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Liturgie e sovraesposizioni

Il Duomo prima e dopo

  26/07/2021

Di Redazione

Liturgie+e+sovraesposizioni

Egregio Direttore, mi riferisco a quella che, per qualche giorno, ha arrischiato di diventare una querelle estiva. Mi riferisco all'annunciato restyling dell'abside del Duomo di Cremona, altrimenti detto adeguamento liturgico, ruzzolato con una certa verve sulla scena mediatica e, nel breve volgere, sparito, probabilmente a causa di un clamoroso insuccesso di pubblico e di critica, dai radar. Ho pensato io, prima che si completi il gesto di lanciare il sasso e di nascondere la mano, di farmi sotto e di ricollocarlo sotto il riflettore delle consapevolezze e, ne sono convinto, delle critiche e delle testimonianze attive. Indirizzate, auspico insieme ai molti cittadini scesi in campo, al lodevole gesto di riavvolgere interamente la pellicola di questo scombiccherato progetto. Vengo a spiegarne le ragioni. Trattasi, oltre che di un intervento di ricollocazione degli arredi all'interno della cubatura centrale del tempio anche di una non esattamente marginale discontinuità della cifra stilistica di una delle più significative cattedrali, italiane ed europee. 

Apprezzata, oltre per l'indiscutibile valore monumentale ed artistico (prerogativa diffusa, ma non uniformemente così elevata) del patrimonio dei siti di culto cristiano, ma, se è consentito, apprezzata soprattutto per l'omogeneità stilistica rimasta intatta nei tempi. …Fin qui dovrei aggiungere! Vero che, nel corso dei secoli, ben pochi titolari di cathedra hanno resistito all'impulso, dedotto dall'influenza dei mutevoli cicli artistici, di lasciare di sé, del proprio passaggio nella vita terrena e nell'esercizio della funzione, tracce percepibili nella manomissione delle preesistenze. 

Ma, mentre per il nostro Duomo ciò è avvenuto secondo una logica di work in progress in capo ad un progetto unitario, il cui completamente veniva affidato ai tempi del reperimento delle risorse e dell'espletamento fisico del lavoro, non di rado nel tempo diffuse manomissioni denunciavano un interventismo lesivo dell'uniformità stilistica. 

E, pazienza se si tratta di qualche tempio alla periferia del prezioso e sterminato patrimonio monumentale del culto cattolico. 

Ciò non si può dire della “riforma” programmatica e strutturale implicita nell'annuncio della Curia, fornito e dettagliato nel sito telematico e approfondito (con qualche imprevisto, malcelato stupore nei confronti del basso successo di critica e di pubblico) dagli organi di informazione; riforma proposta o fatta passare come un intervento di adeguamento dell'arredo e del riposizionamento degli spazi a necessità (se ho capito bene) di un sia pur tardivo adeguamento all'indirizzo liturgico derivante dal Concilio Vaticano II. D'altro lato il nocciolo è rintracciabile in quell'assertivo: “La Cattedrale è segno dell'unità della Chiesa che, riunita attorno al Vescovo, soprattutto nelle celebrazioni diocesane, manifesta la «struttura organica e gerarchica del corpo ecclesiale, che si esprime nei vari compiti e nel diverso comportamento secondo le singole parti della celebrazione. Pertanto è necessario che la disposizione generale del luogo sacro sia tale da presentare in certo modo l'immagine dell'assemblea riunita, consentire l'ordinata e organica partecipazione di tutti e favorire il regolare svolgimento dei compiti di ciascuno” 

Mi appello all'articolo 1 della declaratoria relativa all'obbligo di rispetto delle professionalità (ufelé ufelé, a ognun el sò mestè) per azzardare che, pur masticando poco della materia, si potrebbe dedurre che nel corso del precedente millennio ed in termini più ravvicinati (i 57 anni che ci separano dalla conclusione del Concilio) sia stata disattesa quell'immagine. 

