(Manco non fosse stato preceduto dal quotidiano, incessante - ed, ammettiamo, edificante - bombardamento degli ormai ineludibili rimandi/esortazioni ad approfondire il nostro sotto-basico livello di inglese) pure il chairman dell'apprezzatissimo incontro-conferenza a Palazzo Comunale di qualche giorno addietro, il cremonese prof Fabio Antoldi (professore ordinario di Strategia Aziendale e di Imprenditorialità presso la Facoltà di Economia e Giurisprudenza dell'Università Cattolica del Sacro Cuore sede di Piacenza e Cremona e direttore del CERSI, il Centro di Ricerca per lo Sviluppo imprenditoriale dell'Università Cattolica), ha resistito alla tentazione di offrire agli interessati partecipanti un elemento aggiuntivo di riflessione: senza una discreta conoscenza dell'inglese non si va da nessuna parte.
Per una semplice e mirata (a a chi ne è a corto o addirittura privo) ragione e per un'altra generale che induce, per quanto andremo a dedurre dal quadro tracciato dai discussants (Beppe Sala, Sindaco di Milano, e Gianluca Galimberti, Sindaco di Cremona), a considerare proibitivo entrare nella mentalità dell'internazionalizzazione e nei suoi risvolti antropologici, culturali, finanziari, economici, educativi, se si insiste a restare chiusi nel proprio fortino. Dello sguardo breve, ai cui guasti certamente contribuisce un approccio neghittoso al nuovo (di cui una lingua non conosciuta o conosciuta al minimo sindacale costituisce un bel deterrente)
Mettiamo che sia d'obbligo per il docente Antoldi, il quale nelle aule insegna"Strategia aziendale" e "Business Strategy" (in lingua inglese), qualcosa concedere (ad una platea prevalentemente da livello elementary o, per gli ardimentosi, più su) a quella che è ormai diventata la lingua corrente.
Concedere, ça va sans dire, elegantemente (forse, per non infierire e/o per non apparire troppo snob), e per di più a piccole (e per questo apprezzate) dosi. Che hanno ottenuto l'effetto voluto di farsi comunque comprendere efficacemente (anche da chi sta scrivendo).
Diciamo subito che il conduttore ha operato con intelligenza, senso del ritmo, lievità e consapevolezza del ruolo. Dimostrando di conoscere perfettamente le materie in teoria consone più al profilo dei vertici amministrativi messi a confronto. Che, è doveroso ricordare, anche volendo prescindere dai ruoli pubblici e da qualsiasi giudizio di merito, presentano, di loro, curricula di alto livello.
Sala, laureato in economia aziendale all'Università Bocconi nel 1983, ha iniziato la sua carriera in Pirelli ricoprendo diversi incarichi nelle aree del controllo di gestione, della pianificazione strategica, della valutazione degli investimenti e nelle nuove iniziative di business. Dopo un biennio come city manager del Comune di Milano (epoca Moratti), è stato indiscusso artefice del riuscitissimo Expo del 2015. Le cui benefiche ricadute sono tuttora palpabili; soprattutto a livello di introduzione di un modello innovativo di rilevanza nazionale. Nel biglietto da visita rivolto al parterre, egli ha inserito, di certo per accreditare la sua buona predisposizione (presumibilmente discendente dal Milan dal coeur in man), un outing: la mamma è originaria di Crema. Circostanza che l'ha autorizzato a dichiarare di sentirsi in buona parte cremonese. I cremonesi apprezzerano molto. Ma azzardiamo un consiglio. Semmai capitasse sul Serio, faccia in modo che la gradita (dai cremonesi) rivelazione non arrivi all'orecchio di quel Sindaco, che ritiene cremaschi (noblesse obblige) e cremonesi appartenenti a categorie antropologiche inconciliabili.
L'altro protagonista del fecondo confronto (giustamente svolto nella forma pubblica e non, come più spesso succede, nelle segrete stanze), è stato, come anticipato, Gianluca Galimberti. Che a sua volta presenta apprezzabili credenziali accademiche, essendo dal 1999 docente a contratto presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia; dove ha insegnato nei corsi di "Fisica Generale, Meccanica e Termodinamica" e "Laboratorio di Fisica".
