Quello dei Vitalizi e del trattamento economico degli italiani investiti di rappresentanza può, senza tema di smentita, essere l'evergreen recante le maggiori probabilità per non essere mai anacronistici.
Chi, occupandosi di giornalismo volesse specializzarsene monotematicamente, avrebbe pane e materia per un intero ciclo professionale.
Già se ne parlava (di fronte ad eccessi, che non erano i picchi correnti, ma che cominciavano ad essere imbarazzanti) nella prima repubblica.
Fin lì, confesso, avvertivo disagio e pudore ad affrontare un argomento, fino a quel tempo suscettibile, in una certa cultura politica, di inquadrare nelle file dei “qualunquisti”.
Disagio e pudore suscitati dalla consapevolezza che non tutti i compagni e gli amici, percipienti il vitalizio, erano inquadrabili nella fattispecie dei profittatori.
Molti di loro (per non dire tutti) venivano da una vita di lavoro, di militanza, di testimonianza civile ad dir poco rocambolesca, sicuramente fatta di privazioni materiali.
Che non cessava di essere tale neanche quando acquisivano il laticlavio parlamentare. I parlamentari di scuola rossa, infatti, cominciavano a percepire trattamenti economici imparagonabili coi precedenti. Ma, alla fin fine con il “prelievo” più o meno volontario della quota del partito, il salto era teorico.
Diventava effettivo quando, cessata la funzione parlamentare e rientrati nei ranghi, il vitalizio percepito era esen-partito.
Rientrati nei ranghi (ed è evidente che non ci riferiamo ad esempi come la parlamentare Cicciolina, che da anni si lamenta di non arrivare alla fine del mese con quella miseria del vitalizio) comportava, però, entrare nella riserva dei veterans, a disposizione per l'attività politico-organizzativa.
È altrettanto evidente che la fattispecie descritta riguarda gli eletti di prima-seconda generazione del Parlamento Repubblicano.
Oltre non ci avventuriamo per difetto di diretta conoscenza, cui supplisce il profluvio di informazione indiretta che, specie negli ultimi decenni ha dipinto una situazione tutt'affatto diversa, compendiata da una dinamica che si è rifiutata di controllare i limiti della decenza.
L'assist che ci impone di tornare sull'argomento è, nonostante abbia scatenato una bagarre, propiziato da un fatto marginale, tecnico-procedurale, oseremmo dire.
Perché, per un'analisi onesta, andrebbe aggiunto che, in regime di autodichia di prerogative e di autotutela etica, il ceto politico-istituzionale aveva, benché in ingiustificabile ritardo e con molto riguardo per sé, provveduto. A regolamentare i trattamenti economici in corso d'opera e ad assottigliare il peso di trattamenti ingiustificabili.
Poi, si sa che essendo l'Italia la patria del diritto (e del rovescio), nulla è mai definitivo.
Lungo il filotto: provvedimento, ricorso, rigetto, controricorso ecc…
Fortunatamente l'oggetto di questa riflessione non attiene ad aspetti procedurali, bensì a considerazioni di opportunità, rapportate al deragliamento dell'etica pubblica.
Considerazioni che non possono prescindere (anche a costo di finire nella categoria di populista) da una correlazione coi contesti.
L'Italia continua ad autodefinirsi (specie quando si tratta di aprire i cuori e le risorse per l'accoglienza) un “paese ricco”. Un dato (da verificare) accrediterebbe questa tesi: spendiamo un monte uscite di 275 miliardi di euro all'anno per generi voluttuari (azzardo, maghi, fattucchiere….).
Mentre, invece, la spesa sanitaria globale annua è di solo 170 (se ne sono viste le conseguenze col disastro pandemico!).
Cercando (anche se la tentazione sarebbe tanta) di non svicolare e dovendo restare nel tema, un giudizio è inoppugnabile: dalla crisi del 2008 in poi già è apparso evidente che il benessere del boom e degli anni 80 era esaurito e che i tagli da rientro nella sostenibilità (salari, stipendi, pensioni bloccati e norme previdenziali irrigidite) avevano fatto il resto.
Ma che …zzo di ragionamento deve aver fatto la “casta” per rendere inarrestabile la corsa ai privilegi!?
Non argomentiamo sulla base di invidia sociale; essendo in noi ben presente la consapevolezza del valore etico del servigio istituzionale.
Ma la questione, posta come è andata procedendo nell'ultimo trentennio, assume una preoccupante deformazione della rappresentanza.
