DUE PERSONALITÀ DIVERSE
Il titolo di questo articolo unisce in sé due personalità del tutto diverse. Ed il senso dato a tale abbinamento è collegato all'intento d'indagare sulle diverse anime dell'interventismo, contrapposte alle altrettanto diverse anime del neutralismo, in un complesso quadro di riferimenti ideali e politici.
Per ricordare la pluralità delle posizioni dell'interventismo, e le distinte specificità, basti riferirsi alle personalità di Pietro Nenni, Giuseppe Di Vittorio, Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, Gaetano Salvemini, don Primo Mazzolari, Gabriele D'Annunzio, Benito Mussolini, Enrico Corradini, Luigi Federzoni, oltre a quella di intellettuali ed artisti quali Marinetti, Soffici, Papini. Altrettanta cosa dicasi del versante neutralista, dove confluirono in chiave variegata Arcangelo Ghisleri, Filippo Turati, Giovanni Giolitti, Guido Miglioli, Bruno Buozzi, Nicola Bombacci e la stragrande maggioranza del mondo cattolico e socialista.
Va detto che non fu facile per nessuno allora la scelta dirimente, soprattutto per i militanti di sinistra, posti davanti ad un orizzonte in cui vi balenava la dicotomia fra pacifismo ed internazionalismo socialista e l'inevitabile allineamento, da una parte o dall'altra, a politiche colonialistiche ed espansionistiche allora in auge in tutti gli stati industriali europei.
Nell'arco delle varianti politiche ed umane del fronte interventista, che vedevano affiancati democratici, repubblicani, socialisti riformisti, socialisti massimalisti, nazionalisti e sindacalisti rivoluzionari, abbiamo appunto scelto chi meglio ne ha rappresentato gli antipodi. Ovvero il massone Leonida Bissolati, fratello-muratore nella loggia Quinto Curzio di Cremona, positivista, gradualista, riformista; il secondo, Filippo Corridoni, anti-massone viscerale, autonomista, filo anarchico ed anti-statalista.
Certo, un sottile tratto di comunanza lo possiamo trovare nella giovinezza di tutti e due, attratti entrambi dal verbo mazziniano, così come un punto di condivisione lo possiamo riscontrare nel loro laicismo assoluto, e nell'essere passionali e risoluti.
Così altrettanto, pur partendo da presupposti di gran lunga differenti, essi avrebbero trovato un identico indirizzo nel momento in cui partirono volontari per la Grande Guerra.
L'INTERVENTISMO DI BISSOLATI
Il primo, Bissolati, partì per il fronte all'età di 58 anni, arruolandosi volontario nel battaglione Val d'Orco del 4° reggimento degli alpini con il grado di sergente, con il quale si era congedato dal servizio militare in gioventù; ed il secondo, Corridoni si mise in marcia da Milano, con altri duecento e più anarco-sindacalisti volontari, all'età di 28 anni, per raggiungere la 12° compagnia del 142° Reggimento Fanteria.
Entrambi sarebbero stati colpiti dal fuoco nemico. Bissolati, all'inguine, nel luglio 1915, sul Monte Nero, con gravi conseguenze successive: tale ferita lo avrebbe portato infatti alla morte, avvenuta a Roma il 6 maggio del 1920.
Filippo Corridoni, invece, fu colpito al capo in un assalto alla Trincea delle Frasche, il 23 ottobre 1915, dove perse la vita ed il suo corpo non venne mai più ritrovato. Aggiungiamo inoltre e per inciso che dopo pochi giorni, il 1° novembre 1915, sarebbe pure caduto sul Pogdora, a pochi chilometri dalla Trincea delle Frasche, il diciannovenne Ubaldo Corridoni, fratello terzogenito di Filippo.
Ora non possiamo qui dilungarci sulle dettagliate biografie dei nostri due protagonisti, ma nemmeno ci sentiamo di esimerci dall'illustrarne un sintetico profilo.
Bissolati nacque a Cremona nel 1857 da una infermiera, Paolina Caccialupi, e da Stefano Bissolati, sacerdote, poi apostata e direttore della Biblioteca di Cremona. Egli crebbe nel clima di un appassionato patriottismo deluso. Laureato in legge a vent'anni, fu uno dei tre “aquilotti” (gli altri due furono Turati e Ghisleri) che a Cremona costituirono nell'ultimo quarto dell'Ottocento uno straordinario sodalizio amicale e politico. Presso l'osteria della Marcella (Filippini) sul corso Vittorio Emanuele, dal 1889 egli svolse le funzioni di direttore-redattore de “L'eco del popolo”, da lui fondato, che diventerà l'organo locale del partito socialista. Nel 1892 è a Genova, vicino a Filippo Turati, quando nasce il Partito socialista italiano; nel dicembre del 1896 fonda e dirige l'Avanti, e diviene deputato per la circoscrizione di Pescarolo l'anno seguente, venendo rieletto, fino alla morte, per sei legislature consecutive. A lui si dovette la realizzazione di accordi agrari che in quel tempo furono da considerarsi decisamente all'avanguardia nell'ambito dei rapporti di lavoro.
