Eh sì, sono passati proprio cinquant'anni anni da quel maggio del 1970, in cui, con l'approvazione della legge 300, veniva posto un punto al lungo processo fatto di lotte sociali, di testimonianze politiche, di lavoro legislativo, che costituiva, insieme alla programmazione economica, il perno della stagione di riforme per cui la cultura socialista ed il cristianesimo sociale si erano incrociate in una stagione destinata, nelle intenzioni, a cambiare profondamente l'Italia.
L'attuazione di quella legge, fondamentale ai fini della concretizzazione della parte programmatica della Costituzione nella parte che ne definiva il perno, non sarebbe stata esattamente una passeggiata.
In dipendenza sia dell'assenza di un consenso plebiscitario che richiederebbero tutte le leggi di valenza ordinamentale sia del preannuncio in corso d'opera della riserva di tirargli la giacca e di piegarne a fine di parte l'asse portante. Che era, appunto, rappresentato dal complesso di disposizioni legislative che fornissero garanzia al diritto del lavoro.
Diciamo che quel complesso di disposizioni, tratte dal senso delle lotte sindacali durate un secolo e dalla rivisitazione simmetrica degli ordinamenti di paesi più avanzati, non solo non avrebbe avuto vita facile, bensì avrebbe fornito materia di ulteriori lotte sindacali e molto lavoro alla giustizia del lavoro.
Con l'approssimarsi alle cinquanta candeline è cresciuta (non quanto avrebbe dovuto) la soglia dell'attenzionamento nei confronti di un cambio di passo sociale e legislativo che, comunque lo si voglia giudicare, costituisce o dovrebbe costituire la sistemazione accettata di un asse portante del sistema socioeconomico.
Nella settimana in corso le maggiori testate giornalistiche nazionali (in particolare Repubblica e Corriere della Sera, cui rinviamo l'attenzione dei nostri lettori) non hanno perso di vista la ricorrenza; favorendone in tal modo il riposizionamento nella centralità delle consapevolezze.
A dire il vero la nostra testata non l'ha mai persa di vista; se è vero che nel corso degli ultimi anni e, soprattutto, in occasione dell'iter dell'inconsiderata riforma di qualche anno fa, non mancammo di rendere pubbliche le nostre riflessioni (che alleghiamo).
Non farà male ritornarci sopra, a cominciare da un opportuno rimando agli articoli della Costituzione che ne costituiscono la linea-guida:
Art. 1 - “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”
Art. 35 - “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”
Art. 39 - “L'organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso gli uffici locali e centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
Art. 41 - “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”
Art. 46 - “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro ed in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
I primi anni della Repubblica, come sarà facile ricordare, furono pervasi da un permanente scontro frontale di natura politica e di natura sociale.
Che operarono manifestamente in combinato e misero al centro della testimonianza sociale e sindacale l'imperativo di tener testa nel luoghi di lavoro al conflitto e, contestualmente, di interpretare l'impulso a fornire anche all'Italia quadri normativi avanzati.
Le premesse per un organico ordinamento del lavoro risiedevano nella rivendicazione di una giusta causa dei licenziamenti (per alcuni versi la progenitrice dello Statuto dei lavoratori ed, in particolare, dell'art. 18).
Artefice di questa aurea stagione di progresso sociale fu il ministro socialista Giacomo Brodolini (1920-1969), un uomo della Resistenza e del Sindacato, giunto in giovane età ai vertici del PSI, dopo aver conseguito una significativa esperienza ai vertici della CGIL (con Di Vittorio segretario generale).
La sua idealità, la sua indefettibile coerenza, la sua esperienza maturata nelle lotte operaie e nella testimonianza per l'emancipazione dei lavoratori avrebbero costituito idonea base per l'espletamento dell'impegnativo ruolo di ministro del lavoro e della previdenza sociale, assunto nei primi governi organici di centro-sinistra.
La passione civile e la perfetta conoscenza della materia costituivano il viatico per vincere indugi e resistenze, che ancora si frapponevano alla riforma.
Data la complessità della materia, il giovane ministro socialista istituì una commissione di studio per la redazione di una bozza del testo della legge (da lui stesso denominata "Statuto dei diritti dei lavoratori"), chiamando a presiederla un giovane professore universitario socialista, Gino Giugni (destinato a succedergli un quarto di secolo dopo alla guida del medesimo Ministero).
Il sostanzialmente rapido iter parlamentare avrebbe trovato completamento, dopo la sua morte avvenuta l'11 luglio 1969, dal successore on. Donat Cattin, un democristiano transitato per una significativa esperienza ai vertici della CISL e leader, dopo Pastore, della corrente Forze Nuove.
In segno di riconoscimento alla testimonianza civile e politica, con cui aveva portato al traguardo un'impegnativa stagione sociale e politica, il Capo dello Stato, Giuseppe Saragat, gli avrebbe conferito alla memoria la Medaglia d'Oro al Valor Civile, con la seguente motivazione:
«Esempio altissimo di tenace impegno politico, dedicava, con instancabile ed appassionata opera, ogni sua energia al conseguimento di una più alta giustizia sociale, dando prima come sindacalista, successivamente come parlamentare e, infine, come ministro per il lavoro e la previdenza sociale, notevolissimo apporto alla soluzione di gravi e complessi problemi interessanti il mondo del lavoro. Colpito da inesorabile male e pur conscio della imminenza della sua fine, offriva prove di somma virtù civica, continuando a svolgere, sino all'ultimo, con ferma determinazione e con immutato fervore, le funzioni del suo incarico ministeriale, in una suprema riaffermazione degli ideali che avevano costantemente ispirato la sua azione».
Fu, quella legge, uno dei passi più significativi di una stagione ispirata da forti consapevolezze ideali e permeata da incomparabili impulsi riformisti ed innovatori (purtroppo, durata brevemente e funestata da tornanti conservatori, quando non addirittura reazionari) Non era tutto oro quel che luccicava. Brodolini morente raccomandò a Giugni: “Fai in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi”.
Anche se oggi alcuni aspetti della riforma sembrano in controtendenza con le rapide e profonde trasformazioni (anche nelle abitudini e nei costumi: allora non c'erano l'euro, la globalizzazione, gli immigrati, il computer, il cellulare, e i social network), il suo impianto etico conferma tutta la sua importanza; allora, si ripete, fu un fatto epocale. E rappresentò una delle sfide vinte dal PSI e dalla sinistra riformista sul terreno dell'attuazione di quelle riforme che giustificavano l'incontro tra socialisti e cattolici.
Nulla è immutabile. Anzi, occorre trarre proprio dall'evidenza dei mutamenti le consapevolezze e la determinazione per ancorare l'aggregato idealistico alla sostenibilità dei contesti.
Per un approfondimento particolareggiato rinviamo ai due allegati.