof. Ugo Gualazzini), era forte l'impulso a praticare visioni d'insieme.
Se ne ha la certezza se si studia quel report e si guardano dettagliatamente le mappe dimostrative delle opzioni industriali che sembrano pennellate sulla realtà odierna.
In uno scenario contraddistinto da colpevole rinuncia a visioni strategiche e da piccoli calcoli, ecco farsi strada la suggestione dello spezzatino e dei pateracchi. Che non contestano i superiori livelli istituzionali neghittosi e che portano a casa qualcosa.
Noi non rinunciamo ad affermare che non ha senso fare spezzatini o incompiute. I tre progetti infrastrutturali (terzo ponte sul Po; Autostrada Cremona-Mantova; TiBre) rispondono ad un unico progetto di sviluppo infrastrutturale. Di un quadrante territoriale, fin qui negletto, ma dalle grandi potenzialità. Di rilievo nazionale ed europeo. Forse anche mondiale; se si ritorna a pensare alla via della seta (gestita dall'UE e non in esclusiva dalla Cina). La resilienza del nostro territorio deve guardare più a nord est che a nord ovest. Dall'area metropolitana milanese non sono arrivate e non arriveranno, nel ciclo post fordista, neanche le briciole. Figurarsi dalla fascia pedemontana bresciana! Ciò che poteva vandalizzare l'area bresciana dalla nostra autostrada si è compiuto. Amen. Adesso dobbiamo correggere la direttrice, che nell'iniziale progetto a21 guardava all'interazione Brennero. In tal senso il prolungamento TiBre alla Cr-Mn è la chiave di volta. Non solo per la direttrice nord. Ma anche per proiettare la nostra visuale sul quadrante nord Adriatico (portualità, intermodalità logistica) e sugli sviluppi infrastrutturali sinergici (Cispadana). Necesse farne patrimonio di percezione e consapevolezza del ceto politico ed istituzionale.