Favorevole a Giolitti nell'impresa libica, viene espulso nel 1912 dal partito su proposta di Benito Mussolini, allora fra i dirigenti dell'ala estrema del PSI. Fonda con Bonomi, Cabrini e Podrecca, anch'essi espulsi al Congresso di Reggio Emilia, il Partito Socialista Riformista Italiano, ma non venne seguito da tutti i riformisti com'egli sperava.
Prima di partire per il fronte – scrivono Ugoberto Alfassio Grimaldi e Gherardo Bozzetti – si era preparato coscienziosamente, allenandosi al tiro a segno.
Nel 1916 fu chiamato a far parte del governo Boselli come ministro senza portafoglio e poi divenne ministro per le pensioni di guerra fra il 1916 e il 1917; fra il 1917 e il '18, nel governo Orlando, fu assegnato all'Assistenza Militare, alternando l'attività politica con periodici ritorni al fronte. Il sergente Bissolati sul Monte Nero si era guadagnata la prima medaglia d'argento. La seconda l'avrebbe meritata l'anno dopo, nel 1916 a Campiello. Quando morì, la sua modesta bara - scrive Giannina Denti fu “seguita dai rappresentanti di tutti i partiti e dalle più alte autorità, concordi nel riconoscere in lui la rara superiorità di un grande spirito”.
Tutt'altra genesi e formazione connota il profilo di Filippo Corridoni. Questi nasce a Pausola (oggi Corridonia), una cittadina in provincia di Macerata. Suo padre Enrico è fornaciaio; sua madre, Enrichetta, è casalinga e provvede all'educazione dei figli Pippo, Peppino, Ubaldo e Maria. Dopo aver conseguito la licenza delle scuole tecniche, giunge giovanissimo a Milano come disegnatore, milita nelle file socialiste e svolge propaganda antimilitarista. Costretto a riparare in Francia, rientra in Milano e partecipa alle lotte contadine del 1908 a Parma. Per la sua attività di agitatore sindacale, diviene un punto di riferimento per il
sindacalismo rivoluzionario, entrando ed uscendo dal carcere di San Vittore con una notevole frequenza. Articolista acuto e polemico, oratore straordinario, - incantatore delle piazze, avrebbe scritto di lui Indro Montanelli - fu percosso più volte dalla polizia. Si arruolò volontario, benché fosse malato di tisi.
Dopo questa breve descrizione biografica, è per noi ora utile approfondire i presupposti nelle due diverse visioni e prospettive politiche, quella bissolatiana e quella corridoniana.
Bissolati non ci ha lasciato nessuno scritto in volume. Come rileva Ivanoe Bonomi “benché in lui l'uomo di studio sia sempre presente (…), le dure esigenze della vita di parte non gli consentirono di dare un'esposizione ordinata al proprio pensiero, che dovette così esprimersi nel breve giro di un articolo di giornale o nel quadro ristretto di un discorso parlamentare”.
Non fa eccezione nemmeno il Diario di guerra, pubblicato da Einaudi nel 1935, e ripubblicato per le edizioni Mursia, tutto riferito a lettere ed articoli giornalistici, nei quali il lettore coglie il ruolo che egli intendeva affidare all'Italia, ossia quello di “Nazione-guida”, garante dei popoli balcanici oppressi. Si evidenzia pure – come ha ben scritto in un Giampiero Goffi su La Provincia – che il suo interventismo non era identificabile con quello nazionalista, ma si poneva come lascito del patriottismo risorgimentale, rivendicando i principi della libertà a beneficio di tutti i popoli del multinazionale Impero austro-ungarico.
Per saperne di più del pensiero di Bissolati possiamo riferirci alla stampa da lui diretta e vicina. Sul libro di Claudia Baldoli, “Bissolati immaginario”, possiamo leggere, ad esempio, un importante stralcio di un articolo uscito sul giornale socialista “Il Lavoro” di Cremona, il 12 maggio 1915, dodici giorni prima dell'entrata in guerra dell'Italia. Nel pezzo si risponde all'accusa formulata dai neutralisti sulla palese contraddizione tra la concezione del riformismo socialista e la scelta dell'intervento militare. Vi si dice: ”I socialisti cosiddetti riformisti, come noi siamo, non hanno mai dimenticato che le conquiste umane sono graduali, che la storia non si può sopprimere. Perciò essi mirano al raggiungimento dei loro ideali non trascurando mai il passato e la realtà in cui vivono.
