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Sergio Moroni a 30 anni dalla scomparsa, i rimpianti e le consapevolezze

  08/09/2022

Di Redazione

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Esattamente trent'anni fa scompariva in circostanze drammatiche Sergio Moroni, dirigente lombardo e nazionale del PSI, con origini bresciane. Era stato rieletto per la terza volta alla Camera dei Deputati, cui era approdato dopo un lungo collaudo nella vita istituzionale locale, in particolare nella veste di titolare dell'importante Assessorato alla Sanità.

Ruolo nel quale (a prescindere dalla circostanza che fu il detonatore sia dell'attenzionamento giudiziario sia della tragica fine personale) si distinse per la lucida interpretazione della deriva che era alla viste per l'applicazione della riforma da non molti anni approvata dal Parlamento e delegata alle Regioni e per il particolare accompagnamento delle realtà territoriali del PSI, alle prese con la difficile applicazione. Per quanto fosse in quella seconda metà degli anni 80 del tutto immaginabile l'approdo antiriformista, cui l'avrebbe consegnato il successivo ciclo formigoniano, il socialismo lombardo non solo aveva ben presente la massa critica di quel pericolo, ma agiva affinché l'attuazione della riforma attesa per tanti anni non si discostasse dalle linee progettuali dell'introduzione in Italia di un welfare che contemperasse sanità e sociale.

Il 9 aprile 1989 Sergio Moroni, che aveva retto con competenza per un biennio l'Assessorato Lombardo, venne a Crema, nella veste di Presidente della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, a presiedere e a orientare, con competenza e lucidità la “ La giornata di studio sulla Legge Regionale di riordino dei Servizi Socio-Assistenziali “ svoltasi a Crema.

D'altro lato, dello spessore di Moroni erano consapevoli i socialisti ed alleati ed avversari.

Noi che scriviamo qui, più di tutti. Atteso che ne siamo stati coetanei, di anagrafe e di cursus militante. Apparteniamo, infatti, alla “leva” dell' “unificazione” dell'ottobre 1966 e ci formammo nei ranghi della Federazione Giovanile Socialista e del Partito (in quella temperie, non ancora permeato dagli slanci innovatori e dalle suggestioni del “nuovo corso”).

Questo per affermare che il range, quel radar di riferimento teorico-progettuale e di quotidianità militante, erano, per quanto consapevoli dei destini cinici e bari gravanti sulla non ancora archiviata stagione del riformismo imperniato sull'incontro tra cattolici progressisti e socialisti, orientati dall'ansia di uscire dallo stallo dell'agenda governativa e parlamentare e di approdare ad “equilibri più avanzati”. Suscettibili di far riprendere un percorso di innovazione al Paese ed all'emancipazione del ruolo socioeconomico delle classi rappresentate e di coinvolgervi i segmenti della sinistra italiana, fino ad allora comodamente impegnati a “scuotere l'albero” e a raccogliere i frutti della inesauribile verve del massimalismo contrarian (oggi si direbbe populismo).

Tale era il quadro capace di racchiudere e definire la prospettiva politico-parlamentare, ma anche gli handicaps, di un partito, che, pur essendo imperniato nella cultura e nel bacino di raccolta e riferimento, era stato e restava, nel contesto pervaso dai due bigs dell'associazionismo politico di massa, il classico vaso di coccio tra i due vasi di ferro.

Ovviamente analizziamo e ricostruiamo in proprio. Ma tali consapevolezze erano prerogativa di tutto quel PSI del periodo seconda metà anni 60 e prima metà anni 70, che aveva assistito alla grande speranza della riunificazione dei due segmenti PSI e PSDI (la cui rottura era stata la causa e la conseguenza di uno scenario in movimento suscettibile di non dare spazi ed opportunità ai portatori di pensieri critici e non dottrinari), al suo naufragio e all'avvitamento della tendenza a ritenere esaurita la spinta fortemente modernizzatrice ed egualitaria impressa dal cattolico progressista Aldo Moro, dal socialista Pietro Nenni e dal repubblicano Ugo La Malfa.

A ben vedere autorevoli leaders il cui vero target si differenziava dal profilo identitario dei movimenti che rappresentavano.

