Da cespuglietti a protagonisti del cambiamento
L'accostamento grafico dei simboli dell'area liberal, democratica, radicale e socialista, riportato sulle schede elettorali presentate alle elezioni europee e variabilmente nelle ultime consultazioni regionali ed amministrative, non ha soddisfatto le attese dei promotori. La sommatoria matematica dei sondaggi, è stata smentita dal voto effettivo degli elettori, apertamente critico nei confronti di tutti i raggruppamenti scompaginati da veti incrociati e personalismi, privi di approfondite coesioni programmatiche.
L'obiettivo delle liste riformiste, ossia la costruzione di una consistente aggregazione riformista, nello schieramento del centro sinistra, oggi ancor più necessaria di ieri, è stato sostanzialmente mancato perché offuscato ed inficiato dai comportamenti dei principali leader nazionali, incuranti delle conseguenze che avrebbero avuto a tutti i livelli.
Le responsabilità sono confermate innanzitutto da coloro che dopo aver hanno sostenuto la prospettiva sopra accennata, solo per calcoli meramente contingenti, già disinvoltamente hanno cambiato strategia, dalla mancanza di una riflessione post elettorale comune tra le componenti sostenitrici delle alleanze, dalla riluttanza ha convocare delle assemblee congressuali, cosi come dalla assenza gesti dimissionari, stimolanti un confronto generale.
Nel contesto creatosi, una rinnovata ripartenza, non può che partire dalla rimotivazione degli iscritti e dei candidati che si sono spesi convintamente per il successo delle liste riformiste, attraverso una profonda attualizzazione del progetto, dei valori e delle identità programmatiche ispiratrici, che non possono essere analoghe a quelle delle liste civiche.
Con particolare impegno va sostenuta e dimostrata la compatibilità e l'adeguatezza delle culture, liberal, democratiche e socialiste, a reggere le sfide della globalizzazione, a governare società aperte e plurali, libere e solidali, giuste e sicure, valorizzando i meriti e soddisfacendo i bisogni, secondi i principi della Costituzione Italiana.
Una sinergia credibile ed esplicita verso la modifica, sul piano più strettamente politico, delle leggi elettorali maggioritarie, producenti sterili contrapposizioni e populismi, anziché coalizioni governative capaci di provvedimenti strutturali tanto necessari in ogni settore pubblico. Una cornice impegnativa e di largo respiro entro cui colmare la scarsa presenza ed organizzazione territoriale dei variegati referenti locali, insieme alla altrettanta necessaria di corrispondere con adeguata preparazione alle esigenze reali dei cittadini.
Per le forze storiche del liberalismo sociale e del riformismo laico socialista, da decenni senza più alcuna organizzazione dignitosa, è giunto il momento di accantonare la rappresentanza del “cespuglietto” ininfluente, per diventare protagoniste nella formazione di una nuova offerta politica, che recuperi almeno in parte il vasto elettorato astensionista, a voto per cambiare il Paese.
Tale considerazione su cui riflettere vale anche per la frammentata area riformista della nostra Provincia, interna ai partiti e principalmente da Azione, Italia Viva, Radicali, Repubblicani, Socialisti, ed altri movimenti ancora.
Nella situazione esistente, quanto incidono oggettivamente le singole realtà sui problemi della città e del territorio?