Noi aspiriamo ad un regime di pace e di giustizia, e per la giustizia e per il bene sociale vogliamo la sconfitta dei violenti che sono i suoi nemici dichiarati”.
L'articolo sottende un ragionamento col quale vengono confermate le teorie marxiane nel dover venire a patti costantemente con i mutamenti sociali. Ma quando detti mutamenti comportano il pericolo dell'affermazione di uno stato di dispotismo e militarismo in Europa, allora il motto socialista “guerra al regno della guerra” può diventare anacronistico. Non diventa invece anacronistico il socialismo, perché, volendo difendere il Belgio e la Serbia dopo l'invasione austro-tedesca, avrebbe significato difendere l'Italia, Trento e Trieste ed impedire all'imperialismo tedesco di schiacciare quei paesi in cui il movimento operaio aveva ottenuto migliori condizioni per i lavoratori attraverso la politica delle riforme.
L'altro giornale bissolatiano, La Squilla, supera tale ragionamento sottolineando invece l'ideale della guerra come prosecuzione del Risorgimento italiano. Da qui il recupero del pensiero mazziniano con tre precise motivazioni: la prima con la realizzazione del sogno interrotto di Mazzini di un'Italia e di un'Europa libera e democratica. In secondo luogo, con l'adattamento di Mazzini a Marx, senza con questo sottacere le innegabili divergenze, ma venendo a coniugare, in modo inedito, la categoria di classe con quella della nazione. La terza importante motivazione del recupero di Mazzini era costituita da un aspetto inaspettato in un giornale socialista, nato in un ambiente positivista e anticlericale, ossia la ricerca di spiritualismo.
Il vero scopo della testata bissolatiana era però quello di volersi scrollare di dosso la concezione materialistica della storia, in particolare per una ragione: circondare la guerra e la propria adesione ad essa con un alone romantico. Lo stesso Bissolati è talvolta presentato come un eroe romantico, quasi che la guerra lo avesse riportato, dal parlamento, direttamente ai tempi del suo primo apostolato socialista.
Il fine del giornale era evidente: quello di minimizzare il peso dei fattori economici nella storia, così da potersi meglio contrapporre all'interpretazione socialista neutralista della guerra.
Per La Squilla poi vi era una constatazione di fondo implacabile ed eretica per un giornale socialista: vi si diceva che l'ossessione di una egemonia germanica faceva capolino in ogni tedesco, a partire da Marx fino al Kaiser, e che il socialismo tedesco non era che “l'espressione proletaria della tendenza pangermanica”. Non c'era dunque da meravigliarsi, continuava il giornale di Bissolati, che il partito socialista tedesco fosse d'accordo con l'imperatore per una guerra di conquista.
L'INTERVENTISMO DI CORRIDONI
Passando ora all'interventismo di Filippo Corridoni, esso ci va ad indicare un esempio dei cambiamenti che possono caratterizzare il pensiero di uomini politici di fronte a fatti determinanti e risolutivi che la storia suscita ed impone.
Il suo esempio è indicativo della metamorfosi che caratterizzò molti esponenti politici dell'epoca, i quali dapprima erano stati anti-militaristi e nemici della guerra, e che, nell'arco di pochi mesi, divennero interventisti, e non solo a parole.
Infatti questa trasformazione li condusse a partire, con coerenza, volontari allo scoppio della prima guerra mondiale.
Al pari di Bissolati, anche Corridoni non ci ha lasciato nessun volume con il quale poter analizzare in modo approfondito la sua visione del mondo. Ho potuto rendermi conto del suo pensiero e del suo vigore e coraggio su un libro scritto da un compagno di fede, che ho trovato anni fa sulle bancarelle del mercatino dell'usato di Fontanellato. Il libro uscì nel 1932 per i tipi della Casa Editrice Carnaro di Milano, scritto da Tullio Masotti, anch'egli sindacalista rivoluzionario e volontario di guerra. Altri due libri, riguardanti lettere, frammenti epistolari, cartoline dal fronte, uscirono nel 2001 e nel 2003 a cura di Andrea Benzi, per i tipi della Società Editrice Barbarossa. In tali scritti emerge che il passaggio dal sindacalismo rivoluzionario all'interventismo fu meno sorprendente di quanto non sembri.
Corridoni, come tutti i maggiori esponenti dell'anarco-sindacalismo, aveva teorizzato lo sciopero generale come strumento per la conquista del potere e la trasformazione rivoluzionaria della società. Ebbene, come altri paladini dell' “azione diretta”, tipica del socialismo del pensatore francese George Sorel, anche Corridoni vide nella guerra il grande evento che avrebbe ripulito il mondo dalle sue scorie borghesi e favorito il rinnovamento della società.
