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Polveriera mediorientale 

Pur nella continuità ideale, cominciano (per noi) i se e i ma

  18/05/2021

Di E.V.

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Abbiamo pubblicato, autorizzati a farlo dall'autore e dalla testata socialista nazionale, l'apprezzabile editoriale di Mauro Del Bue (Terra santa, terra di sangue), che fa da apripista per un forum dedicato alle riflessioni e al confronto sul riacceso conflitto israliano/palestinese. Di cui tutto si può dire (anche se variano le motivazioni del casus belli che ha riacceso la miccia), tranne possa essere assimilato alla fattispecie della celebre frase vonclausewitziana circa il correlato tra politica e guerra. Perché quello che è in atto in Medioriente dal 1948 (anno di fondazione dello Stato israeliano) è un conflitto, che, pur riservando importanti aliquote politiche, è una guerra a puntate. Il cui prosieguo ed il cui epilogo appaiono insondabili. 

In questi giorni la ripresa delle ostilità, apparentemente avvenuta, oseremmo, in sordina ha fatto premio su una apparente modestia della materia del contendere e dell'iniziali bocche di fuoco. Che, tuttavia, non hanno impedito un'inattesa accelerazione, che potrebbe configurarla, se non proprio come le precedenti Intifade, sicuramente come il preannuncio di poterle presto replicare. 

Tutte le scuse sono buone, quando si vuol passare alle vie di fatto. Ma la miccia che ha scatenato conseguenze incomparabili è apparsa parva res (per quanto forse niente è definibile come tale ciò che accade in quel complicato quadrante). 

Il motivo: qualche casa occupata da palestinesi, ma dalla proprietà rivendicata per ragioni storiche (più probabilmente per tigna finalizzata a ben altri intenti) dagli israeliani. 

Gli abusivismi abitativi (che pure ci sono anche da noi) sotto i nostri cieli vengono gestiti con le nostre abituali neghittosità: decreto di sfratto, ingiunzione a liberare, comparsa delle parti e del cancelliere con le carte bollate, azione di contrasto sociale, richiesta di proroga…evvia evvia… 

Da quelle parti, invece, funziona diversamente. Sia perché l'apparente questione “immobiliare” limitata a quattro case sembra sottendere ad una guerra di speculazione edilizia su comprensori urbanistici resi appetibili dalla spinta allo sviluppo su entrambi i versanti sia perché, come si anticipava, da queste parti quasi nulla è ciò che sembra e tutto è utile a sparacchiare missili e a scatenare ritorsioni ben più attrezzate. 

Lo diciamo (come si conviene ad una testata che, pur volendo essere un'agorà di incroci e di confronti, rivendica una linea editoriale non indipendente): noi, se il problema è la messa in discussione del diritto ad esistere come libera e garantita entità statuale, stiamo con Israele (senza se e senza ma!). 

Lo siamo stati da sempre (idealmente perché eravamo allora alle prese con un girello) dalla prima guerra del 1948, quando l'alleanza araba tentò di uccidere nella culla la allocation, non garantita e neanche troppo simpatizzata dagli elargitori occidentali, destinata ad una nazione, dispersa e, come noto, quasi totalmente sterminata. 

Lo siamo stati attivamente nel prosieguo (diventati quasi adulti), nel giugno del 1967 nel corso della guerra dei sei giorni (quando imperversò a sinistra un soverchiante tripudio di solidarietà agli “oppressi” popoli arabi) fummo promotori, in piazza del Comune, di una contromanifestazione (dei movimenti giovanili democratici) di solidarietà e di appoggio ad Israele, la vera parte aggredita. 

Avremmo continuato ad esserlo (senza mai consegnare il cervello all'ammasso delle identificazioni dogmatiche) durante tutto il ciclo dei governi guidati dalla vecchia guardia laburista dei padri fondatori. Per tutto il ciclo di Rabin, la cui tragica (e non occasionale) fine avrebbe incardinato un percorso, in cui le ragioni della difesa di Israele, per quanto evocate, sarebbero state annacquate da un devastante cinismo politico. In cui preponderanza avrebbero avuto equilibri elettorali poco solidi ed inclini all'agibilità di modelli teorico-pratici di governo, poco sintonizzati con l'idealismo di Ben Gurion, di Golda Meyer, di Rabin. 