Stanti tali premesse che giustificano l'alto livello su cui si è svolta la discussione, ne è uscito un approfondimento piacevole, stimolante, proficuo. Sia per i (ancorché passivi) partecipanti (manifestamente appartenenti al ceto dirigente del territorio sia per chiunque avesse voluto capire almeno qualcosa, allo stato dell'arte, dei fermenti progettuali e dei concreti propositi dell'establishment, per non perdere l'aggancio alle opportunità offerte dai cambiamenti in corso.
Forse questo entusiasmo, quando le ordinarie performances ci ri-precipiteranno nella quotidiane delusioni, si rivelerà eccessivo.
Ma alcuni giorni fa è andata diversamente. Contribuendo a far riconciliare chi scrive (per quel che conta) con la mai sopita (più frequentemente delusa) aspettativa di voli alti e sguardi lunghi in capo al ceto investito di mandato pubblico.
Nel riportare questa sensazione e senza minimamente volerci sovrapporre a quanto già esaurientemente riportato dalla quotidiana informazione stampata, riteniamo utile un approfondimento, dal personale punto di vista ben s'intende, di alcuni perni entrati sotto il cono di luce della conferenza.
Che abbiamo dedotto, cogliendoli dall'assist finale, rivolto dal Prof. Antoldi, presumibilmente, anche agli astanti.
Il docente universitario ha argutamente confidato di inserire abitualmente nei titoli di coda delle slides impiegate nelle lezioni e nei seminari universitari una locuzione di prammatica: “take it's away”. In pratica: “ciò è quanto abbiamo detto; prendete e tiratene le conclusioni”.
Di seguito, prendendo in carico il senso dell'invito del prof. Antoldi, ripercorreremo la trama degli argomenti sviluppati e diremo cosa di essi è utile ed opportuno prender su; noi personalmente e l'opinione pubblica cremonese.
Per un'oretta (un lasso di tempo civilissimo, dedicato alla sostanza, come dovrebbe essere sempre, soprattutto, in politica) siamo saliti su una sorta di macchina del tempo. Proiettati in avanti per restare agganciati alla verve futuristica dei due primi cittadini e stimolati ad un ritorno all'indietro per il raffronto con un passato, che era incline a guardare ben oltre la punta del naso.
L'appartenenza alla categoria dei diversamente giovani, impone, d'altro lato, di restare ben allacciati alla locomotiva proiettata verso il futuro, ma anche di tenersi correlati, quanto meno per un dovere di memoria e con intenti costruttivi, all'esperienza. Cominciamo (forse con un eccesso di riaffermazione) coll'azzardare un (personale) take away del simposio.
La cui chiave di volta, tutta da scrivere in un progetto dettagliato, è rappresentata dalla consapevolezza, in capo ai Sindaci di due capoluoghi lombardi (diversi per dimensioni e caratteristiche, ma accomunati tanto da una medesima cultura riformista quanto da una lettura condivisa dei cambiamenti in corso e del modo di fronteggiali convenientemente) di lavorare insieme, pur nelle specificità, in un'ottica di interdipendenza.
Che potesse essere così per il primo cittadino della metropoli ambrosiana, in forza di un collaudato profilo aperto, cosmopolitan, si poteva anche sospettare. Appare, a questo punto, utile entrare, sia pure sinteticamente, nel merito delle linee guida che ispirano il primo cittadino di Milano (assurte negli ultimi giorni a riferimento anche del contesto nazionale) e dell' “offerta” di partnership rivolta ad un territorio che più di ogni altro presenterebbe, secondo le chiavi interpretative discendenti dai luoghi comuni, bassi standards di integrabilità nel modello metropolitano. Peraltro, non contiguo fisicamente (se non attraverso il cremasco, che non si è mai sentito anello di congiunzione con l'area padana). Né sul piano di quel continuum di omogeneità e fungibilità del modello socio-economico, che prescinde dai confini amministrativi.