A questo punto, però, dobbiamo fare un passo indietro, perché è utile portare all'attenzione alcuni episodi e fatti significativi sul piano storico, che possono aiutarci a prendere atto della trasformazione d'intendimenti e di volontà che avvenne in una risoluta minoranza di uomini politici; una minoranza che condizionò poi fortemente gli avvenimenti successivi e che ebbe per protagonista, fra gli altri, anche Filippo Corridoni.
Si tratta della cosiddetta “settimana rossa” di Ancona, ossia di una rivolta di popolo sostenuta a spada tratta, da Milano, pure dall'allora direttore dell'Avanti, Benito Mussolini.
È il 7 giugno 1914, e viene convocato provocatoriamente in quella città un comizio antimilitarista, contro monarchici e liberali nel giorno anniversario dello Statuto Albertino.
Il comizio, teso ad abolire le “Compagnie di Disciplina dell'esercito”, era stato indetto a favore di due militari di leva: Augusto Masetti ed Antonio Moroni. Il primo di questi, Masetti, era stato rinchiuso come pazzo nel manicomio criminale per aver sparato al suo colonnello prima di partire per la guerra italo-turca del 1911. L'altro, Moroni, era stato inviato in una “Compagnia di disciplina”, a San Leo di Romagna, a motivo delle sue simpatie anarchiche.
Alla presenza di seicento persone, parlarono ad Ancona il segretario della Camera del lavoro, il repubblicano Pietro Nenni, Errico Malatesta per gli anarchici, e Mannelli per i giovani repubblicani. La dimostrazione antimilitarista provocò duri interventi della polizia che lasciarono tre morti sul selciato, due repubblicani ed un anarchico.
Da qui ebbe iniziò un moto insurrezionale che durò fino al 14 giugno e che dilagò per tutte le Marche, la Romagna e la Toscana. Fu quello il momento di massima unità di tutta l'estrema sinistra italiana, antimilitarista ed anti-patriottica. Di lì a non molto, l'attentato di Sarajevo avrebbe dato vita all'inizio di un ribaltamento generale delle varie posizioni politiche.
Le tensioni, i contrasti, le ambizioni egemoniche ed anche le paure dei governanti delle grandi potenze fecero precipitare gli eventi, con l'avvio delle ostilità il 28 luglio 1914 con l'attacco dell'Austria alla Serbia.
Pochi giorni dopo l'inizio della guerra, mentre prendevano corpo i primi confusi progetti di una spedizione garibaldina in Francia, sette giovani italiani, una volta raccolto l'appello di Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco. Cinque dei sette volontari caddero nello scontro di Babina Glava, presso Visegrad, il 20 agosto 1914.
La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli interventisti rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il 14 settembre 1914, i garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla Casa del Popolo di Roma, in via Capo d'Africa, su proposta della locale sezione del partito repubblicano. Quella celebrazione fu la prima manifestazione di un certo rilievo dell'interventismo di sinistra. Ma già ai primi di agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si ritrovavano a Parigi per discutere sul da farsi, “diversi, fra anarchici, sindacalisti, socialisti, repubblicani, inclinavano a partire per la Francia, ad agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa”.
Sta di fatto che Peppino Garibaldi, il maggiore dei figli di Ricciotti, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese alla costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per accettare il semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione Straniera.
Era nata dunque la Legione Italiana, composta da tre battaglioni, con sede a Montélimar e a Nimes, mentre una compagnia “Mazzini”, di netto orientamento repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e forte di trecento uomini, era già stata sciolta già dal 14 ottobre dietro una precisa disposizione del Comitato Centrale del PRI. La maggior parte dei suoi membri avevano fatto ritorno in Italia; altri si erano aggregati alla Legione Italiana di Peppino Garibaldi, in tempo per far parte dei sanguinosi combattimenti delle Argonne nei due mesi del dicembre 1914 e del gennaio 1915.
Inoltre va segnalato che l'anarchico Antonio Moroni, emblema della battaglia antimilitarista durante la “Settima rossa”, congedato il 16 giugno del 1914, accolto come vero e proprio campione del sovversivismo, alla fine di quell'anno, prese la via della Francia, dove finì anch'egli con l'arruolarsi fra i volontari garibaldini.
Ed avvenne che anche Filippo Corridoni si convertì in quei frangenti alla guerra.
Sul frammento di una sua lettera, inviata ad un amico nel luglio 1915, è chiara la motivazione del suo essere stato interventista rivoluzionario: “Questa è una tregua. Altro dovere ci chiama, altra battaglia dobbiamo combattere. La vittoria c'è già: la vittoria è sicura perché noi abbiamo già sgominato il nemico interno che voleva vendere l'Italia e gli Italiani come si vendono i ceci al mercato. Ora, quindi faremo il nostro dovere rigidamente. Ma nessuno si illuda. Quando ritorneremo dal fronte, vittoriosi, e smetteremo la divisa del soldato, noi riprenderemo la nostra lotta di classe, con lo stesso ardore, con la stessa fede, colla quale ci batteremo domani contro il nemico della civiltà …”.
