È avviato ad esaurimento il progetto di approfondimento e rievocazione del Centenario della morte di Attilio Boldori. Che ha avuto il suo culmine nelle giornate coincidenti con l'anniversario; ma che è continuato fino a qualche giorno addietro con una serie di approfondimenti di carattere squisitamente storico.
Dobbiamo aggiungere, per quanto qualsiasi ulteriore notizia sull'atroce delitto politico generi nelle coscienze orrore, che abbiamo ricevuto spunti (ripresi nel forum Eco dedicato) relativi alla figura umana.
Qualcuno ha azzardato che il protomartire antifascista “era una bella persona”. Presumiamo sotto il profilo della dirittura etico-morale e del tratto umano, fatto di afflato verso gli ultimi e di forte austerità del tratto.
Del che abbiamo avuto sentore, cammin facendo nel percorso della post-produzione degli eventi celebrativi, considerando con interesse e benevolenza il significativo intreccio di approfondimento storico e, se il termine non disturba, l'appeal umano della figura.
Esaltato dalle esponenziali opportunità dei social, che, anche se non sempre, si sono rivelate una notevole opportunità diffusiva.
Siamo, quindi, ai titoli di coda di questo Centenario, che meglio di così non avrebbe potuto cogliere le finalità di un progetto, che ha visto la cooperazione delle Associazione Partigiane, della nostra Associazione, dei Comuni. E che, se è consentito tracciare un bilancio più squisitamente “politico”, ha proposto, al di fuori di qualsiasi ipocrisia, l'obiettivo primario di rievocare quei fatti di un secolo fa alla luce di un ineludibile sforzo di attualizzarne le lezioni.
Sul punto, dobbiamo aggiungere, si è manifestata una convergenza totale nel declinare il monito che le prerogative liberaldemocratiche, conquistate con quella prima contrapposizione all'insorgenza fascista e, nel divenire, con l'eroismo della clandestinità e la guerra partigiana, non sono mai per sempre. Se cedono la tensione ideale e le consapevolezze; soprattutto, la capacità di saper cogliere che i rigurgiti reazionari e antidemocratici non seguono, per quanto reali, le dinamiche e gli snodi del passato.
Il nostro è, come abbiamo ripetutamente affermato e riscontrato nei nostri partners, un antifascismo rigoroso, ma che ripudia qualsiasi impulso a manifestare in forme dogmatiche e strumentali (ad altre finalità militanti).
Il percorso che abbiamo avviato con i nostri preziosi partners non avrebbe la benché minima probabilità di reggere a lungo se rivelasse anche la minima falla di concessione a finalità che non fossero l'approfondimento e la divulgazione, dirette, come è avvenuto, alle nuove generazioni.
La presenza di due scolaresche all'evento principale in Sala Consiglio di Cremona è rivelatrice di un ulteriore punto di incontro tra l'associazionismo storico e i protagonisti della scuola.
Sotto tale profilo, ben consapevoli degli effetti perniciosi prodotti dalla discontinuità dei progetti di accompagnamento all'accesso dei percorsi della memoria, che tanto successo hanno avuto negli ultimi anni, esortiamo ad imboccare modalità alternative a percorsi resi impossibili dalla ridotta relazionalità. Di ciò, ad esempio, è positivamente rivelatore delle reali opportunità di continuare, nelle modalità concesse, queste preziose testimonianze, il bellissimo, recente libro fotografico di Ilde Bottoli e Francesco Pinzi.
Come direbbe quel compagno cogli occhi a mandorla, insomma, non importa il colore del gatto, essenziale che prenda i topi.
Con il che intendiamo declinare in forma evidente il nostro intento di proseguire. E annunciamo che la nostra prossima iniziativa sarà la pubblicazione del saggio di Emilio Zanoni del 1956 sulla Liberazione di Cremona.
Qui, ripetiamo, rivisitiamo le vicende connesse agli scenari, soprattutto di valenza storico-famigliare, successivi a quel tragico 11 dicembre 1921.
La tragica scomparsa di Attilio privava della completezza di una famiglia coesa rispetto alla sua mission la moglie Teresa Biagi ed i due figli Comunardo di tre anni e Brunilde di due (nella foto di copertina).
Come avremo modo di osservare il compito di portare avanti l'impegno ideale del padre sarebbe spettato al figlio. Anche se Brunilde, più riservatamente, sarebbe stata accanto e avrebbe sostenuto a Pizzighettone l'impegno del marito prof. Giusto Corbani, per molti anni apprezzato Sindaco del Borgo dell'Adda.