A bassa sussidiarietà era stata la continuità tra hinterland milanese e territori periferici. Ma ciò avveniva nel ciclo fordista, in cui l'apparato manifatturiero aveva bisogno di decentrare funzioni accessorie e complementari e di assorbire mano d'opera (sia stanziale che pendolare).
In tale direzione il potere politico disegnò, a misura delle proprie esigenze, il potenziamento della rete infrastrutturale e della mobilità.
Fino a mezzo secolo fa (e partendo dall'inizio del novecento) Milano mostrò di vedere più lontano di quanto non avrebbe fatto, rinchiudendosi in un raggio metropolitano in senso stretto, alla fine del secondo millennio.
Nella seconda decade del XX secolo l'intelligenza cittadina, ben consapevole della necessità/opportunità sia di attrarre su di sé le aree periferiche della regione sia di estendere la visuale del proprio modello di sviluppo ben oltre, aveva azzardato, con il progetto della navigazione interna, un evidente simmetria con i modelli delle grandi metropoli europee.
Al punto che, almeno fino alla conclusione degli anni 70 dello scorso secolo, la fattibilità del canale navigabile Milano-Cremona-Po mostrò di rientrare nel novero di quelle innovazioni, che non solo avrebbero avuto feconda ricaduta sull'ottimizzazione della trasportistica massiva, bensì anche sulla creazione di un'area metropolitana talmente estesa a comprendere, se non proprio l'intera asta padana, certamente a raccordarvisi strutturalmente.
Poi, come sia andata è cosa bene nota: Milano ha smesso di guardare in tale direzione.
Togliendo priorità a quell'asse di sviluppo, ripudiandolo e guardando solo al proprio ombelico.
Emblematico, ad esempio, è il fatto che il Consorzio per la realizzazione del Canale Navigabile, fondato prima del fascismo (dalla giunta socialista) e presieduto a lungo da eminenti esponenti del ceto dirigente (tra cui Piero Bassetti, destinato ad essere nel prosieguo il primo Presidente della Giunta Lombarda e poi autorevole deputato nazionale) fu soppresso (senza tanto garbo) ed il suo demanio territoriale, funzionale alla realizzazione dell'infrastruttura, letteralmente (tanto per rendere didascalica l'irreversibilità della scelta strategica) cannibalizzato.
Certo che le parole gradevoli, riflessive, realisticamente promettenti di Sala sono musica (e non perché siamo una delle capitali mondiali della musica e del violino!) per una Cremona, che nell'ultimo mezzo secolo si è vista chiudere in faccia tutte le porte della complementarietà rispetto sia al centro metropolitano che alle altre aree lombarde.
Per quanto portati a strabuzzare gli occhi di fronte ad un'inedita offerta di partnership (sia pure circoscritta nelle dimensioni e nelle tematiche), che quantomeno suona come un'inversione di tendenza alla marginalizzazione, dobbiamo tutti ispirare a ragionevolezza e a realismo questa insperata apertura di credito.
Sala, per il vero, non ne ha limitato (come vedremo) la portata alla sola collaborazione nel campo del sapere, della cultura e dell'art (per quanto sia di assoluto valore la promozione di nuovi indirizzi negli atteggiamenti culturali e nei comportamenti civili, che rappresentino un costante aggancio ad una visione dinamica e realistica della comunità).
Ma anche fosse così limitata la disponibilità rappresenterebbe un'inversione di tendenza di grande portata.
Alzi la mano chi ricorda fondatamente un qualche precedente in materia!
Significativo è stato l'incipit della puntata a Cremona del Sindaco di Milano: la visita (da cui è uscito visibilmente ammirato) al Museo del Violino.
Qualcuno avrebbe potuto dirgli che il Palazzo dell'Arte di Piazza Marconi è stato per molti decenni un contenitore marginale ed imbarazzante, a causa dei precedenti rappresentati dall'epoca e dalla finalità della realizzazione (oltre che da quella accomodation col dirimpettante ras di Cremona).
La generosità del filantropo Arvedi non solo l'ha sottratto all'obsolescenza fisica ed allo scombiccherato destino di diventare museo del calcio (remeber?), ma soprattutto (lo dimostra la scelta di primo contatto col patrimonio culturale/monumentale) ne ha fatto uno dei perni di quel progetto di partnership che ha mosso da Milano Sala.
