Il Consiglio Comunale, unanime (e questa è una gran bella notizia), perora la necessità di far incontrare le parti in causa per una ricomposizione dei contrasti che hanno fatto deragliare il modello di gestione fieristica condivisa…e qualcosa di più…della Fiera del bovino.
Ovviamente chi scrive incrociando le dita tifa assolutamente affinché il prosieguo proceda in modo edificante. Ma, a scongiuro di eventuali inopinati ulteriori testa-coda, si ha il dovere di segnalare che l'incontro tra le parti, tardivo di suo, partirebbe non certamente sotto benefici auspici se avvenisse per ragioni che, come si suol dire, non si possono declinare.
Ad esempio, sotto la pressione psicologica di averla fatta grossa, di dover recuperare credibilità e, senza rinunciare tampoco alle motivazioni sottostanti, rientrare in gioco.
Dobbiamo essere chiari, fino alla spietatezza; avendo, prima di ogni altro, sviluppato un'analisi poco incline agli arrotondamenti d'angolo.
La questione è che ci troviamo di fronte ad una materia in cui a nessuno è consentito di dire che è incinta ma poco poco.
Le analisi approfondite e dagli esiti inclusivi dovevano essere fatte in corso d'opera. Mentre si è preferito affidarsi, da parte delle categorie, a condotte sconsiderate. Delle categorie duellanti, ma s'intende, con la tacita comprensione di soggetti istituzionali, resi super partes da culture pilatesche e non interventiste. Istituzioni che, colpevolissimevolmente (rivestendo prerogative partecipate e dovendo rispondere del bene comune agli amministrati, senza distinzione di ruolo sociale) hanno preferito girare la testa dall'altra parte per troppi anni.
In una sorta di pax, imperniata su una specie di affidamento in comodato di strutture di rilevanza socioeconomica alle entità categoriali più direttamente interessate, ma non in esclusiva e con pieni poteri (compresi quelli di sfasciacarrozze).
Una pax, durata fino a quando gli equilibri tra i competitors sono rimasti tali, per manifesta impossibilità a modificarli o, ciò che ci sembrava o speravamo, in forza di un'etica pubblica superiore agli istinti di egemonia, categoriale e/o personale.
A botta calda, si è sparato ad alzo zero. In primis da parte dell'associazione di categoria, che, avendo avuto poteri quasi assoluti per oltre mezzo secolo, si è trovata, soprattutto per il gioiello (la Mostra del bovino) sottratto dall'argenteria, manifestamente disassato nel ruolo egemone.
Fino a 20 anni fa era accettato (quasi auspicato) che l'associazione di piazza del Comune gestisse le banche popolari, il Consorzio Agrario, l'Istituto Zooprofilattico, l'Associazione Allevatori e la Fiera (appunto). Smobilitati nell'indifferenza o nell'inconsapevolezza generalizzata nei confronti della portata autodistruttiva di presidi fondamentali.
Poi, è piombato uno tsunami che ha travolto questa impalcatura di potere, che arrivava a monopolizzare l'informazione e ad influenzare la vita politico-istituzionale.
Ma su questo argomento torneremo nel prosieguo, quando ci verrà l'uzzolo di una rivisitazione di fatti e misfatti dell'ultima metà di secolo.
Incontrarsi per cercare un punto d'incontro difficilmente riavvolgerà la pellicola. A meno che la sala regia del proditorio ratto non rinunci alla sostanza di un progetto, poco vocato agli interessi del territorio. Probabilità negata dall'editoriale di stamane apparso sulla testata, che la retorica del passato definiva “giornale dei cremonesi”. Quando sostiene: “resta una sola certezza: il dado è tratto. La scelta di ANAFIJ e Coldiretti è definitiva, non esistono margini di ripensamento.”
OK. Se, rebus sic stantibus, cosa aspettiamo dalle prossime mosse della comunità territoriale?