Mah…sarà…anche se si fa molto fatica a realizzare sia che il vistoso processo di scristianizzazione costituisca la conseguenza di quel mancato adeguamento liturgico e spaziale sia che questa tardiva riforma possa rimettere (ovviamente con il dovuto rispetto) il dentifricio nel tubetto. 

Forse qualcuno non si è spiegato bene e ha affidato tutto ad una metabolizzazione fideistica. Forse i molti, cui il messaggio veniva affidato sul filo della infallibile certezza dell'annuncio andato a segno senza troppi inghippi, hanno, invece, voluto capire e fare un bilancio dei costi e vantaggi. 

Dei costi è stato assicurato che saranno in parte cospicua dedotti dalle destinazioni della CEI (dal flusso dell'8 per mille o della parte salvata dagli “investimenti” vaticani); fermo restando che una residua e non esattamente trascurabile parte verrà alimentata dal buon cuore dei cittadini e fedeli. Anche se fosse questo il maggior perno della motivazione/rassicurazione finanziaria sulla sostenibilità dell'operazione, non v'è chi non veda la distonia di uno scricchiolante equilibrio di costi e ricavi in capo a quella che un tempo, sotto il profilo della Chiesa temporale, fu una vera ammiraglia. Poi, come si sa, a botte di malversazioni operate dai “principi”, di ingenti somme affidate a femmes fatales incaricate di operazioni di “intelligence”, di prelievi per quel fiume carsico che è l'azione risarcitoria degli scandali della pedofilia sacerdotale, per l'ingente patrimonio (quasi esentasse) vaticano la salute è diventata cagionevole. Ma, non ritenendomi partecipante della comunità cattolica, né come praticante né come credente, il problema sarebbe d'altri; anche se è immaginabile che, in aggiunta alla probabile richiesta di risorse aggiuntive rivolta ai fedeli, l'eventuale ridimensionamento della quota principale sposterebbe il carico sulla realtà locale. 

Ciò che, però, più sconcerta della vicenda è il combinato tra uno stravolgimento, che non può essere fatto passare per un ineludibile aggiornamento liturgico, e la neanche tanto simulata pretesa che nel percorso informativo sarebbe andato liscio come sul tappeto del biliardo. 

Sono qui ad elevare la mia rimostranza sia nei confronti di questo modo di procedere sia nella sostanza di un intervento destinato a pesanti ripercussioni nelle abitudini dei fedeli e nell'equilibrio stilistico durato secoli, che non può non stare a cuore alla comunità civile, a prescindere dal rapporto con il credo. 

Ringrazio per l'attenzione e la l'ospitalità. 

Franco Orlandelli

Così (anche se non si usa) vorremmo, caro lettore, titolerei la chiosa alla sua segnalazione, che condividiamo per intero. 

Con qualche ulteriore osservazione. 

La prima, al di là del fatto che è stato esperito un percorso progettuale e consultivo (in cui i comparenti hanno manifestato un apporto a dir poco condizionato), riguarda la constatazione di una sproporzione tra la vastità/profondità dell'intenzione ed un interpello molto circoscritto a pochi intimi e per qualche verso dagli esiti scontati. 

Dice, tradendo una sorpresa inimmaginabile per i riscontri malmostosi, il “titolare” della pratica che se ne terrà conto. Il che, considerando le inveterate abitudini della Chiesa, non si sa se possa essere una blanda assicurazione ovvero una minaccia. 

Vero che il complesso monumentale appartiene al patrimonio ecclesiale. Come, d'altro lato, la Curia ha ribadito in ogni circostanza in cui sono state sollevate eccezioni circa l'opportunità di provvedimenti invasivi. E, soprattutto, impermeabili alla buona creanza della partecipazione del popolo dei credenti e non. 

E qui non è neanche il caso di insistere troppo con il riferimento ai precedenti delle sottrazioni di pezzi importanti del diffuso patrimonio artistico e devozionale in vista della polarizzazione nel Museo Diocesano (prevalentemente alimentato dalla vandalizzazione operata presso i sottostanti templi parrocchiali). 