Il riformismo, questo sconosciuto
Editoriale di Mauro Del Bue
Sabato, come ogni anno, si svolgeranno le iniziative promosse dai parenti e dai compagni di Fernando Santi, in occasione. del 55esimo anniversario della sua scomparsa. Santi era un sindacalista unitario e un socialista riformista. In effetti la parola socialista ha bisogno di una specificazione e quella riformista, assieme a quella liberale, costituiscono le sole versioni sopravvissute ai fallimenti e alle barbarie della storia. Ma anche la qualificazione di riformista ha bisogno della parola socialista a cui é storicamente legata. Non é mai esistito un riformismo comunista o un riformismo cattolico. Anche negli anni della revisione profonda del Pci Berlinguer mai si definì riformista. Arrivò al punto di qualificare il suo Pci come “conservatore e rivoluzionario”, “di lotta e di governo”, ma, diciamo pure correttamente, non entrò mai nel campo altrui, quello del riformismo. Mai i democristiani, e più in generale gli articolati movimenti cattolici, hanno sposato il riformismo. Anzi, l'hanno saltato a piè pari. Non si contano gli esponenti che uscendo dalla Dc (citiamo negli anni cinquanta il famoso e salace Mario Melloni, alias Fortebraccio) finirono direttamente nel Pci (come non ricordare nel dopoguerra Franco Rodano, Felice Balbo e Adriano Ossicini con la loro rivista Sinistra cristiana) o coloro che addirittura piantarono le tende nella sinistra extraparlamentare. Basti pensare alla storia di due dei fondatori delle Brigate Rosse: Margherita Cagol, nata nella cattolicissima Trento e formatasi nell'associazionismo cattolico, e Renato Curcio, che pur non essendo cattolico veniva comunque dal contesto della chiesa valdese. Non sono casi isolati questi rifiuti del riformismo da parte del mondo cattolico. D'altronde il riformismo non é quell'assoluto del quale un credente ha bisogno. È laico, concreto, procede non promettendo il paradiso o la terra dei sogni, ma solo un mondo migliore. Neanche i socialisti, dal 1912 (congresso di Reggio Emilia vinto dal rivoluzionario Benito Mussolini) al 1981 (congresso di Palermo vinto dalla corrente riformista di Bettino Craxi) furono riformisti. Furono progressivamente filo bolscevichi, antifascisti, frontisti, autonomisti, unificazionisti, scissionisti, per la rivoluzione democratica, al governo ma promettendo il socialismo (quale?) domani. Perfino i vecchi riformisti nel dopoguerra non ebbero il coraggio di definirsi tali. Perfino Saragat che al momento della scissione di Palazzo Barberini non volle dietro di sé il ritratto di Turati ma di Marx. E Nenni quando volle celebrare a Canzo Filippo Turati, il padre del socialismo e del riformismo italiano, lo fece mettendone in evidenza gli errori, come quando, nel 1959, commemorò Camillo Prampolini nel suo centenario della nascita. La svolta nel Psi (tutti i vecchi riformisti, nel 1947, da Modigliani a D'Aragona, da Paolo Treves ad Alberto Simonini, dalla figlia di Prampolini alla stessa Angelica Balabanoff che riformista non era stata mai, confluirono nel Psli) é datata appunto 1981. Il congresso di Palermo si aggancia così alla fase precedente il 1912. Quasi settant'anni senza riferimenti? No, esisteva una corrente minoritaria, un gruppo di intellettuali raccolto da Critica Sociale di Ugo Guido Mondolfo e dai suoi eredi, tra i quali.Giuseppe Faravelli, la figura del capo delle Brigate Matteotti Corrado Bonfantini che su Turati ha lasciato numerosi scritti, l'Avanti e Mondoperaio che spesso ospitavano studiosi d'impronta riformista come Gaetano Arfè, con la sua brillante storia del socialismo italiano, Federico Coen, Roberto Guiducci, lo stesso Claudio Martelli. Ma che che cos'era e cos'é allora questo riformismo? Nenni ebbe modo di dare una versione popolare al socialismo (che può essere benissimo riferita anche al riformismo): “E' una battaglia rivolta a favore chi é rimasto indietro”. Riformismo non è dunque un fare le riforme, ma farle per chi sta peggio. Una volta si sarebbe detto per gli sfruttati, poi per i lavoratori, e poi ancora per i disoccupati, oggi per i non garantiti (da un salario qualsiasi, da un salario dignitoso, da un posto di lavoro stabile). La società si é frantumata. Non é possibile riassumerla in slogan. Ma l'idea di mettersi a disposizione “di chi è rimasto indietro” é ancora valida. La nazionalizzazione dell'energia elettrica per portarla al sud e nei paesini di montagna questo rappresentava. E così la scuola unica dell'obbligo per non dividere a 10 anni chi poteva permettersi il lusso di studiare e chi doveva avviarsi subito sul mercato del lavoro. Ma anche il cosiddetto patto anti inflazione lo fu. Se il taglio di qualche punto di scala mobile poteva raffreddare l'inflazione e tutelare il potere d'acquisto degli stipendi e delle pensioni questo é. Voglio dire che il riformismo é un vanto del socialismo se produce la riforma ospedaliera, la riforma agraria, lo statuto dei diritti dei lavoratori e molto altro ancora. Non ho ben capito cosa siano invece le riforme di struttura, per le quali i cortei degli anni settanta annunciavano lotta dura. Ci sono solo riforme giuste e riforme ingiuste. Quelle giuste appartengono alla storia del riformismo, quelle ingiuste (come il reddito di cittadinanza concepito alla Cinque stelle o il 110% per il restauro delle case dei ricchi appartengono alla sciagurata storia del populismo). Il riformismo non é una religione, come il marxismo-leninismo, oggi alquanto in disuso. Non lo é come il fascismo che pare oggi stuzzicare più d'uno. Non é neanche una teoria scritta alla stregua del libretto di Mao. Non ci si può dunque, lo dico per i giovani, infatuare del riformismo. Per scegliere questa strada basta la ragione. Lo disse Filippo Turati agli scissionisti comunisti: “Se volete fare qualcosa che sia veramente rivoluzionario voi sarete forzati a percorrere esattamente la nostra via, quella dei socialtraditori”. La profezia di Turati si é avverata a metà. Il Pd il vecchio riformista non lo aveva proprio previsto.
