Apparentemente il titolo avrebbe potuto essere “Stipendio per gli eletti”.
Che sarebbe, però, il dito e non la luna, che, invece, vorremmo indicare come problematica tirata in ballo da una sinergia tra scampoli di incipiente dirittura d'arrivo di campagne elettorali in corso e probabili rimbalzi dialettici occasionali.
Fatto si è che, per quanto innescato dall'effetto endorsement (giusto gesto di trasparenza dei propositi di candidatura!) è stata messa sul tavolo della dialettica elettorale in corso a Crema la questione, apparentemente fatta discendere da una propensione personale sulle modalità di esercizio del mandato. Che hanno chiamato in causa l'opzione tra, detta alla spiccia, tempo pieno e part time e che, inevitabilmente, rimandano al “trattamento” delle funzioni.
Noi abbiamo un nostro punto di vista, discendente con ogni probabilità da “nostalgia canaglia” (come canterebbero Romina e Albano); che spinge i fuori radar a sbavare per gli scenari archiviati dai cambiamenti e dalla sedimentazione dell'oblio.
Ma, in ogni caso, apprezziamo che alcuni candidati sentano il dovere di outing (in senso affermativo o negativo) su un lato non centralissimo, ma neanche troppo inconsistente della caratterizzazione dei futuri comportamenti.
Sbagliato (sbagliatissimo!) finalizzare i pronunciamenti, non già come dovrebbe essere in chiave di completezza del proprio brand, bensì come una clava devastante del profilo del competitor. Perché, per quanto noi non siamo neutrali sull'opzione, i due capi opposti del dilemma restano compresi perfettamente nel campo del lecito.
Per quanto, come premesso, innescata dal confronto preelettorale, la questione ha finito per intersecarsi, non intenzionalmente, con collaterale dibattito avviato in alcuni consessi elettivi, per effetto dell'applicazione della prerogativa di approvazione dei preventivi di esercizio (recanti in pancia, tra l'altro, il trattamento dei compensi di mandato).
Ad nauseam, ribadiamo che le opposte opzioni sono consentite legislativamente ed, eticamente, sono equivalenti. Ovviamente se sono orientate dall'impulso di cercare il miglior modo per interpretare lo spirito di servizio.
Né, crediamo infine che il perno del ragionamento, per quanto non risibile, non sostanzi la centralità dirimente di una scelta a favore di opposte offerte.
D'altro lato, i pro e i contro sono esattamente compresi nella ratio dei tempi mutati. Sarebbe scorretto ascrivere questi mutamenti all'ordine peggiorativo.
Però, sarebbe altrettanto sconveniente trascurare la consapevolezza che l'ultimo quarto di secolo ha introdotto nella regolamentazione del mandato istituzionale periferico cambiamenti epocali. Nel precedente mezzo secolo, coincidente con una lunga punzonatura del format repubblicano e della repubblica delle autonomie, non episodicamente fu preso di mira un modello che, caratterizzato dalla massima estensione dell'associazionismo politico di massa (interpretato dai partiti), fu (ad opera sia di movimenti elitari sia di opinionisti snob) preso dall'accusa di “partitocrazia”. Ben lungi l'idea che tale modello fosse esente da mende. Vero è che il ciclo della massima prerogativa di partecipazione alla vita pubblica ed istituzionale coincise, nel bene e nel male, col più alto livello di partecipazione. E non solo in senso dialettico. In quanto i big players della vita politico-istituzionale si mostrarono per un lungo periodo, nonostante innegabili falle di assuefazione all'esercizio del potere (spesso prevalentemente fine a sé stesso), come un irrinunciabile meccanismo di funzionalità della rete amministrativa. In quanto capaci di assicurare sufficiente carburante dialettico (indispensabile per la distinguibilità dell'offerta dei progetti) ampio bacino di formazione e selezione del ceto dirigente, destinato ai ranghi di mandato.
Vabbè, non c'è niente di perfetto nella vicenda umana, soprattutto in quella afferente all'esercizio della funzione elettiva e gestionale. In primis, nella propensione, nella Prima Repubblica, ad ideologizzare le motivazioni della testimonianza civile. Comprensibile, in quanta figlia di una “storia non liquida”, ma se non erronea, deviante dalla linea guida dello spirito di servizio.
Messe le mani avanti sulle falle, diciamo che il modello “prima repubblica” dell'ingaggio della classe operativa si rivelò, quanto a principi di efficienza e di massimo coinvolgimento, imparagonabile coi successivi cicli.
La chiave di volta del cambio di passo sistemico fu rappresentata dall'adozione del maggioritario. Mah…sarà…a parte qualche zero virgola zero di casistica di panne il modello aveva funzionato benissimo. A parte qualche realtà di grandi centri (del meridione) impallati da degenerazioni non ascrivibili alla dialettica politica.