Se è andata due o tre volte (sia pure in presenza di qualcosa di più di mugugni) perché non proseguire con questo metodo che consegna la comunità dei fedeli (e dei cittadini) alla fattispecie di un aggregato irrilevante sul terreno della dignità? 

Già, perché andrà a finire proprio così! Come il Paliotto del Valois, mai più tornato a Pizzighettone, di cui era stato per mezzo millennio il più prestigioso pezzo artistico-devozionale, identificativo del profilo storico di una antica comunità. 

Come la “tavola di S. Agata” sottratta ad una comunità che l'ha rivendicata come continuità devozionale oltre come rilevante pezzo di arredo artistico di una prestigiosa chiesa cittadina. 

Le connesse vicende sono deragliate ed impantanate sul terreno scivoloso della detenzione alternata e della concessione di copia. 

La premessa, attinente alla titolarità (monocratica, salvo interpelli a corto raggio e del tutto ininfluenti, a meno che non siano perfettamente allineati) finirebbe qui. Con un p.s. riguardante il richiamo all'opportunità che il numero uno della Diocesi rivendichi, su un argomento che coinvolge la sensibilità di credenti e di non credenti, l'ultima parola. 

Fin qui ha dimostrato una scarsissima capacità di lungimiranza quanto meno a livello di percezione del sentiment e del rumor. Insomma potremmo anche azzardare che S.E. Monsignor Vescovo, subentrato ad una precedente gestione fattasi riconoscere per un profilo sobrio e moderato, ha voluto rendere chiaro un tratto decisionista e decisamente interventista. 

L'antifona, d'altro lato, si era capita dal piglio sulla soppressione della testata diocesana “La Vita Cattolica”, un bene, ancorché immateriale, di tutta la cultura cittadina. 

Quanto all'apparato motivazionale, che farebbe strame sia della prevalenza della continuità devozionale sia dell'intangibilità dell'attuale apparato architettonico ed artistico (durato secoli e allo stato privo di controindicazioni di qualsiasi natura), appare poco convincente e rassicurante (nelle intenzioni) l'endorsement vescovile: “ammodernamento obbligato, ci fermeremo se dovessimo temere di rovinare il Duomo” si presenta come il classico taccone peggio del buco. 

A dire il vero, l'operazione è stata corredata di un riferimento di valenza liturgica, che trova riscontro in una direttiva pontificia, che sembra essere giocata su altre partite. 

Per cui è lecita la deduzione di un rimando più che alla riforma della liturgia postconciliare allo scontro sempre aperto tra l'ala giovannea e l'ala reazionaria della continuità controriformista. 

Che, anche negli ultimi anni, ha marcato il must identificativo nella rivendicazione della messa con “il rito antico”. 

Insomma il progetto di “ammodernamento”, preannunciato dal titolare della cathedra diocesana, sarebbe un eccesso di zelo interpretativo. Rispetto alla messa a regime di una superiore direttiva, che assesterebbe il colpo finale ai latenti rigurgiti anticonciliari. 

Vorremmo da ultimo sottolineare il nostro personale sconcerto di fronte alla reiterazione di uno stile celebrante che, per quanto in antitesi all'antica liturgia di stampo ultraconservatore, non risparmia certamente opportunità per sovraesposizioni del celebrante (come dimostra il senso degli spazi e delle funzioni in capo all' “adeguamento”). 

Dal che si può dedurre la nostra personale predilezione per il ruolo meno invadente del celebrante “riformista”, poco più di uno speaker, la cui autorevolezza rispetto alla comunità partecipante non pretende di avvalersi di centralità fisiche. 

È passato più di mezzo secolo da quel Concilio che, tra luci ed ombre, tornanti e pendolarismi, non ha mai dispiegato fino in fondo la propria mission di apertura verso la comunità dei credenti e dei non credenti. 

Certi atteggiamenti di insistita sovraesposizione evocano il richiamo alle posture dei prelati così efficacemente caricaturati da Fo in Mistero Buffo (nella foto di copertina - ndr). 

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