Che non si è limitato ad enunciazioni di cortesia ed a vaghe promesse (mettere in sinergia i due teatri, decentrare sulla capitale del Po l'indotto delle grandi mostre di Milano e della correlata filiera turistica). Ma ha enucleato anche qualcosa di molto concreto. Come, ad esempio, nell'anno di Monteverdi, l'indicazione di un interpello e di una sollecitazione, rivolta al Sovrintendente e Direttore Artistico Pereira (un manager di visioni planetarie) per una forte e costante sinergia tra Scala e Ponchielli, sullo specifico del violino.
Ci sia concessa, a questo punto, una digressione di carattere memorialistico. Fatichiamo molto a ricordare, oltre a quella dell'aprile 1981 (invitammo ed ospitammo il Sovraintendente Badini interpellato per un conforto ed un consiglio in materia di municipalizzazione dell'allora Condominio Ponchielli), altri contatti di iniziativa cremonese con il vertice del più prestigioso teatro mondiale.
Il primo cittadino ospite ha ricordato che sul capoluogo metropolitano confluisce ormai stabilmente e tendenzialmente in ulteriore crescita 250.000 studenti universitari (di cui 50.000 stranieri) e 5 milioni di turisti. Attratti dalle sue eccellenze (moda, fiere, musei) e non irrealisticamente indirizzabili, ove decollassero quelle sinergie di base, per quota residuale verso l'appealing dei “gioielli” messi in vetrina da Ghisalberti.
Francamente, anche se alla nostra età, poche sono le cose da facile entusiasmo, senza imbarazzo confessiamo, per quanto premesso, di essere stati favorevolmente impressionati sia dalla qualità della conferenza sia, soprattutto, dalla cornice da cui, in particolare, il Sindaco Sala ha fatto discendere la fattibilità di una collaborazione. Che, senza potersi definire a tutto campo, indubbiamente appare, per il corollario, tutt'altro che settoriale e limitata.
Tal che ci viene spontaneo azzardare che la partnership tra la capitale lombarda e la capitale del Po, potrebbe decollare con fecondi risultati per entrambi i partner. Indubbiamente Cremona trarrebbe i maggiori vantaggi a principiare dall'uscita dalla condizione di isolamento. A livello di ottimizzazione delle inespresse potenzialità attrattive nel campo dell'arte, della musica, della cultura, del patrimonio monumentale. Il volgo sostiene che carmina non dant panem. Nell'intento arbitrario di significare, traducendo letteralmente, che le poesie non danno pane. Né per quelle persone che scelgono l'arte come lavoro per vivere né per i poteri pubblici che vi investono in direzione di una crescita civile ma anche per un indotto economico.
L'esperienza di Milano dimostra esattamente il contrario. Figurarsi per un territorio come Cremona che oltretutto è privo dei fondamentali del grande capoluogo.
Ma per dare pane Cremona ha assolutamente bisogno di attivare sinergie anche in altri campi. Ad esempio, in quello del potenziamento dell'infrastrutturazione.
Perché, va doverosamente aggiunto, i due Sindaci non hanno limitato la loro disamina a quanto appena dettagliato. Ma hanno spaziato ad orizzonti molto più vasti. Specie da parte di Sala che, per la prima volta, ha mostrato di rovesciare quella miopia che troppo a lungo ha ristretto la visuale del Capoluogo lombardo al proprio hinterland.
Sala (musica per i nostri orecchi e balsamo per le nostre ferite) ha rilanciato l'ambizione di Milano di essere al centro di un assetto territoriale indirizzato nel senso della continuità.
Quindi, ben collegato ad una rete viaria, congrua ad un armonico progetto innovativo ed espansivo.
Il capoluogo nelle ultime due, tre decadi ha cambiato pelle ed a guardato sempre più al modello delle grandi aree metropolitane europee (che in questo l'hanno decisamente preceduto).
Meno economia fordista e più manifattura dell'innovazione. Più terziario, ma non inteso nel senso tradizionale.