D'altro lato, gli sviluppi esistenziali dei due figli erano tracciati nello scenario di giovedì 15 dicembre 1921 nella spianata antistante la “bianca città” oltre i binari ferroviari (non ancora sormontati dal cavalcavia, che sarebbe venuto negli anni trenta).
Gremita da una folla, che, sin dal mattino muovendo silenziosamente dai rioni popolari, aveva raggiunto il luogo della sepoltura per esprimere dolore e sdegno; suscitati da un'intollerabile e predeterminato episodio di odio politico tragicamente sfociato nel delitto.
Una folla potenzialmente tumultuante al punto da indurre la moglie dell'ucciso, Teresa Biagi, a concludere l'indirizzo di commiato con un significativo monito
Una sola cosa vi raccomando. Non spargete più lacrime sulla sua salma adorata, ma stringete nei vostri cuori la parola santa dell'amore sincero e della fede ch'Egli aveva sempre portato in mezzo a voi. Unitevi in un fronte unico e marciate compatti e nella massima disciplina come egli stesso raccomandava sempre...
Un'esortazione che sarebbe valsa in vista dei futuri scenari, in cui troverà compimento la strategia di soffocamento della libertà e della democrazia.
Ma a valere anche per le prospettive esistenziali di sé stessa e delle due giovani creature, che, insieme con lei, erano venute a rendere l'estremo saluto ad un marito e ad un padre amorevole, anche se intensamente impegnato nella vita pubblica.
I due piccoli, Comunardo (baciato sulle guance da un Prefetto, non propriamente complice degli assassini, ma indubbiamente coinvolto nella copertura dei mandanti) e Brunilde, dovranno ben presto far tesoro dell'ammonimento della saggia e coraggiosa madre Teresa.
Se vorranno custodire, nei trucidi scenari alle viste, la testimonianza civile e politica di Attilio e minimamente incardinare prospettive esistenziali accettabili.
Il Consiglio Provinciale, di lì a qualche giorno, esprimendo unanimi sdegno e solidarietà, mostrò di volersi concretamente far carico dei due orfani, deliberando uno stanziamento in cartelle nominative del debito pubblico, i cui interessi sarebbero stati demandati al mantenimento di Comunardo e Brunilde.
Ma, anche ove non fosse intervenuto l'orgoglioso e coerente rifiuto della famiglia Boldori nei confronti di tale liberalità, di lì a poco la relativa delibera sarebbe diventata, ad opera del regime liberticida, meno che carta straccia.
E tanto più l'insegnamento civile e sociale di Attilio Boldori entrava nella coscienza della comunità cremonese fino a diventare mito, tanto più la repressione del regime e del suo ras Farinacci assumeva il tono della persecuzione anche post mortem.
Fino ad esercitarsi sulla tomba, anonima ed inaccessibile ai visitatori (se non, come per quella di Ghinaglia, con scavalcamenti notturni della cinta muraria del cimitero, che fecero imbestialire le “squadre” fino al punto di manganellarne il monumento).
Una persecuzione che non risparmiò neppure la famiglia, se è vero come è vero, che si tentò di fare attorno ad essa terra bruciata. Inutilmente, bisognerebbe aggiungere, in quanto alla vedova ed ai figli non mancarono mai la solidarietà del popolo e l'aiuto concreto del movimento cooperativo.
Sempre, s'intende, in un clima di emarginazione e di vessazioni, di cui un semplice aspetto può fornire il senso.
Per studiare, laurearsi, lavorare, appartenere, insomma, al consorzio umano e civile, Comunardo sarebbe stato costretto, in ossequio ad un decreto del 1928, che proibiva nomi di battesimo “sovversivi” o alloctoni, a mutare il paradigmatico nome, scelto dall'afflato libertario dei genitori, nel più tradizionale Giuseppe.
Nonostante tutto ciò, Comunardo si laureò, come la sorella Brunilde, e, dopo i primi modesti impieghi, sarebbe stato assunto, all'inizio degli anni quaranta, come dirigente amministrativo alla Pirelli di Pizzighettone.
Da cui avrebbe mosso i primi passi, emulo del padre Attilio, di antifascista e di dirigente politico.
Per rappresentare il senso di responsabilità di Comunardo Boldori si cita un aneddoto, confidato dai famigliari.