Consigli per Firenze
Non potendo essere presente all'assemblea dell'Associazione socialista liberale se non affettivamente, rivolgo questi cinque ragionamenti ai compagni e amici riuniti e anche a quelli che non sono potuti arrivare sull'Arno.
- Rispetto al precedente appuntamento fiorentino sono cambiate molte cose. La Costituente di un'area riformista e liberalsocialista ha lasciato il campo a frantumazioni, perduranti dissidi, valutazioni politiche diverse tra i soggetti che avrebbero dovuto promuoverla. Alle elezioni europee sono state presentare due liste, l'una, quella di Stati uniti d'Europa promossa da Emma Bonino alla quale, oltre a Più Europa, hanno aderito Italia viva e il Psi, quest'ultimo partito traslocando da Fratoianni a Renzi senza un solo accenno autocritico. L'altra promossa da Azione, anche col contributo della nostra associazione. Nessuna delle due liste ha superato lo sbarramento elettorale mentre le due unite lo avrebbero agevolmente varcato. Prevalenti sono stati i risentimenti, anche forse giustificati, di Carlo Calenda, sulle esigenze politiche. Non é da leader far prevalere valutazioni personali sulla politica. Al congresso nazionale di Torino del 1955 Pietro Nenni definì il governo Scelba-Saragat il governo SS, l'anno dopo, all'incontro estivo di Pralognan, dopo la revisione socialista alla luce delle denunce dei crimini di Stalin nel XX congresso del Pcus, lanciò la politica dell'unificazione socialista con Saragat. Solo un dilettantismo di stampo elitario può condurre la sua politica in un vicolo cieco. Oggi “que reste t'il des nos amours”? In Azione mi risulta si sia aperto un confronto interno propedeutico a qualsiasi mossa esterna. Non so con quali possibilità di successo l'on. Pastorella (il confronto tra Pastorelli e Pastorella assume un chiaro connotato agreste) sfidi Calenda in un congresso. Vedremo chi prevarrà. Se qualcuno si muovesse al di là del padronato politico dei partiti dovrebbe trovare il nostro consenso. Certo non mi pare questo il momento di aderire a una costituente che non é stata promossa né ad un altro partito atteso da una resa dei conti.
- Il Psi é un partito ancora contendibile? Non saprei, ma l'attuale mi pare molto anchilosato su un gruppo dirigente legato ad alcuni territori meridionali. Certo che un consiglio nazionale che approva all'unanimità di aderire a una lista con Fratoianni e poco dopo approva di aderire a una lista con Renzi, ma sempre all'unanimità, mi lascia perplesso sul possesso di una minima capacità di declinazione politica. Forse, visto che l'accordo con Renzi e con Calenda l'aveva proposto per le elezioni politiche qualcuno di noi al congresso, zittito e deriso, anche con un linguaggio siculo italiota, potevano almeno riconoscere le nostre ragioni. Aggiungo. Anche se questa sigla, perché di sigla si tratta e non di partito (non é infatti un partito un organo senza controlli che commissaria intere regioni, esautora segretari regionali come quello dell'Umbria col bel risultato che si é visto, espelle decine di compagni, compreso chi scrive, dal Consiglio nazionale regolarmente eletti al congresso) anche se questa sigla fosse contendibile siamo sicuri che poi servirà a qualcosa? Mi sono battuto personalmente per dimostrare che non era possibile dal 1994 in poi, in presenza del sistema politico non identitario, ricostruire il Psi, ma che dovessimo invece contribuire a creare l'erede del Psi con altre forze. Poteva essere la Rosa nel pugno, poteva essere il Terzo polo, soluzioni sciupate entrambe. I due interrogativi, se il Psi sia un partito scalabile e se, una volta scalato, serva a qualcosa li pongo davvero in modo discorsivo e non risolutivo. Dinnanzi a voi per un confronto chiarificatore.
