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8 marzo 2020

“festa” di consapevolezza e di testimonianza

  08/03/2020

Di Redazione

8+marzo+2020

Già, questo editoriale per la “festa della donna” 2020, si sarebbe di poco discostato dallo stereotipo positivo che ne ha incardinato le percezioni e le consapevolezze dalla fanciullezza. Da figlio di ragazza-madre, orgogliosa impiegata di fabbrica, attivista sindacale, che ne attendeva il rientro a casa col suo portato di narrazione dell'epica giornata e del piccolo benefit (la pastarella omaggio insieme alla mimosa ) dell'UDI. Di cui la mamma, in tempi in cui l'Italia non era diventata, secondo l'irritante vulgata di mezzo secolo dopo, una nazione “ricca”, si privava a beneficio del bambino.

Ecco mi è restata incollata addosso quella fattispecie identificativa del significato della celebrazione nella chiave prevalentemente della “donna-lavoratrice”.

Che autoridimensionava altri profili della condizione femminile (i diritti civili, l'equiparazione, divorzio, aborto, ruolo nella società); destinati a crescere nelle coscienze ed in molti casi ad approdare concretamente nella legislazione, nell'agibilità concreta, nei costumi.

Ma, occorre aggiungere, siccome le conquiste non sono mai per sempre, alcune di queste progressioni civili, tenute sotto schiaffo da perni reazionari ben radicati e non remissivi neanche di fronte all'ineluttabilità della democrazia, ripropongono un imperativo di costante testimonianza. Lotta, si sarebbe detto un tempo, quando l'avamposto del progresso della condizione della donna nella società non era ancora monopolizzato da radicalismo au caviar.

Altrettanto preoccupa (molto!) la recrudescenza di un profilo della sottomissione della donna nella sua fattispecie più aberrante rappresentata dalla dilagante violenza.

Che, mezzo secolo fa, paradossalmente per contesti più arretrati, non aveva raggiunto né i picchi né la spirale incontenibile del contesto corrente.

Si ha fondato motivo di rinvenire la soluzione del problema su un prevalente terreno sanzionatorio. Essendo l'incipit della resilienza in una ineludibile questione civile di emancipazione culturale. Che deve colmare quel gap che si è andato ampliando tra una tendenza maschile, apparentemente consapevole del fondamento della parità ma nei prevalenti comportamenti soggettivi (e/o collettivi) in materia di affettività attestata su un'aspettativa di possesso, e, nel campo femminile, consolidate aspettative di stili di vita, che pur essendo perfettamente legittimi e coerenti con la parità, non sempre appaiono consapevoli della permanenza di larghe fasce di arretratezza.

Permangono vaste sacche di antifemminismo d'antan. Ad esempio, Paola Clemente, scrivemmo nel 2016, lavorava nei campi ed era addetta alla cosiddetta acinellatura dell'uva. E ogni notte si alzava e percorreva 300 chilometri per raggiungere Andria alle 5 e lavorare fino al primo pomeriggio sotto un sole docente per circa due euro all'ora. Nel luglio del 2015 Paola, a 49 anni, morì di fatica nei campi

La questione femminile arrischia di essere ricacciata indietro da un combinato di cose: l'imbarbarimento delle relazioni sociali in generale, di cui la misoginia è una delle espressioni più evidenti, le ricadute della crisi economica che moltiplicano sulle donne un gap di diritti mai effettivamente colmato (una sorta di gabbia salariale, non di territorio, ma di genere), le conseguenze inestimabili ma già avvertibili dei “flussi”.

Con il che abbiamo cercato di testimoniare, in questo 8 marzo del 2020, le varie sfaccettature di una irrisolta condizione di discriminazione sociale e civile che non può non occupare le prime file della gerarchia di priorità nella testimonianza del più vasto ed inclusivo fronte riformista e, se è ancora consentito, nella mobilitazione (che non è una cattiva parola!) della sinistra.

Vorremmo, però, griffare questo 8 marzo con un segnale di orgoglio e di speranza; tratto, nel caso ce ne fosse richiesta la motivazione, da una quotidianità densa di pesanti criticità e di inquietanti presagi.

Se, alla pletora di immotivati premi all'influencer di grido, alla testimonial cult, ecc ecc, si aggiungesse un riconoscimento alla donna dell'anno, ci permetteremmo una segnalazione collettiva.

Ci riferiamo al valore del contributo civile e professionale delle due operatrici cremonesi, balzate agli onori della cronaca nazionale per la lotta al flagello del Coronavirus, Claudia Balotta e Annalisa Malara (per le quali Giancarlo Storti di Welfare Network ha avviato una petizione per il conferimento della Rosa Camuna).

Ci riferiamo a Francesca Pontiggia, Chiara Barchiesi ed Elena Albera, le tre mamme del nastrino giallo, protagoniste della mobilitazione contro la chiusura (un ulteriore tassello dello scardinamento della rete ospedaliera territoriale, finalizzato ad irresponsabili tagli orizzontali nella spesa regionale ed alla privatizzazione della sanità) della Terapia Intensiva Neonatale.

Ci riferiamo a Doris Bia, coniugata, madre di tre bambini, assessore del Comune della Bassa, che di fronte alla drammatica carenza di personale medico e paramedico ha indossato di nuovo il camice ed è tornata in corsia.

Senza nulla togliere al valore di molti altri casi paragonabili, indichiamo il valore della loro testimonianza civile e professionale. Che, in questi drammatici scenari, assume un forte segnale simbolico.

Nella direzione della crescita delle consapevolezze del merito a prescindere dalle distinzioni di genere e del riconoscimento dell'eccellenza di un territorio in cui le sei giovani donne hanno maturato la loro formazione ed espresso il loro contributo civile.

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