Sia consentita una imprescindibile digressione di ordine generale, che attiene alla difficoltà, appalesatasi anche per le realtà territoriali non periferiche, a trovare una chiave di lettura della realtà per invertire le ricadute della stagnazione(e per quelle periferiche, come la nostra) del declino.
Oltre al costante shock demografico, parzialmente rimpiazzato da un flusso migratorio, che (per le modalità di assoluta ingovernabilità con cui avviene) non solo non inverte il degrado ma lo accentua, è palpabile la cesura tra le visioni tradizionaliste e la ricerca, da parte (in particolare) delle nuove generazioni e dei segmenti più evoluti socialmente e culturalmente, di condizioni di mobilità sociale e territoriale.
Il loro inappagato impulso all'innovazione ed alle pari opportunità di partenza alimenterebbe fatalmente l'esodo e l'ulteriore avvitamento delle dinamiche regressive. Per evitare la marginalizzazione (e, per le province periferiche, il completamento del declino) occorre portare nel territorio il lavoro di qualità.
Il relatore milanese ha ribadito, in sala della Consulta, la priorità dell'obiettivo di portare a Milano l'EMA, che, per effetto della Brexit, uscirà sicuramente dal radar londinese ed, auspicabilmente, approdare a Milano. Registriamo che due settimane dopo l'annuncio una delegazione di alto livello si è recata “sul pezzo” a Londra per prendere contatto con quella realtà (mentre la città di Bologna si sta attrezzando per ospitare la «nuova sede del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (Ecmwf)». Due obiettivi che, se raggiunti insieme, non potrebbero non influenzare beneficamente un destino di vasta area metropolitana per tutta l'asta territoriale posta lungo il Po.
Con conseguenze tali da alzare di molto il rating internazionale di Milano, da un lato, e, dall'altro, di prospettare un indotto di cui potrebbe beneficare tutta la regione. Specialmente se la Lombardia si collocasse nella prospettiva, che abbiamo appena enucleato, di ispirare le linee-guida di una programmazione territorialmente armonica ai profili tracciati a Cremona.
Detto di Sala, non potremo certamente tralasciare o minimizzare, per quanto il significato e la prospettiva della sua testimonianza risultino prevalenti, il senso del contributo di Galimberti.
Ha piacevolmente sorpreso (almeno chi scrive) la performance del primo cittadino di Cremona. Nei cui confronti non raramente si è avuto fondato motivo di rimproverare una quasi assoluta astrazione (soprattutto, nel postulare una fantasmagorica rigenerazione della città) da un qualche aggancio ad un solido e meditato progetto che si movesse in tale direzione.
Abbiamo percepito, sin qui, un profilo bipolare nel nostro primo cittadino: dinamico nella narrazione dell'ordinaria quotidianità (per non dire dell'effimero) e da fermo-immagine nella perspicacia strategica.
Vero è che, sin dall'insediamento, è apparso proteso ad un'analisi del futuro suscettibile di varcare le quattro porte. Ci riferiamo ad un innegabile attivismo sul versante del progetto VENTO; ma anche, latu senso, di una promettente visione d'area (che ha portato virtuosamente ad inedite collaborazioni, nel campo delle politiche culturali e turistiche con Brescia, Bergamo e Mantova).
Galimberti è andato vieppiù sviluppando l'ineludibilità (pena l'accentuazione della tendenza alla marginalità) di un approccio a vista più lunga, ad di un disegno strategico, che consenta a Cremona ed al bacino lombardo del Po di giocare le proprie carte al tavolo dei riposizionamenti rispetto ai cambiamenti in corso.
Nelle teorie darwiniane è destinato a salvarsi non chi si oppone ai cambiamenti ma chi dimostra di adattarvisi meglio.