Sin da giovanissimo, era uso tenere un diario, in cui per anni annotò le sue giornate. Tale abitudine quotidiana fu interrotta nel 1938, senza spiegazione ai famigliari, ma presumibilmente in relazione all'evoluzione delle vicende politiche ed alla maturazione nel giovane Comunardo della consapevolezza di mettersi in gioco, come il padre Attilio, a difesa degli ideali del socialismo e della libertà.
Sarà, per la sua attività clandestina, “ospite” della famigerata Villa Merli. Esperienza questa, che per quanto traumatizzante, non lo fece desistere; al contrario, come già detto, egli intensificò l'attività cospirativa, impegnandosi particolarmente nel coordinamento della 3° Brigata Matteotti ed operando intensamente nel pizzighettonese. Al punto che sarebbe diventato il punto di riferimento della Liberazione di Pizzighettone. Del che pubblichiamo nella nostra gallery la relazione da lui redatta ed indirizzata al Governo Militare Alleato.
Alla Liberazione sarà consigliere comunale di Cremona e tra i rifondatori della Camera del Lavoro, del movimento cooperativo, del Partito Socialista.
Si aggiungerà anche che Comunardo ed i suoi famigliari, nella stagione in cui più o meno ritualmente venivano regolati i conti con i fascisti, autori della lunga scia di atrocità durata vent'anni, decisero, nel 1947, in occasione della riapertura del processo per il delitto Matteotti, di lasciar cadere definitivamente, nonostante il parere legale dell'amico Avv. Gaetano Ferragni (futuro senatore socialista), qualsiasi costituzione di parte offesa, che avrebbe portato alla celebrazione del processo contro gli assassini di Attilio.
Gli anni migliori della giovinezza, come si è visto, li aveva trascorsi nella condizione di emarginazione e nelle fatiche dello studio e del lavoro.
A conflitto concluso, si era buttato a capofitto nell'impegnativa carriera professionale e nella militanza politica, sindacale e cooperativa.
Continuava a risiedere in città, recandosi da pendolare, ogni giorno, a Pizzighettone per lavorare, ma anche per dirigere la politica socialista in quell'importante centro della provincia, in cui il PSI aveva un importante punto di forza.
Alla Pirelli aveva dato un qualificato apporto, eccedente l'obbligo professionale, sia nei momenti delicati dell'ultima fase della guerra, che richiedevano uno sforzo particolare di salvaguardia degli impianti e delle maestranze, sia nella ricostruzione, che rendeva quella produzione di importanza strategica.
Al di là del suo ruolo di dirigente industriale, sviluppò un'intensa elaborazione, come attestano i suoi scritti sulle materie economico-sindacali copiosamente offerti alle pagine de L'Eco del Popolo e del Fronte Democratico, indirizzata ad una prospettiva di tipo riformista.
Tali consapevolezze erano ben presenti nelle riflessioni, come si vedrà, sviluppate da Comunardo nell'articolo, pubblicato centralmente sulla prima pagina de L'EdP n° 83 del 30 Novembre 1946, sotto il titolo, come già anticipato, “La politica fa girare i torni?”.
Di cui qui (avvertendo che il testo integrale é pubblicato integralmente in “Il socialismo di Patecchio” Edizioni Persico) si fornisce un significativo stralcio
Compagni socialisti, qualcuno di voi legge i giornali degli industriali (Il Sole, L'Organizzazione Industriale)?
Se non lo avete ancora fatto, fatelo.
Comprate qualche numero di questi che vorrebbero essere i giornali della produzione e quindi a carattere esclusivamente economico.
Leggerete che in Italia si fa troppo politica e che la politica non fa girare i torni né battere i telai; che i ministri sono degli incompetenti e degli imbroglioni e sono né più né meno come i ministri fascisti; leggerete che i consigli di gestione sono un'illusione e che sono inutili e dannosi; leggerete ancora che il miglior mezzo per produrre é di lasciare la più ampia libertà agli industriali; leggerete che gli scioperi sono la rovina d'Italia, e via di questo passo.
Non leggerete mai nulla che riguardi le necessità del popolo, che riguardi le sue sofferenze e la spoliazione che gli industriali – unitamente ai commercianti – effettuano a suo danno; non leggerete mai un'adesione sincera ai principi sociali per i quali il proletariato di tutto il mondo si batte da decenni.
Tutti gli argomenti di questi giornali sono di opposizione a qualunque legge od iniziativa che miri a dare un po' di benessere e di tranquillità al popolo.