A quell'epoca, addirittura, la vera intelaiatura del riferimento teorico e progettuale del PSI aveva, in contrasto con le vulgate, come riferimento l'amalgama del contributo di leaders (come Nenni, De Martino, Lombardi) che, in qualche misura, erano disassati rispetto ai cardini del continuismo della sciagurata stagione del patto di unità d'azione e del frontismo.

Non casualmente De Martino (all'epoca della riunificazione Segretario) e Lombardi (leader della sinistra) provenivano dal Partito d'Azione (e la cosa era ben percepibile sia nei riferimenti strategici sia nell'azione quotidiana).

Abbiamo così delineato il contesto in cui la leva nella nursery FGS e successivamente nella militanza adulta dei baby boomers socialisti di quell'epoca fece il proprio battesimo di fuoco.

Il successivo (battesimo) del nuovo corso sarebbe venuto un decennio dopo, col suo portato dell'impulso a rovesciare il tavolo di un'iniqua collocazione, che, al di là degli slanci teorici e strategici, penalizzava i vasi di coccio a vantaggio di quelli di ferro, muniti di una ben diversa consistenza militante e organizzativa e di mezzi. Che provenivano, oltre che dalle fonti trasparenti delle tessere, dell'autotassazione, delle donazioni volontarie (provenienti dai singoli militanti, dalle sezioni e dalla filiera della cinghia di trasmissione delle cooperative e dei sindacati), anche (o soprattutto?) dalla raccolta derivante dalle contiguità della vita quotidiana e dagli appoggi (non disinteressati) delle aree internazionali di influenza (mettiamola così, tanto si capisce).

Anche in questo il PSI (approdato tardivamente all'Atlantismo, all'Europeismo e alla famiglia socialista internazionale) si rivelava (ancor di più) di coccio.

Questa diseguale raccolta accentuava ancor di più la già ineguale condizione di competitività. Perché, al di là della qualità dell'offerta politica (i cui esiti erano già fortemente condizionati dall'impari potenza dei megafoni comunicativi e delle collateralità internazionali, religiose, corporative, sui partiti cosiddetti intermedi come il PSI (con tutto rispetto, una mezza porzione; per non parlare della micro formazione dell'Edera) incombette l'onere di tenere alta (ed intellegibile agli orecchi ed agli occhi di una massa prevalentemente suggestionabile dai richiami demagogici e massimalisti) l'offerta politica, senza disporre di adeguati strumenti di massa (tra cui il gettito finanziario, senza del quale non si disponeva di filiere propagandistiche, testate giornalistiche, permanenti apparati organizzativi).

Questa era una consapevolezza ben presente nelle avvertenze di chiunque, giovani od attempati, si fosse affacciato alle attività di dirigenza politica ed agli incombenti operativi della filiera organizzativa del PSI.

Già anche noi avevamo il tesseramento, le sottoscrizioni, le feste Avanti e qualche altro marchingegno, come la tassazione al 50% ed oltre dei “gettoni” di incarico amministrativo (assolutamente imparagonabili a quelli di oggi che sono veri e propri stipendi ed in alcuni casi superstipendi). Anche per noi qualche volta colava un po' di grasso dagli appalti ottenuti da cooperative o “ditte amiche” (nel senso che appartenevano a militanti o simpatizzanti o ad agnostici ma non insensibili ad aiutare un partito ). Di tale contesto c'era (almeno nell'ambiente della dirigenza alta ed intermedia) consapevolezza. Fatto questo che, pur attivando impulsi non esattamente in linea con le certezze dell'impunità, in qualche misura ricevevano la dispensa morale giustificata dallo stato di necessità. E, soprattutto, dall'assoluta convinzione che non un penny sarebbe rimasto attaccato alle mani. Ma su questo sarebbero stati giudici implacabili gli eventi successivi. Anche se certi stili di vita contestuali potevano essere rivelatori di deroghe comportamentali.

A ben vedere è questa la conclusione deducibile sia dal “testamento morale” implicito nelle esternazioni di Moroni nella tragica determinazione di porre fine alla propria esistenza sia dalla successiva e meno disinteressata filiera narrativa, prevalentemente incardinata in una vulgata esplicativa non sempre rigorosamente fattuale e, soprattutto, (e ciò è molto meno giustificabile sia sul versante etico - politico sia su quello della dedizione ideale) compatibili con l'imperativo di fornire spiegazioni attendibili alla verità dei fatti ed alle ragioni della sopravvivenza di una mission del socialismo italiano.