Vero è che, parallelamente alla tendenza a ridisegnare i campi politici ed i sistemi elettivi in chiave polare e maggioritaria, venne adottato il “modello del Sindaco”. Un approdo che riteniamo irreversibile e che dovrebbe, se proprio fosse così performante, adottato nei superiori livelli istituzionali (legislativi, in particolare).
Vero è che, mentre il precedente know how affondava i propri perni motivazionali nella rappresentanza della constituency (a livello di trasferimento di concepts e di sentiments nella vita istituzionale), il successivo, ispirato dal leaderismo, avrebbe liquidato ogni parvenza di retroterra “ideologico” (che non è una brutta parola).
All'insegna dell'autoreferenzialità e del compiacimento di incontrollabili bocche di fuoco mediatiche.
Non vogliamo dire sia tutto fuoco (comunicativo) e niente arrosto (gestionale). Vogliamo semplicemente cercare e trovare almeno una ragione plausibile all'impulso ad occupare bulimicamente la carica. Stare sul pezzo full time è diventato l'imperativo discendente dal modello, che, senza voler essere offensivi, ha mestierizzato (non professionalizzato) le modalità della politica e del mandato elettivo. That's policy job, bellezza. Ai nostri tempi, (a Cremona) funzionava così: nessuno aveva uno stipendio, al Sindaco l'equivalente di 500 euro, agli assessori la metà, ai consiglieri 7,5 a seduta del Consiglio (massimo 20 all'anno). I socialisti ne versavano minimo la metà al partito. Qualcuno tutto, perché avevano dato la delega. Il Sindaco e gli assessori, nonostante che le posizioni apicali e sub apicali della dirigenza fossero un quinto delle attuali, presidiavano la scrivania qualche ora al giorno e non tutti i giorni della settimana. Non avevano segreterie (tranne il Sindaco che aveva part time un collaboratore per gli appuntamenti e il capogabinetto per il coordinamento dei rapporti struttura interna). Per entrambe le posizioni era obbligatorio attingere dall'organico interno. La posizione era sliding door. Finito l'incarico, si tornava al lavoro usato. Se non per casi ad hoc, non c'erano assunzioni fiduciarie. Si entrava per concorso pubblico (dal Segretario Generale al fattorino). Le consulenze erano praticamente inesistenti, se non per esigenze temporanee e mirate. Non era prevista la figura dell'addetto stampa. Per sobrietà relazionale e perché gli eletti sapevano scrivere e comunicare di loro. E fin qui parlo del Comune Capoluogo. In Provincia, nel cui organico entrai per pubblico concorso, nel 1970 ad avere un ufficio era solo il Presidente Ghisalberti. Il cui segretario, attinto dai ranghi interni, svolgeva anche il ruolo di segretario del Consorzio Acquedotti. C'era l'ufficio stampa, che in realtà era soprattutto Studi, Programmazione e Rapporti coi Sindaci, i Consorzi Intercomunali e le istituzioni periferiche.
Nella prima repubblica nessuno dei Sindaci di Crema, di Cremona, di Casalmaggiore, di Soresina (per non dire dei Comuni minori) esercitò il mandato a tempo pieno (e a compenso pieno).
Per concludere la rivisitazione, da cui traspare nitidamente la nostra soggettiva propensione al precedente modello, aggiungeremmo, se consentito, una argomentata controindicazione del full time.
Infatti, oltre che sul piano concettuale, la pretesa di stabilizzazione ai vertici dell'istituzione, si scontra con la palese assenza di necessità: un sovrabbondante apparato dirigenziale, costoso e incongruo.
Nell'incipit di questa riflessione avevamo segnalato che le motivazioni apparentemente neutrali della scesa in campo sono venute ad incrociarsi, in non pochi Comuni, con l'adozione dei provvedimenti di fissazione della misura delle indennità di carica.
Già, il potere centrale, frequentemente disattento alle criticità dei territori periferici, ha ritenuto di tamponare consentendo l'aumento delle indennità degli amministratori (metabolizzate nei fondi statali).
L'argomento è venuto di attualità anche nel consesso elettivo del Capoluogo, come in altri Comuni.
Poi, la si butta in politica; prolungando all'infinito quel simpatico gioco a smerda dell'avversario.
Qualcuno, nelle more della polemica, ha osservato che la maggiore ampiezza delle facoltà di spesa per questa voce dovrebbe essere impiegata in un occhio di riguardo per le piccole realtà comunali. In cui si corre fortemente il rischio di non trovare definitivamente la fondamentale risorsa civile, costituita dalla disponibilità a mettersi in gioco per il bene comune.
