L'incipit della riflessione, tanto per addolcire l'amarezza derivante dalle consapevolezze del problema e dall'intima convinzione di non poter schivarne l'analisi, è attinto da una citazione importante. Di Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Se questa premessa venisse considerata troppo au caviar, consigliamo di prendersela con la venerata maestra Rossetti; che fu l'iniziatrice del nostro sforzo di apprendimento attraverso la lettura dei libri (allora dispensati la domenica mattina nella essenziale biblioteca comunale ospitata nel Torrione).
Pavese, anche lui innamorato delle sue radici. Come noi, che, alla casella “nato a…”, di tanto in tanto ci impappiniamo. C'è poi chi, nelle interviste glamour, dovendo misurarsi sulla propria eradicazione dal sito e dalla lingua natii, confessa di pensare nella lingua madre. Per essere chiari: siamo nati (preciseremo puntigliosamente la location) a Pizzighettone, parliamo (quando possibile) in lingua locale, pensiamo, soprattutto, nella medesima.
Avremmo potuto anche immaginare un accrocco meno pretenzioso, per spiegare e accreditare la nostra non indipendenza rispetto al tema che andremo a trattare. È questione, più che di radici, di consapevolezza delle radici, del percorso educativo, della pervicace aderenza ai perni fondanti del format esistenziale e, come si direbbe in Gera, all'imprinting (che, se testato come valido, non si ripudia).
Ecco noi siamo nati il 23 gennaio 19…in una delle tre stanze “maternità”, poste al primo piano de l'uspedal per essere più precisi, sopra la chiesetta d'angolo della struttura fatta edificare da Luigi Mazza.
Lì sono stati amorevolmente accuditi e lì sono trapassati nonni e prozii. Lì abbiamo beneficiato dei trattamenti clinici, di un livello essenziale che tanto essenziale non doveva essere (considerato che siamo diventati grandi e quasi vecchi). Lì ci siamo occupati di un parente dal carattere un po' riottoso, ma non di meno premurosamente trattato e, secondo noi, assistito con una certa perizia clinica. Circostanza questa che, unitamente alle reminiscenze più lontane nel tempo, ci ha resi edotti delle luci (la forte impronta umanitaria e deontologica degli operatori) e delle ombre, riferite alla percezione di una cattiva postura gestionale. Legata ad una generale fragilità del settore, ad una criticità sedimentata, ad un'insufficiente consapevolezza della non resilienza oltre un certo grado di incrostazione).
È partendo da queste premesse che già da tempo il nostro lavoro giornalistico (di segnalazione, prima e di denuncia, poi) si è affiancato alla testimonianza più politica di “Pizzighettone al centro”.
Che, in tutto il corso della partnership con l'aggregazione civica risultata eletta quattro anni fa (ed attualmente non più rispondente, per ragioni intuibili, all'originario profilo pattizio) ha posto come centrale la residua sostenibilità della veneranda istituzione, nata dallo slancio umanitario del suo fondatore ed assecondata nel corso dei decenni dall'accompagnamento dell'intera popolazione. Che la percepiva come un aggregato di filantropia ed una risorsa per la comunità.
Si era subito capito (tra le poche cose dette e quelle non dette ma sottintese) che quella centralità non era condivisa dal senior partner della coalizione. Il quale, un po' con la classica melina (di cui per mezzo secolo fu incolpata la “balena bianca”) ed un po' con insincera disponibilità “a ragionarci”, mostrava di voler riservare una sorpresa al momento giusto.
Soprattutto, era manifesta sempre l'indisponibilità a fare dell'incombente adempimento di nomina del nuovo Consiglio della Fondazione una ineludibile occasione per un'analisi ampia e profonda dello stato dell'arte della gestione amministrativa. Le cui falle operative, patrimoniali, finanziarie apparivano, anche se negate o sminuite, palesi, di evidenza plastica, a dispetto di una quasi universale opera di dezinformatsiya e di minimizzazione (ad usum delphini).
Tale importante snodo fu reso brutalmente manifesto nelle battute finali del procedimento di nomina. In cui sarebbe venuto a galla quel profilo, lasciato immaginare due anni prima in occasione della difesa dell'onoraria cittadinanza pizzighettonese attribuita al Cavalier Mussolini, ma evidenziato, anzi esploso con l'eloquio del Marchese del Grillo con quel “io sò io e voi non siete un cazzo”.