Tale capacità nell'ultimo quarto di secolo è scomparsa dalle mappe e dal radar del ceto dirigente cremonese; in particolare di quello che, per il mandato di rappresentanza, dovrebbe maggiormente avvertire l'obbligo di essere nelle posizioni di testa dello sforzo di percezione del senso di marcia della comunità e dei dintorni. Ma in posizione di prossimità e interdipendenza. Così, visto che, in un certo qual modo, il perno assertivo per le consapevolezze e le volontà sinergiche ha come incontrovertibile ascendente la constatazione di una volontà (più o meno dolosa) di isolamento del territorio, allora, sia pur guardando con molto compiacimento e con molta speranza alle prospettive delineate dalla conferenza, bisognerebbe chiedersi se è lecito espungere dall'analisi la ricerca/ammissione delle responsabilità di questa costante perdita di posizioni e di opportunità.
Sarebbe in ogni caso vietato praticare il luddismo nei confronti della razionalizzazione dell'asset dei servizi (che non può lasciare tutto com'è e dov'è). Siamo un territorio piccolo, decentrato ed irrilevante (nonostante il valore dei rappresentanti istituzionali attualmente impegnati nel governo, nel parlamento nazionale ed in Regionerispetto ad un sistema politico che è impostato per scandire una gerarchia di priorità dettata dalle aree metropolitane e dalla specularità ai poteri forti.
Cremona s'è persa (quando ancora tale mappa dei poteri non era così proibitiva) un filotto di opportunità per mantenersi agganciata al convoglio della razionalizzazione e della modernizzazione. In larga parte ciò è dipeso dalle scelte esercitate da parte di livelli di potere, superiori ed irraggiungibili dal punto di vista dell'ordinaria azione di lobbyng (nonostante che allora schierasse autorevoli rappresentanti nel governo, nel Parlamento, nella Corte Costituzionale). Ma in parte non irrilevante dipese anche da una sorta di auto-sottrazione. Vabbé che il decumano della Gallia Cisalpina fu definito, nell'ultimo secolo dell'era pre-cristiana, dal tracciato deciso dal console Marco Emilio Lepido allo scopo di collegare in linea retta Rimini con Piacenza. Vabbé che tale direttrice avrebbe orientato nei successivi duemila ed oltre anni le linee della antropizzazione; diventando la dorsale dell'infrastrutturazione e dello sviluppo. Dalle strade ferrate al trasporto su gomma ai, per finire, ai poli della logistica. Che, come è facile constatare, si fermano rigorosamente a dieci chilometri da Cremona; mentre, se fosse stato consentito il decollo del porto/canale e del bacino di viraggio di Tencara, avrebbero potuto insediarsi su un'asta lunga dieci chilometri, tra il Po e l'Adda.
Invertirne il senso e le conseguenze consolidate appare francamente irrealistico.
Ma, se, in aggiunta a tendenze consolidate e difficilmente modificabili, ti fai scippare l'istituto zoo-profilattico, l'ASL, il consorzio trasporti pubblici, la Camera di Commercio, l'Azienda Regionale dei Porti Interni, allora non sei più solo un assetto territoriale remissivo. Ma dimostri di essere decerebrato (dal punto di vista della capacità progettuale); in quanto dimostri di neanche capacitarti delle conseguenze, immediate e prospettiche ed in quanto accetti supinamente le logiche di questo strisciante ma non meno sistematico spoils system. Che depaupera i territori periferici e ne pregiudica definitivamente le chances di riequilibrio
Ma, dato che ci siamo, osserveremo che il depauperamento delle preesistenze e delle prospettive è andato sviluppandosi come sommatoria di indirizzi alloctoni e di neghittosità autoctone.
In tal modo, da subito si rende problematica l'accessibilità alle funzioni (non solo per Cremona che dista sessanta km da Mantova, ma vi immaginate per Crema!), ma implicitamente si accetta la rarefazione dell'indotto derivante dall'esser sede della struttura burocratica.
Si parla sempre con rimpianto dell'isolamento, causato dall'esclusione dalle grandi reti infrastrutturali e ci si dimentica che le istituzioni locali, a metà degli anni 50, fecero poco (per non dire nulla) per influenzare, in sede di progettazione, un percorso della Autostrada del Sole nel proprio territorio e fecero di tutto, pur partecipando alle spese di impianto, per non avere a Cremona (come Padre Gemelli aveva caldeggiato) la sede della Facoltà di Agraria (che sarebbe andata a Piacenza).