Curiosissima variante della creatività dialettica (nel demolire o minimizzare il contributo critico dell'opposizione) è la controdeduzione della Giunta di Pizzighettone. Che suona un po' così. I soldi li manda Roma. Tiriamoli a casa e non lasciamoli nella disponibilità di “Roma ladrona” (tale evidentemente resta nell'immaginario leghista, nel frattempo approdato al sovranismo).
Chiudiamo, per un dovere di coerenza rispetto alle tesi fuori coro espresse in materia, richiamando il profilo di un campione civile collocato in posizione opposta all'attuale mainstream. Ci riferiamo a Gino Rossini, il primo Sindaco elettivo del secondo dopoguerra.
Del cui profilo etico estraiamo, per il versante tematico che abbiamo qui approfondito, da Il Socialismo di Patecchio, quanto appresso trascritto. Non prima di aver precisato che Rossini era stato eletto (col proporzionale) nel marzo 1946 e che, già qualche mese dopo l'elezione, era stato vittima della recrudescenza delle patologie acquisite nella trincea della prima guerra mondiale e con le bastonature delle squadre farinacciane.
“Tutti questi fatti si intrecciavano, bisogna pur dirlo, con la salute declinante, di Rossini, che, di ciò consapevole e, per di più motivato da un'incomparabile correttezza politico-istituzionale, ad un certo punto, si risolse alle dimissioni.
Affidate, in data 10 febbraio 1948, ad una lettera indirizzata al Consiglio Comunale:
“Circa due anni or sono, la fiducia dei cittadini cremonesi e dei compagni Consiglieri Socialisti e Comunisti, mi riservava l'onore della elezione a Sindaco di Cremona.
In tutto questo tempo, ritengo di aver dimostrato il mio più intenso e più affettuoso interessamento per la cittadinanza, specie per le categorie dei cittadini meno abbienti, spinto da un intimo sentimento di fraterna solidarietà e dalla perfetta conoscenza dello stato di miserevole condizione di numerose famiglie.
Ora però, amici Consiglieri, mi trovo nella situazione di lasciare il mio posto, causa la necessità urgentissima di curare la mia salute e ciò a seguito del male che nuovamente mi ha colpito (ben tre volte in questi ultimi dodici mesi) e preoccupato della stagione invernale che mi costringe a più forte, assoluto riguardo se non voglio ancora aumentare il pericolo di un più grave pericolo di male e l'acuirsi dei dolorosi disturbi propri della mia invalidità di guerra.
Vi prego pertanto compagni ed amici del Consiglio Comunale di accettare le mie dimissioni da Sindaco e dicendomi lieto della fatica che fino ad ora sostenuto a favore dei miei concittadini e della mia città, vogliate gradire i miei più cordiali saluti ed i ringraziamenti più sentiti per la preziosa vostra collaborazione svolta per il bene della Amministrazione Comunale e della nostra cara Città”.
La decisione di Rossini aprì una fase di incertezza, in teoria non proficua per la gestione comunale; ma ebbe, sicuramente, il merito di costringere tutti a mettere le carte in tavola per superare quelle incertezze, da cui la Civica Amministrazione avrebbe tratto maggior nocumento.
Ai primi di maggio il quotidiano annunciava “Il Sindaco recede dalle proprie dimissioni:
“Abbiamo tempo fa annunciato che il Sindaco aveva intenzione di dimettersi per regioni di salute, e di questa sua volontà aveva fatto partecipi numerosi conoscenti e alcuni compagni di giunta.
Senonché in questi ultimi giorni, e specialmente durante il breve periodo in cui egli è rimasto a Cremona (ora è tornato all'Ospedale Civile di Brescia per riprendere quella cura, che gli auguriamo vivamente possa ristabilirlo completamente) egli è stato avvicinato da numerosi amici, i quali, prospettandogli la situazione locale, lo anno esortato a voler ripensare alla cosa.
E Gino Rossini, che ha sempre dato prova di spirito di sacrificio e di alto attaccamento al dovere, ha dichiarato ieri di restare al posto che da due anni ricopre con alta dignità.
Ieri sera il Consiglio Comunale, in seduta segreta, ha determinato di applicare anche nel nostro Comune la legge che consente che al Sindaco venga assegnata una indennità di carica.
Per svolgere la propria attività di primo magistrato cittadino, Rossini ha dovuto trascurare i propri affari che ne hanno subito un grave danno. (Andrebbe precisato quel “ha dovuto trascurare i propri affari che ne hanno subito un grave danno, che a distanza di oltre cinquant'anni potrebbe suggerire a posteri disinformati l'dea del risultato di un'oziosa neghittosità, subentrata nel Sindaco socialista come assuefazione al palazzo.