Non dovremmo meravigliarci di ciò: é opportuno rilevare però che la stampa cosiddetta tecnica nel trattare i problemi economici fa né più né meno della politica.
Avrebbe dato, pur potendo aspirare, come il gruppo dirigente socialista gli aveva pressantemente prospettato, al mandato parlamentare, il meglio di sé stesso nella ricostruzione del movimento cooperativo, su cui si era abbattuta con particolare accanimento la scure della reazione fascista.
Ed anche in tale opzione risiede la conferma della volontà di non perdere mai di vista la lezione del padre, che, insieme a Giuseppe Garibotti, era stato il pioniere ed il fondatore di un'imponente rete cooperativistica
La prima significativa tappa di riavvio del movimento cooperativo cremonese fu scandita dal Primo Congresso Provinciale che si svolse domenica 8 settembre 1946, come annotò la prima pagina de L'EdP n° 73
Con la nomina dei Presidenti nelle persone dell'On. Pressinotti e dell'On. Bernamonti si sono aperti i lavori.
Sale per primo alla tribuna il compagno Comunardo Boldori, il quale fa una lunga dettagliata relazione dell'attività svolta.
Oggi – ha detto il compagno Boldori – la Federazione raggruppa i 5/6 di tutte le Cooperative del Cremonese.
Le Cooperative che hanno dato la loro adesione la loro adesione alla Federazione sono 103 per un totale di 30 mila soci e con un capitale versato di L. 20.000.000.
Il patrimonio raggiunge all'incirca uguale cifra.
Odiernamente le Cooperative possono coprire il fabbisogno di un 1/3 della popolazione.
Delle prospettive di sviluppo della cooperazione di consumo, significativamente dimostrando di saper coniugare l'aspirazione al cambiamento alla realistica conoscenza del mercato, aveva già scritto sul n° 40/46, sotto il titolo “All'insegna delle cooperative – Il finanziamento delle cooperative di consumo e le necessità dell'Unione Cooperativa”, Comunardo Boldori
Più volte ci siamo intrattenuti su questo argomento e più volte abbiamo osservato che le cooperative, avendo poco capitale dai soci, devono chiederne molto alle banche.
Ma, nonostante tutto, le cooperative si dibattono in difficoltà di ogni genere, dovute alla mancanza di capitali.
Se pensiamo che per ogni vagone di vino occorre un milione e mezzo, che per fornire un magazzinetto appena appena e una cantina occorrono dieci milioni, che la scorta di vino e di alimentari di uno spaccio è di circa mezzo milione e se consideriamo che il capitale versato dai soci è sì e no un decimo di quanto occorre, si vede come il problema finanziario è oggi il primo e più importante problema cooperativistico.
E del resto è logico: qual è la forza dei commercianti?
Il capitale. Si può pensare di combattere sul terreno commerciale senza capitali?
Non bisogna dimenticare che viviamo in un regime di economia capitalistica e anche le cooperative devono sottostare alla legge del capitale.
Inequivocabilmente, l'estensore-testimonial delle ragioni dell'autofinanziamento, come unica o prevalente condizione per lo sviluppo dell'associazionismo cooperativo, incarnava anche un gravoso compito di educazione politica, basato sulla consapevolezza dei principi ineludibili della responsabilità e della rigorosa gestione.
Erano le prime significative realizzazioni, i programmi talmente appassionati da confondersi con i sogni, contemperati dalla conoscenza dei limiti oggettivi e delle difficoltà.
Aveva anticipato tali intuizioni anche nei primi anni quaranta quando, sfruttando i limitati ambiti di organizzazione associativa nel contesto aziendale, aveva ispirato, non soltanto un'intensa attività dopolavoristico-sportiva, ma soprattutto un avanzato indirizzo di istituti assistenziali.
Che saranno sviluppati negli anni successivi, facendo della Pirelli un avamposto ineguagliato di moderno wellfare.
Ma non si era risparmiato, pur essendo uno dei più qualificati dirigenti del socialismo cremonese, nell'attività di partito, facendo crescere una promettente leva di amministratori, sindacalisti ed attivisti socialisti a Pizzighettone e nel resto della provincia.
Sarà proprio in tale località, presso cui prenderà la residenza nell'ottobre del ‘46 a seguito del matrimonio, che Comunardo Boldori sperimenterà sulla propria pelle gli effetti del cambio di fase nello scenario politico nazionale.
