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La berèta de Lurens

Tempistica e modalità delle zone rosse

  19/06/2020

Di Enrico Vidali

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Premettiamo (con la forza necessaria e la determinazione di dirlo per una volta sempre) che un conto è il complesso delle riserve, delle critiche e delle controdeduzioni sui comportamenti politico-istituzionali suscitato dalle reazioni all'enormità della tragedia (da cui non siamo ancora usciti definitivamente) e altro conto è, invece, l'insieme di scomposte repliche espresse con i gesti della più bieca barbarie.

Nella piena consapevolezza e nella premessa che, a questo punto di “pausa” della falcidia della pandemia, rientri nei doveri della dialettica e nei ruoli della democrazia la ricerca (ad ogni livello di governo) delle responsabilità (esclusive, concorrenti e condivise) afferenti ad una delle temperie più drammatiche della vita della comunità nazionale, ci sentiamo di escludere che nessuno dei players in gioco possa (fino a prova contraria) essere minimamente indiziato di comportamenti passibili di dolo o di dolo eventuale.

Se è possibile fare a questo punto un sub totale del trend della sala di regia pubblica, azzardiamo, knowing our chickens (un Paese a bassa coesione comunitaria, a fragile e claudicante equilibrio tra senso dei diritti e dei doveri, un ordinamento infragilito dalla costante concessione alla demagogia ed alla insopprimibile pratica di scambio tra provvedimenti e consensi) che da una batosta così, paragonabile solo alle conseguenze delle due guerre del Novecento, ci si sarebbe potuta aspettare una performance molto al di sotto di quanto è avvenuto nel quadrimestre.

Churchill, poco incline a smancerie nei confronti degli italiani, definì (ingenerosamente, ma argutamente) la nostra propensione ad andare alle partite di calcio con lo stesso spirito con cui andiamo in guerra e viceversa.

Constatiamo, senza voler minimamente assolvere questo disdicevole imprinting, che la pandemia lo ha radicato anche in insospettabili realtà nazionali.

Nella convinzione che si poteva far meglio e nella consapevolezza che frequentemente il meglio è nemico del bene, arriviamo (equivalendo le attenuanti generiche e specifiche insite nell'enormità del guaio e le aggravanti del sistema-paese dal punto di vista etico e civile) ad un complessivo giudizio  non totalmente negativo.

Ah, certamente, col senno del prima e del poi, si sarebbe dovuto indulgere di meno ad una tergiversazione/narrazione ad usum mediatico e, assumendo conseguenti responsabilità, andare diritto al punto. Ma, ripetiamo, rimarcando preliminarmente la nostra malmostosità nei confronti del governo centrale, che, per carico di competenze, deve essere inteso come detentore della golden share, non ci sentiamo pienamente  autorizzati ad esprimere un giudizio severo sulle prestazioni.

In qualche misura le performances di qualche pivello, catapultato inaspettatamente un anno fa a ruoli ministeriali (Sanità e Rapporti con le Regioni) distribuiti sulla stregua del manuale Cencelli, sono apparse congrue alla bisogna e foriere di auspici per la formazione di una classe di governo, se non ineccepibile, almeno consona alla realtà di un Paese costantemente alle prese con criticità.

La valutazione, considerando la diversificazione del campo, sull'azione delle Regioni, non può essere ovviamente uniforme.

A livello di comparto istituzionale, essa non può che essere disomogenea come disomogenee sono le singole realtà politiche e le risposte fornite, in scansioni diversificate dal timing e dall'intensità dell'insorgenza. Indubbiamente, alcune sale regia, favorite da quadri pregressi meno compromessi (Veneto ed Emilia Romagna), hanno agito con maggiore efficacia, costituendo riferimento valido per il futuro e per altri contesti regionali.

La nostra Lombardia, su cui si è rovesciata una cateratta di dimensioni bibliche, difficilmente potrà ambire al sei politico.

Ma, premessa nella premessa, non possiamo esimerci da condannare severamente l'ondata ribellistica, che, stimando di intercettare fasce di scontento in chiave di destabilizzazione, non rinuncia alla minaccia ed alla violenza.

Nei contesti in cui ci siamo trovati (ed in qualche misura continueremo a trovarci ancora per un po') la supponenza e l'autoreferenzialità della nostra “eccellenza”, che hanno agito solo negli scenari da morta gora, hanno rivelato un inoppugnabile “sotto niente” alla prova emergenziale.

Che ha messo a nudo un establishment politico, nonostante un quadro di continuità e di netta supremazia,  contraddistinto da una marcata fragilità gestionale e da un forte limite strategico.

Sullo specifico della gestione della sanità non vogliamo infierire; tanto macroscopico si è rivelato il gap tra la prestazione offerta e minimo sindacale che si sarebbe potuto attendere dalla “locomotiva dell'Italia”. 