Da tale punto di vista (pur comprendendo pienamente lo slancio umano), appaiono del tutto incomprensibili il titolo e buona parte del contenuto dell'articolo dell'Avanti!, titolato “Sergio Moroni, il nostro Giacomo Matteotti -quel grande velo di ipocrisia- Sergio Moroni ne è testimone da 30 anni”.

Diciamo ciò con la franchezza che ci deriva non solo dall'improponibilità storica della sovrapposizione di due personalità differenziate, soprattutto, per quanto si riferisce alla circostanza della morte; ma, in particolare, dalla nausea che ci ha sempre procurato una versione, controfattuale e proiettata ad usum delphini (negli scenari successivi dei socialisti liberi tutti per contaminazioni poco coerenti con le premesse ideali e di reinventarsi un ruolo alla corte dei nuovi potenti). Cui certo giovava e continua a giovare l'esibizione dell'allure del (ingiustamente, ça va sans dire) perseguitato.

Anche se effettivamente lo scenario di trent'anni fa era (come scrive il direttore dell'Avantionline nell'articolo che pubblichiamo integralmente), era tale che “Un avviso di garanzia era una condanna preventiva e chiunque ne fosse stato oggetto doveva essere condotto al rogo come le streghe del medioevo”.

E che avrebbe condotto, come effettivamente accadde nel volgere di una breve temperie, al totale ostracismo nei confronti di alcuni partiti storici (in particolare il PSI) e al sovvertimento dell'impianto e degli equilibri di un modello durato mezzo secolo.

Solo tardivamente e a distanza di trent'anni da parte di pochi ci si chiede se la risposta (giudiziaria e politica) al malcostume fosse giustificata nell'obiettivo finale e nello strame fatto della dignità umana e di una giustizia giusta.

In qualche modo, pur condividendo appieno l'interpretazione dell'assunzione dell'illecito finanziamento della politica come pretesto di disassamento dell'intero impianto politico (che si accanì contro alcuni e risparmiò altri) a distanza di anni è per noi difficile distaccarci dal dubbio che, in qualche misura, la nomenklatura socialista ci mise di suo per farsi mettere nel sacco dai depositari (super poteri della finanza mondiale, strati di magistratura deviata, segmenti politici interessarsi ad accreditarsi negli scenari del “liberi tutti” dopo la caduta del Muro).

Ne è dimostrazione il taglio dell'intervento del leader socialista, che nella seduta della Camera del 3 luglio 1992. In cui, apertis verbis, con la valenza di una generalizzata chiamata di correità, affermò:

“… ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro.”

Come ricorderà Antonio Polito sul Corriere della Sera: “Nessuno si alzò. Ma nessuno ebbe neanche il coraggio di riconoscere che si trattava di un problema politico, da risolvere politicamente. Tutti sperarono che la campana suonasse solo per Craxi.”

Una chiamata di correità, un'estrema ammissione, che vennero interessatamente utilizzate come manifestazione di arroganza autoassolutoria e come gesto teso a rovesciare il tavolo.

Nella realtà Craxi aveva detto coram populo il vero e aveva rivelato quanto nel PSI (che utilizzava una parte cospicua di quelle entrate anche per scopi nobili, come il sostentamento dei movimenti fratelli posti nell'illegalità dai regimi reazionari e dei leader costretti all'esilio) accadeva da qualche anno. Anche se sarebbe corretto e onesto affermare che accadeva con forte accentuazione, fino a diventare fatto sistematico ed incontrollato nella effettiva destinazione, ad iniziare dal “nuovo corso” di Via del Corso e da Piazza Duomo a Milano.

Col (per loro, perché per chi scrive ci fu consapevolezza contestuale) senno di poi, sarebbe bastato che Craxi avesse completato la giusta ammissione con un'autocritica circa l'inammissibilità, ancorché motivati da logiche di militanza politica, di comportamenti disinvolti. E, a nome dei cento anni di storia socialista, avesse chiesto scusa al popolo italiano.

Non fu così. E anche questo forni propellente al disegno destabilizzante.