- Il compagno Claudio Signorile, l'unico del vecchio gruppo dirigente del Psi a non avere ancora fondato partiti e gruppi, al contrario di Amato, Martelli, Formica e De Michelis, ha voluto perdere questa anomala sua caratteristica e ci rivolge l'invito a comporre un tavolo con gli altri soggetti, simil partiti, associazioni, riviste, fondazioni, giornali d'ispirazione socialista. Io sarei propenso ad intavolarmi. Come La Giustizia e come Associazione dovremmo dare un'occhiata. Con spirito costruttivo. Ho scritto un editoriale su La Giustizia, intitolato “C'é qualcosa di nuovo oggi nell'aria” parafrasando una celebre poesia di Giovanni Pascoli. In effetti dopo la scomparsa di Paolo Pillitteri é stata generale la rivalutazione dell'ex sindaco di Milano a cui Sala ha voluto dedicare una giornata di lutto, nonché della storia del Psi. Sansonetti ha scritto che bisogna ridare l'onore a Craxi e al Psi per i grandi servizi resi all'Italia. Era avvenuto anche in occasione della morte di Ugo Intini, definito un “socialista onesto”, ma non è che fosse l'unico. Queste parole vengono in genere spese dopo i decessi. Quasi che i socialisti siano buoni da morti e non da vivi, che siano da rivalutare nel passato e non nel presente. Anche per questo é complicato, se non impossibile, delineare i contorni di una rinascita del Psi semplicemente dai recenti omaggi funebri.
- Credo che ragionare di alleanze sia prematuro ma io vorrei che si tracciasse una strada, la nostra strada. Non mi convince, ad esempio, quel che ipotizza un amico e un compagno che stimo, E cioè che noi dobbiamo contribuire a far nascere l'area di centro del centro-sinistra. Intanto io non mi sento di centro, ma di sinistra. Ma la mia sinistra é un'altra. E' quella socialista riformista e liberale, quella di Craxi e di Pannella, quella della lotta ai poteri forti, quella della giustizia giusta, quella che appoggia senza tentennamenti tutte le lotte di resistenza agli invasori e non tentenna perché tra gli invasori non ci sono gli americani, quella che si batte per il diritto all'esistenza e alla difesa dello stato di Israele e per il diritto a una patria per il popolo palestinese, quella che si batte contro il razzismo e l'antisemitismo ovunque nel mondo. Ora questa sinistra é alternativa e non compatibile coi Cinque stelle di Conte che si vanta della coerenza politica quando é stato il più veloce trasmigratore da destra a sinistra che si sia mai conosciuto nella storia italiana e ora ha perfino tradito il suo creatore. E che su Ucraina e Israele ha idee opposte alle nostre. Ma mi chiedo anche come sia possibile individuare un'intesa con Fratoianni visto che, contrariamente al vecchio Psi e anche al Pci, propone l'uscita dell'Italia dalla Nato. Non vorrei la replica del governo D'Alema che decise di bombardare Belgrado e una delle sue componenti si recò a Belgrado a solidarizzare coi bombardati. Se l'unico motivo è di battere la destra si assisterebbe alla riedizione del governo Prodi con l'Unione, che prevalse seppur di pochissimo alle elezioni e non riuscì a governare per più di due anni. Quindi la nostra associazione dovrebbe dire no al campo largo e se mai si svolgesse qualche forma di costituente ponesse questa come condizione per la sua adesione.