La guerra aveva scosso anche il mondo socialista europeo. I socialisti austriaci e tedeschi non avevano ostacolato più di tanto la guerra, anzi l'avevano votata nei rispettivi parlamenti. In Francia, nel frattempo, l'araldo dell'antimilitarismo e dell'antipatriottismo estremo, Gustave Hervé, si era intanto arruolato volontario nell'esercito francese subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia.
Da lì in poi, tutti i fenomeni riguardanti il cambiamento di posizioni politica attinenti agli estremisti di sinistra, in particolar modo gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari, votatisi volontari alla guerra, furono indicati col termine herveisti, derivante appunto dalla decisione clamorosa di Hervé.
Questa scelta del resto - come avrebbe scritto Carlo Rosselli nel 1935 - era stata fatta anche dal teorico bolscevico Plechanov e dal teorico anarchico Kropotkin, che si erano pronunciati in Russia per la guerra nel 1914. Ad ogni modo, nel mese di settembre del 1914, nel mentre la Guerra stava già mietendo migliaia di vittime, l'anarchica Maria Rygier, fiorentina, di famiglia benestante, già militante nelle fila del sindacalismo rivoluzionario, e cofondatrice nel
1907 del giornale antimilitarista “Rompete le file!”, e già incarcerata con Corridoni per la sua propaganda contro l'esercito, aveva firmato un sorprendente articolo per il giornale “Il libertario” di La Spezia.
In questo articolo Maria Rygier, richiamandosi alle tradizioni garibaldine del Risorgimento, aveva plaudito alla fine della Triplice Alleanza, il “patto infame” già vincolante l'Italia agli Imperi Centrali, auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo.
La fine della Triplice Alleanza, espressa come auspicio, si sarebbe verificata però solo l'anno successivo, al seguito di estenuanti trattative con entrambi i fronti. Fallita ogni possibilità d'intendersi con l'Austria, l'Italia si volse infatti alle potenze occidentali e con esse firmò il Patto di Londra, il 26 aprile 1915, accordo da tenere per il momento segreto. E così si ebbe che dal 26 aprile 1915 al 4 maggio 1915 l'Italia risultasse ufficialmente e paradossalmente alleata sia con la Triplice Alleanza e sia con la Triplice Intesa.
Si dovette giungere proprio fino al 4 maggio 1915 per assistere alla risoluta presa di posizione contro l'Austria, contro la sola Austria e non prendendo ancora posizione contro la Germania, attraverso la consegna al Ministro della Esteri di Vienna della nota che dichiarava annullato e ormai senza effetto il trattato d'alleanza con l'Austria-Ungheria.
Col Patto di Londra si garantiva all'Italia a vittoria ottenuta: il Trentino e l'Alto Adige fino al Brennero; Trieste e l'Istria, Fiume esclusa; una parte della Dalmazia con alcune isole; Valona sulla costa albanese; la zona carbonifera di Adalia in Turchia nel caso di disfacimento dell'Impero ottomano; il Dodecaneso e compensi coloniali nel caso di spartizione delle colonie tedesche.
In quei frangenti uscì il “Manifesto degli anarchici e rivoluzionari interventisti”, redatto dall'anarchico Oberdank Gigli, detto Oberdan.
L'appello era sottoscritto da alcuni noti e meno noti esponenti dell'anarchismo italiano, insieme a sindacalisti, socialisti dissidenti e repubblicani. Non fu un caso che detto “Manifesto” vedesse la luce pressoché in contemporanea ad un appello neutralista diramato dalla Direzione del PSI, quasi ad anticipare la nascita (anche in chiave antisocialista) del primo Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista.
Nel “Manifesto degli anarchici e rivoluzionari interventisti”, accanto ad immagini della simbologia libertaria, vi si trovavano, confusi in un unico disegno, concetti apertamente democratici e mazziniani. Si veda ad esempio il passaggio in cui si dice: “Noi riteniamo che l'internazionalismo sarà possibile solo quando le nazioni saranno libere, poiché là dove l'odio divide l'irredento dall'oppressore, ogni altro problema economico e politico non può trovare soluzione”. Poi vi si esprimono romantici riferimenti alle camicie rosse, come ad esempio nella frase in cui si afferma: “La neutralità, oggi, è per tutti solamente un abbietto egoismo nazionale; essa è la precisa negazione dell'internazionalismo materiato di solidarietà e di sacrificio, che ci hanno spinto sui campi della Francia, della Grecia, del Messico, della Serbia”.
Vi si legge pure un deciso proposito all'intervento: “L'inerzia è vigliaccheria e la neutralità, che ancora disconosce la volontà popolare, è tradimento. È l'ora dell'azione!”.