Sergio Moroni avrebbe solo avvertito i prodromi e men che meno ne avrebbe visto le dinamiche.

In un certo senso si può dire che fu, trent'anni anni addietro, un proto indagato; non con le maniere forti, per effetto delle prerogative parlamentari di cui disponeva, ma certamente con il piglio che si voleva dare al prosieguo di “mani pulite”.

Sarebbe venuta, come nella più classica rivoluzione sovvertitrice, la stagione del terrore di mani pulite.

Di fronte alla quale il movimento socialista sarebbe letteralmente crollato su se stesso. Per effetto, soprattutto, di quell'amnesia rilevata nello speech che avrebbe dovuto essere determinante nell'aula parlamentare e che sarebbe suonata come un tutti a casa (fatto di risposte individuali ad un input che invece avrebbe dovuto essere collettivo). Ci furono socialisti che scelsero l'esilio (avendone i mezzi); altri che come il povero Sergio fecero l'insano gesto; altri che misero di mezzo anni di crociere esotiche a bordo del proprio yacht e poi tornarono per barattare; altri che erano all'estero per lavoro e tornarono per render conto.  Sapendo a cosa andavano incontro. «Anche mio padre pagò per tutti» dice la figlia di Sergio, Chiara, il cui percorso politico non abbiamo condiviso, ma che dimostra di esserne in qualche modo coerente erede.

Al mio coetaneo, di classe anagrafica e di fgs, penso, con tristezza e amicizia, non solo in occasione degli anniversari.

Il suo percorso esistenziale e politico sarebbe stato, date le virtuose premesse, ben diverso se (simulazione questa molto azzardata!) non ci fosse stato l'imbarbarimento della civiltà politica e se il "nuovo corso" avesse voluto preservarsi dal pericolo di certe derive.

È a questa impronta derivata dalla pratica del pensiero critico e non da irrefrenabile impulso agiografico che abbiamo ispirato il ricordo e la rivisitazione della sua personalità e della sua testimonianza.

Che corrediamo attingendo dall'editoriale dedicato da Mauro Del Bue, dalla lettera/testamento di commiato, dalla risposta del Presidente della Camera Napolitano.

Mauro Del Bue 1° Settembre 2022 L'editoriale

Sergio Moroni: trent'anni fa

Un uomo piccolo, ma grande per rigore e coerenza, il 2 settembre del 1992, si sparò nella sua cantina esplodendosi un colpo di fucile alla gola. Si chiamava Sergio Moroni. Era un dirigente e deputato del Psi di Brescia. Era stato raggiunto da un paio di avvisi di garanzia per finanziamento illecito al suo partito.

Lo ammise precisando di non essersi mai tenuto una lira per sé. Era stato letteralmente sommerso da una scia di accuse alle quali non si sottrasse neanche qualche dirigente del suo stesso partito. Un avviso di garanzia era una condanna preventiva e chiunque ne fosse stato oggetto doveva essere condotto al rogo come le streghe del medioevo. Moroni aveva appena scritto una lunga lettera al presidente della Camera Napolitano in cui metteva in guardia dal clima da pogrom che si respirava e da un giustizialismo che, proprio perché alimentato da un'azione parziale e anche strabica, poteva mettere a rischio lo sviluppo della nostra democrazia. Si può ben dire che il gesto di Sergio (che ricorda nell'espressione le ultime parole lasciate nel suo diario da Cesare Pavese “Un gesto. E non scriverò più” oltre a dimostrare la sua coerenza fu a sfondo politico. Un suicidio di denuncia di un contesto malato e dei problemi a cui l'Italia sarebbe andata incontro. Un intero sistema politico, scrisse Sergio, che aveva portato l'Italia a divenire una democrazia matura, é stato messo al bando e con esso partiti con radici ideali insopprimibili. Lo ammetterà più tardi lo stesso Saverio Borrelli affermando: “Non valeva la pena buttare a mare il vecchio mondo per cadere in quello attuale”. E tuttavia vi fu chi subito dopo la tragedia di Moroni si avventò a sostenere che Sergio si era ammazzato per vergogna. La vergogna per costui la avvertiamo ancor oggi noi. Non si può essere così privi di senso della pietas umana e indossare una tunica che permette di decidere sulla vita dei cittadini. Per Sergio, per ricordare la sua vita e la sua azione politica, il già segretario del Psi bresciano Roberto Bianchi ha promosso il 16 settembre, con inizio alle ore 20 e 30, una lettura di scritti, nell'ambito di un testo che lo vede nei panni di autore e interprete, al teatro Colonna di Brescia (via Chiusure 79/c) col titolo “La morte di un parlamentare della Repubblica italiana”. I socialisti e non solo quelli bresciani sono invitati per testimoniare la stretta attualità di un ricordo che non si potrà mai cancellare. Al pari di una ferita che non si può rimarginare.