- E infine un ragionamento sul bipolarismo e l'ambizione anti bipolare che ci dovrebbe animare. Il bipolarismo italiano in fondo non é mai stato perfetto come non lo era quel biparitismo descritto da Giorgio Galli, perché se ieri esisteva l'area laico socialista che lo contestava in questi trent'anni sono nate molteplici liste, con risultati alterni, che lo hanno combattuto. Questa tendenza bipolare é apparsa subito schizofrenica. Non c'è stata alcuna elezione, dal 1994 in poi, infatti, che sia stata mai vinta dal governo in carica. L'alternanza è divenuta permanente e nevrotica, ribaltando il famoso detto andreottiano secondo il quale “il potere logora chi non ce l'ha”. Il bipolarismo ha in genere poi formato esecutivi non omogenei, risultato della primaria ambizione di vincere a qualunque costo le elezioni mettendo insieme coalizioni eterogenee, pastrocchi sensza senso e coesione, che poi sono stati messi in crisi creando ingovernabilità. Anche adesso, siamo a poco più di due anni di vita, e già si comincia a sventagliare l'eventualità di nuove elezioni. Ma la tendenza bipolare non é stata per nulla argine all'antipolitica e al distacco dell'elettorato. L'Italia era il paese europeo in cui si votava di più. È divenuto il paese in cui si vota di meno. Il bipolarismo é dunque dannoso non per noi, ma per l'Italia e una forza, un'area politica, una Costituente che sostenga questa tesi dovrà pur nascere in questo dannato paese. Questo sostengo carissimi amici e compagni. Così come mi parrebbe utile riallacciare i rapporti con il Partito radicale e mischiarci nelle lotte sulle carceri, sulla legalizzazione delle droghe leggere, sul fine vita. La Schlein che sente, beata lei, il fascino di Landini e lo segue amorevolmente, ha dichiarato recentemente di sentirsi l'erede delle battaglie civili di suo nonno. Peccato che il nonno, il senatore socialista Agostino Viviani, sia stato il primo a presentare una proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati mentre lei, la nipote, ritenga la stessa legge un attentato alla democrazia. Nonno e nipote evidentemente non hanno lo stesso dna politico. Rafforziamo l'associazione organizzativamente e politicamente, questo il messaggio che lancerei da Firenze. E guardiamoci intorno semmai nascesse davvero un'area che contesta questo marcio bipolarismo in cui intrupparci.
Ciao. Mauro
Non esattamente come quella della proverbiale Marchesa, ma…
Non riusciamo a vedercela bella (pur non essendo a scavalco del fosso!). Ci riferiamo, ovviamente, allo stato e alle prospettive di quell'aggregato che un tempo si chiamava “sinistra”. Oddio, volendo obbedire a dove vorrebbe portarci il cuore, dovremmo riferirci anche ai destini del socialismo, del suo bagaglio teorico-pratico e della sua intelaiatura militante.
C'è ancora (e per fortuna!) chi, come Virginio Venturelli, ne fa una profonda analisi e la declina anche ai parametri della realtà territoriale. Diciamo, a tutta prima, che, per quanto riguarda la linea editoriale, la condividiamo tutta e, per quanto dipenderà da noi, faremo di tutto per propiziare occasioni di ulteriore approfondimento e convergenza.
Sul lato generalista, però, avvertiamo, però, nella nostra analisi-riflessione un dovere di franchezza, ai limiti della spietatezza.
Partendo da un incipit, che ci fa correre (noi che da sempre censuriamo la propensione esclusiva di questi tempi a fare del consenso-suffragio elettorale l'elemento esclusivo e non come si dovrebbe la verifica dei percorsi prestazionali), ma che non può essere eluso.
Negli ultimi 60 anni il voto medio della sinistra europea è sceso dal 37.4 al 22.1 Negli ultimi due decenni sono calati gli iscritti della SPD del 60% del PSF del 72% del PD (ammesso che si congrua la catalogazione socialista) del 50%.
I socialisti, sostiene Marc Lazar, hanno dovuto, per effetto del mutamento della struttura sociale, ibridare la loro base elettorale. Però non riuscendo ad intercettare significativamente la nuova classe media e perdendo, a vantaggio dei populismi, gran parte del voto operaio.
Le ultime tre decadi, che coincidono con il ciclo della globalizzazione e l'integrazione socioeconomica sovranazionale, hanno in termini di disuguaglianze accentuato le preesistenti e ne hanno create di nuove, praticamente disinstallato quanti-qualitativamente il welfare state, creato insicurezza sociale, che si aggiunge alla palpabile insicurezza dalle paure innescate da flussi migratori incontrollati e dal portato di gestioni inadeguate giocate sul terreno del politicamente corretto. Rispetto a questi profondi cambiamenti le performances dei governi della sinistra riformista, che nel frattempo ha archiviato il progetto della Progressive Governance e della New Left e che ha quasi totalmente compiaciuto le suggestioni della valorialità post materialiste (sostiene fondatamente Marc Lazar), ha evidenziato un deficit di aggiornamento progettuale e di efficienza gestionale. Che ha orientato il distacco di ampie fasce della sinistra, che guardano sempre più marcatamente all'offerta politica tradizionalista.