Come si vede, la nostra analisi è assolutamente scevra da pregiudizi tendenti a “caricare” (per calcoli di parte) un giudizio espresso in negativo, ma tendente, da un lato, ad enucleare le cause che hanno ex ante compromesso il trend e, dall'altro, a segnalare  le toppate in corso d'opera.

Sotto questo punto di vista, condanniamo senza riserve la canea ribellistica che, motivata dalla denuncia di errori (che sicuramente ci sono stati), introduce in uno scenario di suo già molto complicato elementi destabilizzanti; che non si fanno scrupolo del preannuncio di minacce e di violenze.

Rispetto a ciò, appare come minimo doveroso esprimere la più convinta solidarietà al “governatore” Fontana entrato nel mirino dei violenti.

Nemmeno i picchi di criticità, incrociati nei tre mesi terribili, potevano, tuttavia, giustificare la pretesa di imputare di disfattismo qualsiasi critica, stimata gesto di lesa maestà.

A somma emergenza scavallata, diventa, soprattutto di fronte alla emergente propensione di sbianchettare gli errori strategici del passato e di addomesticare le falle congiunturali (con l'evidente intenzione di autocandidarsi nei ruoli gestionali anche per il futuro), fisiologico un pieno ritorno alla dialettica delle posizioni.

Da tale punto di vista, al di là di come andrà la vicenda individuale dell'Assessore Gallera (che, ancor prima di dare il meglio di se stesso nella gestione della pandemia, si era già fatto conoscere, in solido con i vertici dell'ASST, come “ottimizzatore” dei presidi territoriali), rileviamo che, se il promoveatur ut amoveatur del direttore della Sanità lombarda non appare sufficiente, inequivocabilmente assume un valore simbolico di autocritica.

In questi giorni emerge, però, anche una zona opaca che, per parare sia la chiamata di correità in quella che appare sempre più una class action di valenza etica sia il rendiconto presso l'opinione pubblica di svarioni apparentemente laterali, preannuncia sinistre minimizzazioni degli effetti di inconsiderate esternazioni, destinate a ripercuotersi anche nei comportamenti futuri.

Il “tana liberi tutti” decretato dagli assembramenti di Napoli non è, per quanto inquietante dal punto vista della tenuta simbolica della barra della responsabilità, che il disvelamento di un concept comunitario, che, nonostante qualche apprezzabile scenario nella direzione esattamente contraria, è manifestamente impermeabile ad un forte dna di comportamenti rigorosi.

Figurarsi, poi, di fronte a scelte binarie; che, come nel caso della fase zero della pandemia, erano prive del supporto di letteratura scientifica e comportamentale consolidata ed ineccepibile.

Si è detto, giustamente, che la Lombardia (unitamente al Veneto) ha fatto da cavia per tutto il mondo.

L'interpretazione delle dinamiche di diffusione sono per settimane state affidate a fonti (specie quelle politiche) non esattamente inappuntabili.

Togli e metti la mascherina, usa e rifiuta i guanti e la distanza fisica e quant'altro hanno costituito il tormentone, su cui si sono applicati i comunicatori istituzionali, cimentatisi con un livello di autorevolezza e competenza, spesso inferiore ai requisiti della gente comune.

Stupisce (e non certamente nell'intento virtuoso di predisporre una linea del Piave nella malaugurata prospettiva di una seconda ondata)  che, di fronte alla chiamata in causa di una clamorosa ondata diffusiva (di cui le tergiversazioni sulla chiusura e sul raggio delle zone rosse), qualcuno non si faccia scrupolo di correggere retroattivamente falle, quanto meno di inopportuna testimonianza.

Ci riferiamo a quella sorta di fuggi fuggi prevalentemente da parte della nomenklatura salviniana, che nel quadrante dell'epicentro in cui si è sviluppata l'avanguardia pandemica ha quasi il monopolio del controllo delle istituzionali locali,  di fronte all'evidenza (postuma) degli effetti della tardiva e/o limitativa istituzione della zona rossa.

In contesti, così inesplorati e drammatici come quello delle due settimane a cavallo tra fine febbraio e inizio marzo, ci sarebbe stato da invocare l'aforisma dell' “indovinala grillo!”

Indubbiamente, però, se ne sai poco, è preferibile che, soprattutto su materie così incandescenti, limiti l'assertività.

I quel periodo, si ricorderà facilmente che il “capo” non rinunciò alla “bestia”, ma continuò imperterrito la solita narrazione da bar. Così tanto per tener su di giri il motore del verbo populista nell'aspettativa di messi crescenti di consenso.

La cifra antagonistica di un establishment in forte deficit di certezze scientifiche e comportamentali era, al pari degli altri padri populisti, ispirata al rifiuto di indirizzi costrittivi.