Con cui il primo cittadino misurò un bulimico decisionismo, posto sul tavolo con l'arroganza di Brenno, solo per imporre una troika di nominati catapultati da realtà extraterritoriali, presumibilmente accreditati dalla catena di comando e di occupazione del potere istituzionale, rappresentata a Pizzighettone dall'attuale vertice comunale. Acerra era già fondata sulla sponda (secondo noi) destra dell'Adda ai tempi di quel “vae victis”. I suoi fondatori devono aver tratto da quel gesto di brutalità una repulsione che è rimasta nel loro codice genetico, di comunità di hombre vertical.
Prima se ne faranno una ragione i propugnatori del decisionismo brutale e prima si renderanno conto dell'erroneità sia dello stile che delle conseguenze del gesto. Con cui, ripetiamo ancora una volta, si è stabilito anche simbolicamente che la cittadinanza del borgo non è degna di esprimere una rappresentanza nella gestione amministrativa di un'istituzione, che è, ad un tempo, un tutt'uno col sentire comunitario e una insostituibile risorsa dispensatrice di servizi.
Ma, aggiungiamo, questo “sfregio” didascalico (inimmaginabile nell'armamentario di protagonisti elettivi della vita amministrativa) segnala due contemporanee scivolate. Da un lato, si è presa, di fronte all'incipiente resa dei conti dell'effettivo stato comatoso della Fondazione, la scorciatoia della nomina di una dirigenza opzionata sulla base non già della trasparenza nel rapporto della comunità bensì della fidelizzazione al dominus nominante, dall'altro, si è creduto che con questa pensata si sarebbe addomesticata un'incresciosa spiegazione sul come abbia potuto succedere questo disastro.
Ma si sa che di tanto in tanto la catena produce pentole prive di coperchio. Dovrebbe mostrare la faccia chi, nell'ordine, ha rifiutato, per almeno tre anni, un confronto trasparente e generale, nell'opinione pubblica e nei più ampi consessi istituzionali. Chi, una volta imposta la nomina di illustri catapultati, ha, ha praticato una reiterazione del gesto del gatto che la fa e la nasconde, pervicacemente negato una sessione aperta del Consiglio Comunale e del Consiglio di Amministrazione della Fondazione.
Chi, dopo aver realizzato il testa-coda di questa strategia, ha pensato possibile cambiare le carte in tavola e le parti in scena.
Imputando alla parte avversa responsabilità che sono in parte proprie ed in parte sono imputabili non partisan ad un non breve ciclo; durante il quale non pochi e non di una sola parte hanno intinto il pane in una serie di colossali errori di percezione della realtà e di sottovalutazione dell'urgenza di mettere in campo (come direbbe il Cavalier Berlusconi) dei “drizzoni".
Le vittorie hanno molti padri, mentre le disgrazie sono orfane di sponsors.
Invece, sulla narrazione dell'incresciosa vicenda opera una sorta di damnatio memoriae, un impulso alla smemoranda, in cui nessuno ricorda le proprie gesta ed imputa ad altri le loro e le proprie. Ma queste vicende, innanzitutto per rilevare le impronte delle responsabilità non richiedono il ricorso al luminol né il controllo delle celle di transito degli atti e dei fatti.
Di cui, devono rendere conto i gestori politici, ma anche il management del Mazza. Sicuramente, e lo testiamo avendo accertato da vicino, gli incolpevoli assoluti sono gli operatori, che, in condizioni di grave criticità, hanno continuato la testimonianza del fondatore Luigi Mazza.
Un primo segnalatore di criticità sedimentate e forse irreversibili è (lo affermerebbe qualsiasi revisore contabile) la difficoltà a far fronte al flusso della remunerazione del lavoro. Se e quando succede (nel settore privato) chi di competenza entra nell'ordine di idee che prima o poi (dio non voglia, in questo caso!) ci può stare la consegna dei libri. Fattispecie prevedibile per una inguaiata struttura, peraltro di diritto privato.
Non è dato conoscere lo stato dell'arte in materia di partita debitoria (coi fornitori, di beni e di servizi). Ma se non paghi gli emolumenti accessori ai dipendenti, non è che ci possa essere molto margine per giostrare nel timing del pagamento delle forniture.
L'altro versante, forse quello prioritario, in questione riguarda le relazioni sindacali. Ci viene detto che qualcuno nel Consiglio mostra un piglio da padrone delle ferriere; presumibilmente ritenendo che la deprecata situazione sia conseguenza di un tratto lavativistico del personale. Se quanto appreso corrispondesse alla realtà, il primo avviso sarebbero la rinuncia all‘impegno di questo amministratore e l'apertura di un tavolo di verità e di corresponsabilizzazione di tutti gli operatori (e dei loro rappresentanti sindacali). Che, soprattutto, nella situazione data costituiscono il vero valore aggiunto di un disperato tentativo di resilienza.