L'invito finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello della mobilitazione a favore della Francia, della “loro” Francia, la Francia della libertà e della rivoluzione.
Il manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a stralci su “Il Resto del Carlino” di Bologna, del 21 settembre 1914, sotto il titolo “Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari a favore della guerra”, così come fu pubblicato su “Il Corriere della Sera” fu il 23 settembre.
Eloquente il commento del quotidiano liberale bolognese: “Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani si levano in piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libertà, per dar mano alla Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella dell'individuo e della nazione: la nostra!”.
La diffusione, il 15 agosto 1914, dell'appello della Direzione politica repubblicana per la mobilitazione contro gli Imperi Centrali, appello nel quale riaffiorava prepotentemente l'anima mazziniana del partito e si riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni dell'irredentismo, segnò una svolta importante.
Il 18 agosto, Alceste De Ambris, segretario della Camera del Lavoro di Parma ed uno de massimi dirigenti del sindacalismo rivoluzionario italiano, strettamente in contatto con Filippo Corridoni, intervenendo ad una conferenza sul tema “I Sindacalisti e la guerra”, presso la sede milanese dell'Unione Sindacale Italiana, sostenne con forza la tesi della guerra rivoluzionaria.
Questa conferenza venne a sancire l'adesione di larga parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi dell'intervento.
Da quel discorso discesero serie conseguenze. Infatti, fra il 13 e il 14 settembre 1914, si riunì il consiglio generale dell'Unione Sindacale Italiana. La maggioranza votò un ordine del giorno di Alberto Meschi, segretario della Camera del lavoro di Carrara, nettamente contrario alla tesi interventista di De Ambris. L'anarchico Armando Borghi, principale esponente della corrente neutralista, fu eletto al posto di Tullio Masotti nuovo segretario.
De Ambris e i suoi seguaci (il fratello Amilcare, Tullio Masotti, Filippo Corridoni, Cesare Rossi, Michele Bianchi, Edmondo Rossoni) mantennero tuttavia il controllo de “L'Internazionale”, organo dell'Unione. Dalla successiva scissione nacque, ad opera della frazione interventista, l'Unione Italiana del Lavoro, l'UILD, alla quale aderirono in seguito anche le organizzazioni sindacali repubblicane. L'USI, rimasta priva di un organo ufficiale, prese a pubblicare “La Guerra di Classe”, a partire dal 17 aprile 1915.
LA VIGILIA DELLA GUERRA
Portiamoci ora alla vigilia della prima guerra mondiale e lasciamo parlare la viva voce del sindacalista rivoluzionario Tullio Masotti, già segretario dell'USI. Egli scrive: “Mentre continuavano ancora vivi gli echi della cosiddetta ‘settimana rossà la situazione precipitava.
Sulla fine di luglio l'assassinio di Ferdinando d'Asburgo, a Sarajevo, mette sossopra l'Europa. Ultimatum dell'Austria alla Serbia, mobilitazione della Russia, della Germania, della Francia, dell'Inghilterra! Niente che possa più evitare lo scoppio della guerra. Le polveri secche ed accumulate esplodono. E l'Italia che farà? Legata ad un trattato di alleanza alle Potenze Centrali, avrebbe essa potuto rimanere estranea alla conflagrazione generale? Giornate di sgomento e di nervosismo in mezzo al popolo italiano. Che cosa farà il Governo? I partiti politici - ad eccezione dei nazionalisti - sembrano tutti concordi su un punto: dovere l'Italia rimanere neutrale. L'idea poi di una nostra guerra a fianco dell'Austria era considerata con senso di repulsione da tutti e appariva come un vero tradimento delle tradizioni storiche e delle aspirazioni politiche nazionali. Quanto alla Germania, la questione si presentava diversamente.
Non esistevano con l'Impero germanico contrasti storici, territoriali e di interessi. Anzi! Le classi dirigenti italiane – del mondo politico e del mondo economico – non avevano che da essere grate ai tedeschi, i quali avevano in larga misura concorso ad organizzare la nostra vita economica e commerciale e a sorreggere la nostra azione politica in momenti gravissimi per la Nazione, come dopo Adua”.
Masotti poi, nel suo libro dedicato alla figura di Filippo Corridoni, ci dice che le notizie che giungevano dal fronte di battaglia acuivano la tensione dello spirito pubblico. La sorte del Belgio specialmente, fu, senza alcun dubbio, uno dei fattori morali che meglio servirono ad orientare l'opinione italiana. In altri termini, l'Italia non era ancora in guerra, ma si viveva già l'atmosfera arroventata della guerra.
L'incertezza fu di breve momento. Ai primi colpi di cannone che diffusero la loro eco lugubre in Europa, l'Internazionale di Parma, che era organo dell'Unione Sindacale Italiana, in data 8 agosto 1914, pubblicava un articolo che andò a segnare il punto di partenza dell'atteggiamento che gli anarco-sindacalisti andavano ad assumere di fronte alla guerra.