E, mentre i Sindaci salviniani erano tenuti a comportamenti congrui al ruolo istituzionale  (Francesco Passerini sindaco di Codogno ammonì: "Chiunque esca dalla cerchia dei comuni rossi può incorrere nella violazione dell'articolo 640 del codice penale, che prevede pene fino all'arresto") lo speech ufficiale del movimento fu quello semieversivo della ribellione e del tana liberi tutti.

In questi giorni, simultaneamente al quesito sulle ragioni per cui la zona rossa non fu estesa subito ai territori martire delle valli bergamasche, si riflette (oddio, si sproloquia) anche da noi sul motivo ostativo del mancato ampliamento della zona rossa del Basso Lodigiano a tutto il territorio lodigiano e al Pizzighettonese. 

Posta così la questione sembra più che altro un esercizio confacente alla flessibilità della proverbiale beréta de Lurens, che notoriamente (secondo le convenienze), si allarga e si stringe.

Una postura, questa, disinvolta, non conveniente ad una analisi obiettiva del recente passato, soprattutto, dannosa come base di riferimento per una malaugurata replica dell'evento.

Intervenuto in materia, il Sindaco del borgo rivierasco, cerniera territoriale e crocevia di un quadrante interprovinciale, ha dichiarato che “si sia agito con buon senso … seguendo i confini naturali delle province”.

Forse voleva dire i confini amministrativi delle province. Da tale punto di vista il confine naturale di Pizzighettone è stato, in ragione della propria storica condizione strategico-geografica appena descritta, asimmetrico rispetto al confine amministrativo.

Una (poste sulla riva destra) delle tre parrocchie  faceva addirittura parte della Diocesi laudense (in continuità con la circostanza rappresentata dall'approdo degli esuli di Lodi dalla distruzione del Barbarossa vennero a smaltire la peste in località Mortini). Fino all'inizio dell'800 molti defunti di Gera venivano inumati (per comodità di vicinanza) nel cimitero di Maleo. Molti ammalati sottoposti ad interventi chirurgici di una certa importanza si rivolgevano al più vicino ospedale di Codogno (anziché a Cremona). Quasi tutti il licenziati dalla media inferiore (preriforma del 1964) studiarono (oddio, non sottilizziamo, frequentarono) preso il Ginnasio Ognissanti di Codogno. Negli anni della ricostruzione molti maleini lavorarono alla Pirelli di Pizzighettone e non pochi specializzati di Pizzighettone lavorarono presso le aziende chimiche di Casalpusterlengo.

Per non parlare delle reciproche frequentazioni happy hours serali (serali!, non notturne come nei tempi correnti), con un via vai tra i ballarotti e le future discoteche (molto più attrezzate quelle del Basso Lodigiano e dell'alto piacentino, tra cui la rimpianta Meridiana).

La divagazione è, non già per far sfoggio di memoir, bensì per focalizzare una reciproca, naturale gravitazione super territoriale, che prescindeva dagli idiomi locali e dalle bandierine geo-istituzionali.

Tali furono le rimembranti riflessioni, quando domenica 24 febbraio, dopo aver raggiunto il nostro paese natale per una visita presentita come l'ultima pre-pandemica,  ci trovammo sulle tracce dei codognesi-lodigiani proditoriamente violatori dell'embargo decretato ed operante dal giorno antecedente. 

Markets talmente vuotati da far ricordare i negozi dei Paesi di rito sovietico;  commessi sbigottiti da una corvées durata 48 ore e allarmati dal timore di essere stati infettati da untori di Maleo, Codogno, Cavacurta, Castiglione d'Adda (patria di quell'infettato 1, la cui intensa relazionalità non è estranea alla propagazione geometrica); cittadini senza particolare qualifica, se non la generica appartenenza alla fattispecie dei consumatori costretti ad un inaspettato incontro ravvicinato del terzo tipo (di cui erano immaginabili le intenzioni nonché il potenziale contaminante.

Proviamo a simulare uno scenario diverso da quello fatto discendere dal Sindaco Moggi dalla “soluzione più semplice, ma non per questo la più sbagliata”.

Tanto per dire: il Pizzighettonese entra nella zona rossa, presidiata ai limiti esterni ed all'interno dei singoli Comuni, in cui i residenti sono costretti da divieto di uscire di casa.

Si sarebbe potuto risparmiare la slavina di avventori (non tutti, ma alcuni dei quali sicuramente latori del regalino virale).

D'altro lato, da qualche parte il picco di contaminazione, malattia, decessi, che, coi 150 infettati ed ics (esattamente non conosciuto ma presumibilmente elevatissimo) deceduti ha fatto del centro sull'Adda un "borgo da record", da qualche parte deve essere arrivato.

Recriminare non è elegante e civicamente è inappropriato. Meno ancora è l'impulso a scansare le responsabilità.

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