La rottura della solidarietà resistenziale, proiettata in sede parlamentare attraverso l'estromissione dall'area di governo delle sinistre, avrebbe comportato una contrapposizione destinata a dilaniare una democrazia ancor fragile.
In cui avrebbe giocato un ruolo non indifferente la questione del rapporto tra sfera politica e sfera religiosa.
Senza voler minimamente riproporre tale questione, specie nel contesto attuale di per sé già incandescente, si ricorderà, per un dovere di informazione, che gli ultimi mesi della giovane esistenza di Comunardo Boldori saranno attraversati dagli strascichi polemici, alimentati da ambienti clericali.
Che avevano ritenuto conveniente coinvolgere nella polemica politica la scelta, del tutto appartenente alla sfera privata, del matrimonio civile.
Una nota stonata, che non si farà scrupolo di proseguire, qualche mese dopo, neanche di fronte alla prematura scomparsa.
Il 20 giugno di settantaquattro anni fa, per una banale imperizia chirurgica su un caso clinico di modesta portata, scompariva a 36 anni Comunardo (Giuseppe)
Uomo buono, leale, generoso e coerente anche nelle disposizioni per l'ultimo commiato, aveva disposto per un rito civile.
Scelta logica e coerente per un non battezzato che si era unito in matrimonio civilmente.
La Chiesa non gradì!
Al punto da far scendere in campo, un una polemica francamente senza senso e senza stile, Don Primo Mazzolari.
Il quale, pur non conoscendolo, scrisse di lui un articolo sconcertante, che nella sua totale incoerenza tradiva tutti i principi e valori, professati in una appassionata ed universalmente riconosciuta testimonianza civile e religiosa.
Su L'Italia, quotidiano fortemente influenzato dalla gerarchia vescovile del Nord Italia, apparve il 20 luglio 1947 un articolo, intitolato “STORIE D'OGGI UNA PICCOLA CANCELLATURA”.
Di cui, anche con un certo dispiacere, riportiamo (rinviando la lettura del testo integrale a Il socialismo di Patecchio) uno passo tra i meno aberranti
Tant'è: si nasce con un proprio destino, e il suo era di continuare il padre al momento buono. Le dinastie non muoiono anche se muore la monarchia.
Col 25 aprile, Giuseppe divenne un simbolo, un attaccapanni. Dovette parlare senza saper cosa dire, imprecare contro il passato, farsi avanti, marciare. Egli capì di nuovo di essere un predestinato, e con quella disinvoltura che è propria degli ereditieri, s'abbandonò sulla prima poltrona. E i compagni a farli omaggio e a dirgli che ci voleva questo riconoscimento, perché se le ingiustizie non si riparano così, che ci stiamo a sgolarci per la rivoluzione?
Ma la performance di Mazzolari lasciò, soprattutto sgomenti i famigliari, la cui reazione si mantenne, secondo uno stile consolidato, nel dolore privato; mentre diede la stura a repliche non propriamente benevole in tutto lo schieramento politico.
Fatto che dovette enormemente impressionare l'arciprete di Bozzolo, specie di fronte agli interrogativi posti da una lettera privata, indirizzatagli dalla giovane vedova.
Alla quale, Don Mazzolari rispose con grande dignità ed onestà:
Bozzolo, 29.7.1947
Gentilissima e buona Signora
benedico l'inspirazione che l'à mossa a scrivermi così ò modo di manifestarLe il mio animo e di chiederLe perdono sull'involontario dispiacere che le ò dato.
...
Se, non volendolo, ò accresciuto la Sua grande sofferenza, Gliene chiedo perdono umilmente, ma non voglio che Ella pensi che per la difesa della mia Fede mi sia chiuso il cuore a quella pietà che solo la religione coltiva.
...
Con profonda stima e alto rispetto mi inchino al Suo dolore, chiedendo a Dio pace e conforto.
Obbl.mo sac. Primo Mazzolari
L'episodio dimostra come lo scontro tra le ragioni della fede e quelle del pensiero laico fosse irriducibile e totale, finendo per metter in campo, forse suo malgrado, anche qualche ‘ereticò, come Don Mazzolari.
La cui figura, ma solo sul piano della coerenza rispetto ai contenuti politici propugnati per molti decenni, potrebbe apparire, in qualche modo, messa in discussione dall'episodio.
Una conclusione, questa, che viene compensata dalla grandezza insita nella richiesta del perdono.