In conclusione di quell'articolo si diceva: “Noi, internazionalisti, nemici di una patria che offre propine ai faccendieri, che specula sulla fame e sul sangue dei suoi figli, che frena il desiderio infinito di libertà del suo popolo, con ogni forma di oppressione e di sopruso, noi
amiamo una Italia libera, grande per il suo lavoro, ricca nei commerci, padrona dei suoi destini. Così amiamo e vogliamo questa Italia, raccolta nelle sue opere di pace e di lavoro per il benessere di tutti”.
A Milano intanto, mentre in Francia infuriava la battaglia della Marna, il 15 e 16 settembre 1914 si erano avute le prime manifestazioni di piazza contro l'Austria e per l'intervento. A organizzarle erano stati i futuristi, guidati da Filippo Tommaso Marinetti e Umberto Boccioni. Contemporaneamente, auspice Filippo Corridoni, i gruppi rivoluzionari di sinistra, che il mese prima si erano pronunciati per la guerra, andavano organizzandosi e si preparavano a reclamare anch'esso l'intervento italiano: il 5 ottobre il Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista avrebbe lanciato il suo primo appello ai lavoratori italiani in questo senso. Si andava così delineando, nel fermento dell'azione interventista, quell'incontro fra futuristi e rivoluzionari di estrema sinistra che già aveva avuto, come scrive Renzo De Felice, significative anticipazioni. Nei dibattiti della sezione socialista milanese, infine, le voci contrarie alla neutralità si facevano sempre più sentire.
Ad opera del Comitato del Fascio di Azione Interventista Rivoluzionario di Milano, al quale aderiscono anche gli anarchici interventisti, il 1° gennaio 1915 viene intanto lanciato il seguente manifesto ai lavoratori italiani, nel quale si dice “L'Internazionale operaia - giova riconoscerlo senza ambagi – si è dimostrata alla prova dei fatti – più che impotente a fronteggiare gli avvenimenti ed impedire l'evento guerresco – inesistente. Mentre infatti i compagni di Francia, Belgio e Inghilterra seppero compiere sino alla fine il proprio dovere di socialisti pronti ad iniziare con lo sciopero generale internazionale il movimento di rivolta contro le mene guerresche delle borghesie, quelli di Germania ed Austria, e cioè degli Stati che sono apparsi al mondo intero come gli artefici della fosca congiura ordita dalle rinate forze del medioevo europeo contro ogni luce di civiltà e ogni elemento di progresso, in luogo di opporre la forza delle loro potenti organizzazioni economiche e politiche, alle scatenatesi furie aggressive dei loro governi, hanno ceduto alla corrente dell'imperialismo più brutale e selvaggio, dimentichi del loro dovere di socialisti, traditori dei sacri doveri della solidarietà operaia internazionale”.
Il manifesto termina con un appello: “Tutte le forze vive del mondo, tutti coloro che augurano all'umanità lavoratrice un avvenire migliore e combattono per il trionfo della causa operaia e della rivoluzione sociale, per l'affratellamento dei popoli e la fine di tutte le guerre, debbono scendere in campo risolutamente. Noi dobbiamo imporre al governo di cessare di disonorarci o di sparire, e fin d'ora separare le responsabilità e prepararci all'azione”.
Nel frattempo, però il Parlamento italiano non voleva l'intervento, ma non riusciva ad esprimere un uomo disposto ad assumersi la responsabilità di rifiutarlo. Il primo ministro Antonio Salandra si era dimesso e nei quattro giorni in cui le consultazioni erano susseguite, la febbre interventista era salita a quaranta. “Appiccate il fuoco! Siate gl'incendiari intrepidi della grande Patria!”, gridava Gabriele Dannunzio agli studenti, che diedero vita a dei moti di piazza. Così pure le logge del Grande Oriente d'Italia si schierarono tutte per la guerra contro la cattolicissima Austria.
Quando l'Italia ruppe gli indugi, e i volontari anarco-sindacalisti di Corridoni partono da Milano, nel maggio del 1915, è presente “un gruppo di vecchi garibaldini che indossano la camicia rossa”. Li accoglie un applauso immenso – scrive nelle memorie Tullio Masotti: “I vecchi combattenti sono orgogliosi dei loro nipoti; vengono a salutarli rivivendo le ore più dolci e belle della loro giovinezza eroica”.
Al combattimento che costò la vita a Filippo Corridoni prese parte anche l'anarchico Edoardo Malusardi. Il racconto di quell'episodio che il libertario lodigiano inviò al giornale “Il popolo d'Italia” è interessante come esempio di auto-rappresentazione politica e di prima elaborazione del mito “corridoniano”, col sottolineare come Corridoni fosse caduto eroicamente, intonando un canto patriottico.