La derivazione, ai fini della continuità dell'identificazione e del rapporto di solidarietà, dell'Israele degli ultimi vent'anni da quel Pantheon sarebbe arbitraria e deviante. 

Noi stiamo costituzionalmente con l'Exodus, che pose fine alla Shoa ed alla diaspora, ed idealmente con le radici della cultura ebraica, rilevanti per la formazione del pensiero socialista e per le prime significative forme autogestionarie del lavoro (i Kibbutz). 

Israele è, in aggiunta a tutta questa incontrovertibile premessa, l'unica enclave del Medio-oriente in cui si pratica un modello liberaldemocratico (con ancora significativi ambiti di socialità e di forte coesione comunitaria). Ad annacquare il quale hanno contribuito l'incidenza nel paese reale dei flussi migratori provenienti dall'Europa Orientale e, soprattutto, un fenomeno regressivo, che senza essere tecnicamente reazionario, segna una forte discontinuità in senso destrorso. 

Ne è prova, nel caso occorresse, l'allineamento delle traballanti (ma non meno decisioniste) leadership recenti, sostenute, all'interno, dagli ambienti del fondamentalismo religioso e nazionalista e, dall'esterno, da partnership (come nel caso di Trump) decisamente imbarazzanti. 

Avveriamo e ribadiamo tutto quanto nelle premesse sui riferimenti storici (non esclusa, per differenza, la sistematica dislocazione storica delle entità arabe sempre dalla parte sbagliata dello scacchiere mondiale e dei modelli di democrazia) e sulle consapevolezze del quadro attuale (tra cui gli endorsements filo palestinesi che vengono da certi pulpiti non esattamente immacolati dal punto di vista del modello della libertà e della democrazia). 

Ma, a questo punto, abbiamo il dovere (pur nella consapevolezza della nostra modesta incidenza) di ribadire, da un lato, la nostra convinta solidarietà verso il popolo israeliano e, dall'altro, di preservare questo inestinguibile afflato dal risucchio nella spirale di sostegno incondizionato all'establishment di Tel Aviv. Soprattutto, se si considera che nell'accelerazione della vicenda potrebbe avere una motivazione cospicua il tentativo di riequilibrare le declinanti fortune del consenso e la periclitante posizione personale del premier (il cui profilo viene da noi assimilato ad una fattispecie similreazionaria) 

La nomenklatura (per quanto frazionata) dell'entità nazionale palestinese ha fatto, ancora una volta, di tutto per replicare i non virtuosi e non fecondi percorsi del passato, più remoto e recente. 

Tra cui la condizione di essere in quel quadrante la protesi dei peggiori ceffi del globo terracqueo. 

È forte in noi la preoccupazione che, in questa temperie, la solita tregua non basterà. 

Per i propositi devastanti resi operativi da una progressione fulminea e, soprattutto, dalla facilità con cui si è polverizzata la preesistenza di tracce di coesistenza tra israeliani ebrei e israeliani arabi. 

Comunque vada, sarà difficile riavvolgere la pellicola delle drammatiche sequenze in atto, che l'hanno polverizzata. 

Perché non ci sarà nessun esito militare, nessun trattato più o meno condiviso od estorto a rendere possibile una feconda resilienza. Il cui perno è la convivenza tra le etnie e i popoli, a partire dalla dimensione quotidiana e dalla consapevolezza dell'assenza di formule di riserva 

Non casualmente, anche se lo sguardo al futuro immediato non inclina all'ottimismo, preferiamo non distaccarlo dall'immagine che ritrae la donna palestinese e la donna ebrea, entrambe cittadine di Israele, intente a distribuire fiori come segno di volontà di convivenza pacifica. 

Sarà questa immagine la cifra iconografica di questo forum dedicato a questo drammatico dossier. 

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