In realtà Rossini, mantenendo fede ad un rigore calvinista, si risolse, nel timore di suscitare compiacenti rapporti di lavoro, in cui potessero allignare aspettative di favoritismi, decise di dimezzare la propria clientela – nda)
Egli è sempre vissuto del suo lavoro modesto e assiduo: perdere mezza giornata in Comune, significa per lui perdere metà del proprio guadagno, indispensabile per far fronte alle più modeste necessità famigliari.
Da qui la decisione unanime di tutto il Consiglio (decisione presa fra gli applausi dell'assemblea) di accordare al Sindaco una indennità mensile di carica di L. 40.000 (attualizzabili in 500 euro d'oggi – nda).
Senonché il Consiglio si troverà di fronte ad una difficoltà: quella di far accettare a Rossini questa indennità che, ripetiamo, è ormai percepita da quasi tutti i Sindaci italiani, compresi quelli dei piccoli paesi.
Infatti, egli ha scritto al Vicesindaco dott. Pugnoli nei termini seguenti: ‘Ho visto che in data 11 corr. Hai diramato invito ai Consiglieri per una seduta straordinaria per trattare un ordine del giorno che al comma n. 2 dice –Indennità di carica al Sindaco-
Mi oppongo, con un netto rifiuto.
Pubblicamente e sulla stampa fu detto e scritto più volte che Sindaco ed Assessori prestavano disinteressatamente la loro opera ed io non intendo venir meno a queste dichiarazionì.
Mentre additiamo alla cittadinanza lo spirito di disinteresse di Gino Rossini, ci auguriamo che egli voglia comprendere come il Comune non intende corrispondergli un emolumento, ma semplicemente rimborsargli in parte quel ch'egli, impegnato dai doveri della sua carica, non può più guadagnare.
Una volta i Sindaci erano persone facoltose che potevano dedicare tutta la loro attività al Comune senza nulla perdere. Adesso gli amministratori sono dei professionisti, dei lavoratori per i quali una interruzione della attività può significare il disagio.
Rossini accolga questa indennità con lo stesso animo con il quale la città gliel'offre.
All'inizio della seduta consiliare di ieri, è venuta a galla la questione della eventuale crisi di giunta.
I rappresentanti della D.C. hanno fatto rilevare che la Giunta, nella sua composizione attuale, non rispecchia più il pensiero degli elettori, espresso nelle elezioni del 18 aprile; da qui la necessità di giungere ad una rinnovazione della compagine.
Dopo una discussione ampia e vivace, è stato stabilito di giungere a degli accordi tra i rappresentanti delle varie correnti, accordi che saranno discussi in una prossima seduta pubblica”
Omissis…
“Gino Rossini è ancora degente all'Ospedale di Brescia, ove è sottoposto a cure amorose.
Egli spera di poter tornare presto a Cremona completamente guarito.
Noi glielo auguriamo di cuore.
Abbiamo avuto occasione di incontrarlo a Brescia. Il suo morale appariva sollevato.
Gli abbiamo domandato qualche notizia sulle cose del Comune.
Rossini ci ha parlato della indennità che il Consiglio Comunale all'unanimità ha deliberato a suo favore.
Egli è irremovibile nell'idea di non accettarla. Anzi non riesce nemmeno a comprendere come un sindaco possa accettare un emolumento per svolgere le funzioni che la cittadinanza gli ha affidato.
‘Ad ogni modo – ci ha detto – la cosa mi riguarda assai relativamente: ormai ho presentato le dimissioni. E questa volta sono irrevocabili.
Come è noto ai nostri lettori, Rossini aveva rassegnato le dimissioni qualche tempo fa; poi, dietro insistenze dei suoi compagni di partito, aveva deciso di recedere sperando che questa sua decisione avrebbe agevolato un amichevole componimento della vertenza sulla composizione della Giunta.
‘Le mie speranze sono andate deluse –ci ha detto Rossini – Vedo che i rappresentanti dei vari gruppi consiliari non riescono ad intendersi, a trovare una via media che possa conciliare gli interessi della città con quelli dei partiti.
Per conto mio non ritiro più le dimissioni: faccio voti che la situazione possa schiarirsi e che il Consiglio possa giungere alla nomina del mio successore nella persona di un uomo che abbia veramente a cuore gli interessi della città, al di sopra di ogni interesse di partito.
Sarebbe assai bene che l'accordo potesse essere raggiunto, onde evitare un regime commissariale che non farebbe che arenare il programma di ricostruzione deciso dall'attuale amministrazionè “.