Solo negli anni sessanta e settanta, con l'apertura di nuovo ciclo riformista anche nell'amministrazione periferica, la classe dirigente locale mostrò la volontà di un indirizzo più dinamico.
La visita del capo dello Sato Gronchi avrebbe simbolicamente riaperto la questione della portualità e della navigabilità interne, come precondizione per il riequilibrio dell'area padana.
Per un'intera decade le istituzioni locali ed i corpi intermedi sociali, ben consapevoli dell'importanza di quella opportunità, avrebbero promosso una campagna relazionale di grande efficacia. Il 2,3 febbraio del 1971 l'intera Giunta Regionale della Lombardia sarebbe venuta a Cremona per un briefing di programmazione socioecnomica. Il 2 e 3 ottobre dello stesso anno le istituzioni locali, favorite dall'iniziativa del Consorzio del Canale Navigabile, avrebbero ospitato l'incontro tra le Regioni Lombardia e Puglia come premessa progettuale di quel “nastro azzurro per l'economia italiana, che avrebbe potuto essere l'asse di navigazione Milano, Bari, Taranto.
Nel settembre 1973, sempre a Cremona, si sarebbe svolto un'importante simposio di carattere regionale sul tema “I fiumi cremonesi: un impegno di protezione ecologica e di valorizzazione turistica”. E, a dimostrazione che la tensione civile, in quella aurea temperie, prescindeva dai mutanti cicli politici ed aveva come stella polare il superiore bene della comunità, il ceto dirigente del territorio, ben consapevole del primario valore dell'interdipendenza istituzionale, l'8 maggio 1976 organizzò, con l'autorevole partecipazione del governo regionale, una conferenza economica dell'area meridionale della Lombardia.
Ne era certamente in omaggio ad una fregola convegnistica che le istituzioni locali, nella decade compresa tra la metà degli anni sessanta e settanta, andò sviluppando un'intesa attività di progettualità, discendente dalla cultura della pianificazione a quell'epoca molto in voga, e di pressing istituzionale rivolto ai superiori livelli di governo.
Tale impulso si integrava perfettamente in una stagione amministrativa fortemente attiva e suscettibile di invertire gli scenari di distruzione, di arretratezza e di ingiustizia sociale, lasciati dal ventennio e dalla guerra.
In autofinanziamento si sarebbero realizzati: un forte programma di edilizia scolastica e due moderni nosocomi a Cremona e a Crema, l'Autostrada Piacenza-Cremona-Brescia, la dorsale della viabilità ordinaria di collegamento al capoluogo di regione ed alle due province contermini di Parma, Brescia e Basso Lodigiano, attraverso la direttissima Brescia-Parma (con il ponte Isola Pescaroli-Roccabianca) e la strada provinciale Crotta d'Adda-Maccastorna (con l'omonimo ponte, che pose in quiescenza il traghetto) e, con il finanziamento statale, il Porto Canale ed il primo tratto del canale medesimo fino al bacino di viraggio e di testa prima del ponte/canale di superamento dell'Adda.
A dimostrazione del fatto che le menti capaci di orientare il valore civile della testimonianza e della progettualità non si erano ancora ottenebrate e le volontà per il bene comune non ancora anchilosate nelle visioni particolari, trovò, a metà degli anni settanta, congrua e feconda soluzione l'integrazione dei due territori periferici delle due province del Sud Lombardia (il Casalasco ed il Viadanese). Che costituì premessa per la costruzione del nuovo nosocomio integrato Oglio Po.
Per quanto si riferisce alle concrete prove di sostenibilità dei progetti di navigazione interna, anche a scopi di turismo sociale, fu costituita la SNI, costruttore e gestore della motonave Stradivari, che per alcuni anni dimostrò la fattibilità del modello su vasta scala.
Del che alleghiamo ampi stralci (oltre che della memoria di chi scrive) dedotti da quel formidabile raccoglitore di fonti che è stata la rivista “Provincia Nuova”
E.V.
1° Foto : Sala e Galimberti
2° Foto: una panoramica della Sala della Consulta