Che non si riferisce più all'esercizio del mandato elettivo; bensì diventa lo spaccato di una mestierizzazione sistemica. Incompatibile, secondo chi scrive, con la declaratoria costituzionale e con una minimale decenza comunitaria.
Certo che i parlamentari devono vivere decentemente, non girare con le pezze sul culo, fruire di garanzie atte a rafforzare una condizione di indipendenza, beneficiare a fine mandato di un trattamento previdenziale (se non generoso, almeno in linea con quanto avviene per i cittadini che lavorano e pagano le tasse).
Ma vi pare che questo filo logico abbia qualche minima attinenza con una situazione intollerabile andata a sedimentarsi e ad ingigantirsi nel tempo!?
Tra le controdeduzioni accampate c'è quella della peculiarità del ruolo.
Tempo fa, Biagio De Giovanni, già rettore dell'Università di Napoli e già eurodeputato in quota PCI, sostenne che “Il parlamentare come figura non è uguale agli altri, rappresenta la nazione. Chi ha dedicato una parte della sua vita alla politica lasciando una professione e non potendola riprendere dopo quindici anni, non può ricominciare da dove stava.”
Una venatura deamicisiana quella di De Giovanni che ad usum delphini lumeggia una circostanza raramente riscontrata nella realtà.
Tranne le funzioni incompatibili generalmente i liberi professionisti si applicano sia al mandato elettivo che alla professione.
Invece, quelli impegnati nel lavoro dipendente possono fruire di un'aspettativa che mantiene il posto e non blocca la maturazione dell'anzianità. Alla cessazione del mandato, possono rientrare in servizio. In particolare, quelli del pubblico impiego; ai quali, fino ad un decennio addietro, è consentito il cumulo dello stipendio e l'appannaggio parlamentare.
Ma evidentemente la quasi sacralità del ruolo cucito da De Giovanni prescindere da qualsiasi aggancio normativo. Semplicemente vuole dare una dignità alla pretesa che una volta eletto non esci più dai ranghi e dai benefits.
“olim sacerdos semper sacerdos”. Saremo, in materia, ancor più perentori quando tra qualche settimana interverremo sul taglio dei parlamentari. Ma già sin d'ora ci permettiamo far osservare che un sistema istituzionale, come quello in cui il ceto politico-istituzionale diventa debordante, ha poche chances di rispettabilità e, soprattutto, di salda continuità.
Difficile, irrealistico, destinato alla disillusione l'auspicio che si torni alla origini. Non diciamo al gesto didascalico di 2500 anni fa del Lucius Quinctius Cincinnatus, che, una volta assolto l'ufficio tornò al lavoro usato (di agricoltore).
Ma fecondi esempi più recenti, anche se non pedissequamente replicabili nei tempi correnti, dovrebbero contribuire a riorientare percezioni e consapevolezze.
Tra la fine dell'Ottocento ed il primo 900 gli eletti a Roma si accontentavano della medaglietta (d'oro). Già ma quegli eletti erano tutti espressione dei ceti privilegiati.
Con l'irruzione nella scena politica e negli istituti parlamentari dei rappresentanti degli “ultimi” venne in emersione la necessità di rendere effettiva la condizione di esercizio del mandato. In quanto i giorni trascorsi a Roma nelle Camere Parlamentari comportavano la perdita di reddito per i lavoratori dipendenti.
Il problema si porrà vistosamente con l'elezione alla Camera di un oscuro fornaio parmense, che, dovendo partecipare alle sedute parlamentari e trascurando il suo abituale lavoro, non avrebbe avuto di che vivere. Per la prima volta, ci fu il riconoscimento di un rimborso sostitutivo della parte decurtata di salario.
Il secondo esempio lo riferiamo ad una figura molto vicina alla nostra testata di cui fu il fondatore.
Il deputato cremonese Bissolati fu un attivo propugnatore della necessità di remunerare la fattispecie degli eletti sfavoriti dalla condizione di lavoro dipendente.
E, dato che ci siamo, conviene accendere una luce sulla sobrietà di stili esistenziali di quell'epoca. Leonida Bissolati, deputato in carica, aveva dato appuntamento al Sindaco di Cremona dell'epoca per concertare un passo presso gli uffici dell'organo legislativo.
Presentatosi al Palazzo con un piccolo, giustificato ritardo, il Sindaco Cremonese ebbe qualche difficoltà a trovare il deputato.
Dopo una breve ricerca, fu rintracciato intento a cucinarsi il classico uovo al tegamino in un cortile della Camera.