Sempre ancorati a questo corrimano di rivisitazione del recente passato, aggiungeremo che la New Left fu un tentativo di fornire una risposta aggiornata all'armamentario teorico pratico del socialismo occidentale ai cambiamenti incardinati dal processo di internazionalizzazione. Quanto abbia o non abbia funzionato lo dicono i processi di marginalizzazione di consenso e di ruolo di governo. Se la Progressive Left europea (per quella italiana l'impresa, al di là dei numeri, appare disperata, a prescindere dall'appropriatezza dell'inclusione del PD nella famiglia) vorrà rimettersi in piedi, non potrà prescindere dal decalogo di Lazar: lotta per la giustizia sociale e per un'uguaglianza ben diversa dall'egualitarismo; sicurezza fisica e socioeconomica soprattutto per le fasce vulnerabili; profonda riformulazione dei concetti e delle modalità concrete della partecipazione correlata al modello liberaldemocratico; testimonianza di profilo riformista (non già radical!) dei "grandi rischi" (climate change, pandemie, conflitti armati). Nello sforzo preciso di inquadrare permanentemente la visione analitica e il progetto nell'entità europea e di correlare stabilmente lo sforzo visionario della messa a punto di una "nuova pelle" lib lab a quello concretamente operativo delle strategie di concreto cambiamento.
Non possiamo a questo punto non agganciare, per completezza d'analisi, la recente riflessione, ripresa dalla stampa italiana, del ministro socialista spagnolo all'Economia: “la crisi finanziaria e, modestamente aggiungeremmo noi, il portato della globalizzazione finanziarizzazione del modello neocapitalista insegnano (o dovrebbero) che lasciare indietro larghi strati di popolazione genera squilibri sociali che, una volta esplosi, provocano il disassamento degli equilibri su cui poggia il modello liberaldemocratico. In ciò favorendo l'ascesa del populismo sovranismo. Che rappresenta non già la cura delle distorsioni bensì l'aggravamento della criticità”.
Riflessione che per quanto ci riguarda non può non portare l'intera sinistra riformista europea a metabolizzare nella propria “offerta” quanto segue: Si alla sicurezza e al controllo delle migrazioni, no alla transizione ecologica ideologica che ci sta facendo perdere posti di lavoro, si al nucleare, difesa dell'istruzione e della sanità pubblica.
E veniamo da ultimo ad un aspetto tipicamente italiano che riguarda il cosiddeto “centro”
Un po' esageratamente si sostiene l'esistenza in milioni di cittadini di un disagio quando si profferisce la parola "centro". Non siamo tra loro. Perché da decenni noi siamo di "sinistra". Della sinistra riformista. Che, trasfusa a livello di testimonianza organizzata e militante e a livello elettorale può anche e benissimo non coincidere con l'allocation del "campo".
Altro falso tratto identificante è il termine "moderato". Aggettivazione funzionale all'intensità di testimonianza progettuale. Non appunto del progetto riformista che ne costituisce il perno. Facendo il verso a Matteotti la sinistra da noi evocata è riformista rivoluzionaria
Renzi, riferendosi al profilo appealing del sempre evocato "centro", esterna: "io vorrei prendere i voti di Forza Italia, di chi non ha votato o è deluso da Meloni". Ovviamente la leva dell'aspettativa elettorale conta. Ma messa come fa Renzi la questione è prevalentemente di marketing. E anche un po' surreale. Pensando alla filiera motivazionale di chi non ha votato FI ed è deluso da Meloni e dovrebbe votare un nuovo o rigenerato "centro". Noi, invece, guardiamo alla fattispecie dell'opinione e del potenziale elettorato che non ha mai votato e mai voterebbe FI e men che meno Meloni. E che da tempo non trova un'adeguata offerta progressista, riformista e, se non schifa, di pensiero laico (considerata l'intensità degli endorsement di chi teorizza l'impossibilità di un centro a forte connotazione cattolica). Non si intravvede, se non nell'ossessiva e vacua campagna mediatica, la benché minima volontà della nomenklatura dem di riconnettersi alla propria costituency sociale e politica, sul terreno del lavoro equamente remunerato, delle prerogative costituzionalmente garantite a livello di cura della salute, della sicurezza.
Per questa serie di motivi ribadiamo la nostra totale idiosincrasia a far dipendere le chances di rilancio di una “voce socialista” dalla linea guida sin qui praticata, vale a dire l'esclusiva dipendenza da un passatismo fatto di nome, simbolo, continuità militante.