In un rapporto, ripetiamo, di verità e di realismo. Non già di paternalismo, di cui il gesto del “pacco” natalizio lasciato sul pavimento è ad un tempo sottovalutazione e umiliazione.
La cosa più vicina alla felicità per noi sarebbe apprendere domattina che, insieme all'esaurimento della pandemia, tutto quanto emerso sulla situazione del Mazza sia stato un brutto sogno.
Buttare il cuore oltre l'ostacolo non basterà; in quanto lo scenario è maledettamente grave e complicato (sebbene non se ne conoscano tutti i particolari).
Ad aggravarlo concorrono due circostanze. Rappresentate dalla quasi totale assenza di uno sforzo di metabolizzazione del quadro e da una volontà di armonizzazione e di convergenza dell'analisi sulla situazione reale e di un progetto condiviso di remuntada.
Quello che sappiamo della situazione particolareggiata è filtrato dalla lettura della cronaca giornalistica, distintasi per un accrocco non esattamente indipendente, dall'intercettazione di spezzoni provenienti dall'interno e, soprattutto, dalle deduzioni costruite sulle esternazioni passate dal convento.
Possiamo anche comprendere che quando hai l'acqua alla gola guardi più al dito che alla luna. Men che meno ti passa dal cervello l'impulso a rapportare la trave che hai nell'occhio al fuscello degli sguardi lunghi.
Sarebbe ingeneroso negare che la condizione di prossimità alla canna del gas della Fondazione Mazza sia una proverbiale rara avis di un ampio e fondamentale settore. Il quale risente, in un rapporto di maggiore prossimità, del portato catastrofico della pandemia (che ha Mazza ha dimezzato gli ospiti e tendenzialmente rinsecchito le fonti della gravitazione extraterritoriale).
Vero anche, però, che se la struttura sulla sponda dell'Adda ha fatto molto del suo per avvitare la situazione, l'intero settore sanitario-assistenziale dedicato alla terza età presenta criticità legate a deficit progettuale di rimodulazione.
Per troppi anni, la Regione ha dispensato, nonostante la nominalistica adozione in capo all'assessorato dell'ingannevole pannel welfare di potenziale cultura di assistenza sanitaria e sociosanitaria, risorse assolutamente inadeguate (e, nel caso della cura e dell'assistenza dell'Alzheimer) illegalmente negate.
Infatti, come nel generale fallimento del modello sanitario-ospedaliero, l'assistenza alla terza età mostra, nel caso fosse possibile, una gravità ancor più colpevole.
Sulla materia, rimandiamo alla costante testimonianza del coordinatore delle RSA del territorio, sen. Walter Montini.
Che è perfettamente in linea con le consapevolezze di chi scrive (ma ciò conta poco) e (ciò, invece, è importante) con il recente contributo di analisi e di proposta dell'Arcivescovo Vincenzo Paglia
Occorre costituire un continuum di servizi, di ascolto e di valutazione dei problemi socio-sanitari, di prevenzione, di assistenza domiciliare. Per anni abbiamo istituzionalizzato l'assistenza degli anziani con le Case di Riposo e le RSA, trascurando il coordinamento delle forme alternative in capo alla non istituzionalizzazione (assistenza a domicilio). In tal senso è necessario che le RSA divengano l'epicentro territoriale sia della versione dell'assistenza istituzionalizzata sia di quella domiciliare. Attraverso l'accreditamento del welfare regionale, sia delle RSA sia del domiciliare
Importante appare questa esternazione, se si pensa sia al peso che la Chiesa, attraverso il potere di nomina di due consiglieri su cinque (è il caso del Mazza) ha nella responsabilità gestionale sia al rating che essa ha nell'indirizzo etico-morale di una branca elettiva dell'amore verso il prossimo (nella realtà pizzighettonese latitante negli ultimi anni).
Non sappiamo prevedere come evolverà la congiuntura. Possiamo solo azzardare, per quanto considerato, che la possibilità di resilienza è affidata ad una nutrita serie di variabili, dipendenti quanto indipendenti dalla realtà locale.
Sono circolate molte supposizioni ed ipotesi, generalmente non suffragate da rigorosi vagli fattuali.
Tra queste gira l'idea di metter a frutto, all'interno di un non meglio precisato progetto di convergenza tra pubblico e privato, l'unico asset (non dichiarato ma reale) di un certo valore della Fondazione, che è il pacchetto del convenzionamento.
Farebbe gola a qualsiasi potenziale OPA, più o meno ostile, per scarnificare ciò che resta di una veneranda istituzione.