Mauro Del Bue
Mauro Del Bue

La lettera al Presidente della Camera

Sergio Moroni.
Sergio Moroni.

Egregio Signor Presidente,ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l'atto conclusivo di porre fine alla mia vita. È indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l'espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle “decimazioni” in uso presso alcuni eserciti, e per alcuni versi mi pare di ritrovarvi dei collegamenti. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la “pulizia”. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C'è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste regole. Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere, ancora prima sul piano morale che su quello legale. Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d'informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori. Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da “pogrom” nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma che pure ha fatto dell'Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze. Io ho iniziato giovanissimo, a solo 17 anni, la mia militanza politica nel Psi. Ricordo ancora con passione tante battaglie politiche e ideali, ma ho commesso un errore accettando il “sistema”, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune, ne mi è mai accaduto di chiedere e tanto meno pretendere. Mai e poi mai ho pattuito tangenti, né ho operato direttamente o indirettamente perché procedure amministrative seguissero percorsi impropri e scorretti, che risultassero in contraddizione con l'interesse collettivo. Eppure oggi vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo “tangenti”, accomunato nella definizione di “ladro” oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un'informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna. Con stima. Sergio Moroni

La risposta del Presidente Giorgio Napolitano

Il Presidente Giorgio Napolitano
Il Presidente Giorgio Napolitano

“Onorevoli colleghi, non è solo l'annuncio, sempre doloroso, della scomparsa di un collega che io debbo dare oggi alla Camera, ma la comunicazione, tragicamente eccezionale, del messaggio indirizzatomi dall'onorevole Sergio Moroni per motivare la decisione di togliersi la vita. Ne sono stato profondamente colpito. E ho ritenuto di dover senza indugio rendere pubblico quel messaggio, perché chiaramente diretto ad un'opinione più ampia, al di là della mia persona e degli stessi componenti di questa Assemblea. E tuttavia non a caso il collega Moroni si è rivolto al Presidente della Camera come destinatario e come tramite delle sue estreme «brevi considerazioni» (così da lui stesso definite). Egli ha creduto di dover in questo modo sollecitare una riflessione comune, non di parte, sui problemi tormentosamente vissuti dal momento in cui era stato coinvolto nel procedimento avviato dalla procura della Repubblica di Milano. E in effetti noi dobbiamo, come Istituzione, misurarci con quei problemi, collocati oggettivamente nel contesto della crisi politica e morale che il Paese sta attraversando. Dobbiamo farlo — abbiamo già cominciato a farlo — mediante iniziative appropriate ed efficaci, volte a rimuovere le cause di una crisi così grave affrontandone concretamente tutti gli aspetti essenziali. Ma potremo nello stesso tempo convenire sulle modalità di un dibattito generale sulla questione morale, in cui si riassume oggi il malessere dell'opinione pubblica nel rapporto con la politica e con le Istituzioni. Un dibattito da cui possa uscire il quadro di insieme degli impegni di risanamento e di riforma da perseguire.

Faremo così — io penso — la nostra parte anche come destinatari dell'ultimo messaggi o del collega Sergio Moroni. Cogliendo il senso del riconoscimento del proprio errore e della denuncia di comportamenti altrui considerati non giusti, che insieme si ritrovano in quella lettera.

Rispettando il corso della giustizia. Rispettando una sconvolgente decisione personale, che appartiene alla sfera più intima, in qualche modo insondabile, della coscienza di un uomo. Ed esprimendo ai familiari di Sergio Moroni i nostri sentimenti di commossa partecipazione al loro dolore”.

Il contributo di Moroni alla conferenza di Crema dell'aprile 1989

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