La mostra del bovino è un casus belli strumentale. La vera ragione è in capo alla occupazione di quote di mercato fieristico, ma anche e soprattutto di leadership di aree territoriali. Nonché di controllo di vocazioni in settori che si stanno agganciando ad una visione sinergica tra zootecnica, produzione agricola, trasformazione, terziario ambientalistico e turistico.
Su questo terreno, come si può leggere un po' dappertutto (tranne che nei pronunciamenti ufficiali e nella stampa territoriale) i “bresciani” (in realtà espressione di una sala regia di rango nazionale) si sono mossi con destrezza e sono arrivati a meta.
Certamente, come afferma il bravo presidente di AIC, Buzzella, ci si doveva riflettere e guardarsi intorno, per percepire ed anticipare le trasformazioni in corso. Invece, come da aforisma del carattere ruminante dei cremonesi, ci si è applicati (oltre che a darsela di santa ragioni tra e dentro i corpi intermedi categoriali) a letture statiche.
“La principale debolezza del territorio è la capacità di condividere il futuro”, sottolinea il leader industriale. “Bisogna agire, non reagire”. Essendo in ritardo, occorrerà anche reagire. Il che comporta sempre qualche controindicazione. Riavvolgere il filo e tentare di recuperare costituisce sempre impresa molto gravosa ed impegnativa. Specie quando non si è solo in presenza di punti di partenza molto distanti e difficilmente avvicinabili da feconde testimonianze vocate al bene comune.
In realtà, se non avviene un miracolo (allo stato attuale difficilmente preventivabile), c'é da temere come risultato di sentiments poco sinceri nell'intimo dei protagonisti del tavolo ricompositivo, una sorta di pareggio-panino. Da dare in offa ad una opinione incardinata in senso opposto alla tendenza divisiva.
Meglio essere chiari sul punto. Tanto il trauma si è manifestato all'azimut. Senza escludere nessuno, meglio partire a ranghi limitati ma nella chiarezza. La carne al fuoco è tanta. E come abbiamo detto, la mostra zootecnica che è anche simbolicamente importante, non esaurisce completamente il cumulo di ritardi e criticità.
Giustamente, viene fatto osservare che pende sul territorio la spada di una quasi totale trascuratezza del dovere di riequilibrare lo sviluppo per i territori. Buzzella, lucidamente, segnala che la principale vocazione, l'agroalimentare, la vera griffe che dura da oltre un secolo, non rientra né nelle priorità di accompagnamento né nel radar percettivo di una Regione, la Lombardia, che indirizza politicamente e tiene in mano i cordoni della borsa.
Con un centralismo asfissiante che si espleta, come in questo caso, della copertura e forse dell'induzione e del favoreggiamento dell'atto di pirateria.
Bisogna essere chiari. Sia sulla natura delle motivazioni e sulle conseguenze del cambio di passo. Sia sulle cose fin qui non dette, per convenienza di non dirle, sia sulle prestazioni, in materia di programmazione del futuro, del ceto istituzionale e della vita socioeconomica.
Esistono molte negatività. Quali una certa astrazione ad occuparsi di temi che non rientrano strettamente nei vantaggi diretti.
Questo ceto dirigente, diversamente da quello di mezzo secolo fa, scaturisce da reclutamenti molto sommari. Non certamente fondati sull'accertamento della conoscenza anche rudimentale delle materie territoriali e delle discipline socioeconomiche.
Il vettore principale della coesione di un territorio longitudinale e disarticolato dal punto di vista di una cultura coesiva è collassato. Nell'ultimo lustro è venuto meno quella stanza di composizione delle spinte centripete che era l'Ente Provincia.
Bisogna fare pacchetto di mischia qui: sulla capacità della comunità provinciale di esprimere una decente capacità di analisi e di progetto e delle istituzioni di raccordarsi ai corpi sociali (che hanno qualcosa di serio da dire sul futuro) e di rappresentare gli interessi originari, diciamo, con molta determinazione. (e.v.)