Ci siamo dilungati sull'interventismo di matrice anarco-sindacale, e di matrice corridoniana, perché è stato un fenomeno spesso rimosso, quando non del tutto ignorato, in sede d'indagine storiografica. Esso costituì un filone, certamente minoritario ma non trascurabile del variegato movimento interventista. Minoritario rispetto a quello irredentista e nazionalista, e a quello di matrice bissolatiana, ma non per questo meno interessante da indagare.
Con un'ultima postilla, desidero però ritornare al ruolo patriottico dello stesso Bissolati, nell'incarnare in sé le funzioni di soldato e di parlamentare.
Per questo mi preme affidarmi alle parole dello storico Giovanni Sabbatucci scritte sul libro di Maurizio Degl'Innocenti, Leonida Bissolati. Un riformista nell'Italia liberale.
Sabbatucci dice: “Bissolati la guerra non si accontenta di farla in prima persona come soldato al fronte, né si limita a contribuirvi in quanto uomo politico. Ma cerca di fare le due cose insieme, come gli impone il ruolo di massimo leader dell'interventismo democratico a cui si sente vocato (e che oggettivamente riveste). E, quel che più conta, cerca di incidere per quanto appassiona, come emerge dai suoi taccuini e dai suoi carteggi. E questo non solo dopo la sua nomina a ministro nel giugno 1916, ma anche nell'anno precedente, quando fa la spola tra il fronte, il Parlamento e i comandi militari, alternando gli abiti civili alla divisa di sergente degli alpini. Un sergente che non solo tratta da pari a pari con i governanti italiani e stranieri (alcuni dei quali sono suoi ex compagni di lotte politiche), ma va spesso a conferire con gli alti comandi militari, dice la sua sulle scelte strategiche e cerca di far prevalere le sue vedute”.
LE DIFFERENZE FRA BISSOLATI E CORRIDONI
I ruoli di Bissolati e di Corridoni furono dunque ben diversi nella vita civile e nel loro approccio alla vita militare. Ma è proprio su questa diversità d'intenti, di volontà, di entusiasmi, di sacrifici, che ho voluto riferirmi sin dall'inizio della mia esposizione.
Questo è il cuore della questione, per sottolineare quanto ricca di differenziati propositi fu l'articolazione pluralistica del fenomeno politico e sociale dell'interventismo.
Nel terminare questo articolo, non posso fare a meno di ricordare, con profondo rispetto, tutti i caduti della Prima Guerra mondiale, siano stati essi interventisti volontari o soldati richiamati o di leva. E fra essi non posso che inchinarmi, con particolare cordoglio, di fronte al sangue che la città di Cremona e la sua provincia offrirono all'Italia.
Furono 6.381 i caduti cremonesi nel grande conflitto. Il calcolo delle perdite al fronte, come scrive Elisa Signori, “è, ovviamente, un'approssimazione per difetto dei costi umani del conflitto e cioè ignora le morti posticipate, le invalidità, le mutilazioni, le malattie”.
MANIFESTO FUNERARIO
Della morte di Corridoni ne dettero l'annuncio dell'Unione Sindacale, i Fasci Interventisti ed il Partito Repubblicano col seguente manifesto:
“Compagni, lavoratori, cittadini, combattendo, per la libertà dei popoli e per la pace di domani, senza oppressioni e senza oppressi, Filippo Corridoni è caduto, cantando, nelle trincee del Carso, come sono caduti i garibaldini di Bezzecca e delle Argonne. Al giovane combattente che fu soldato d'ogni battaglia civile, e che fra voi lavoratori portò sempre la fede sincera e profonda del suo ideale; al giovane morto di ieri che fu la vostra vita e sarà vita vostra di domani; al valoroso garibaldino della idea socialista e al soldato della nuova Italia balzata in armi, a contendere ai barbari il dominio del mondo, date il vostro pensiero memore, date il vostro saluto fiero, date, lavoratori, un fiore di compianto e di orgoglio.
Filippo Corridoni, gagliardo figlio del popolo, con audace opera di novazione, dava, qui, ai vostri focolari ed al vostro lavoro faticoso, la pace e la fede per un migliore avvenire, e là, in trincea, dava la vita per i vostri focolari e il vostro lavoro di domani.
Qui fra voi che conduceva e trascinava con la parola impetuosa e con l'animo saldo, fu soldato della libertà; là sulle terre antiche e nuove d'Italia contro i devastatori del Belgio, contro i fucilatori delle donne, contro gli impiccatori dei nostri padri, fu Continuatore fiero della sua opera, fu soldato del popolo, per il popolo”.
Il manifesto terminava convocando il popolo milanese per la domenica 31 ottobre al monumento delle Cinque Giornate per deporvi una corona in ricordo del caduto.