Meno di un anno fa cadeva il cinquantenario della “primavera praghese”. Che, per chi scrive, rappresentò un quasi perfetto combinato tra il tentativo più elevato di trasformare incruentamente e dall'interno i connotati dell'imposto socialismo reale e la più implacabile delle repressioni.
C'erano stati i precedenti della rivolta operaia di Berlino del 1953 e dei fatti insurrezionali polacchi ed ungheresi. Ma nessuno di essi presentava quelle inoppugnabili caratteristiche di riformare in senso democratico la struttura socialista.
Questo tentativo sarebbe stato represso come i precedenti. Militarmente con esiti meno devastanti di quanto fosse stata la repressione magiara. Ma, da punto didattico, la determinazione del Cremlino e dei fraterni partiti comunisti satelliti del sovietismo nello stroncare la rivoluzione dal volto umano di Dubcek fu sovraccaricata proprio dalla consapevolezza di doversi misurare con un tentativo che, in nessun caso, era suscettibile (come nel caso ungheresi si dieci anni prima) di essere accusato di intelligenza con l'Occidente.
Sotto tale punto di vista, la normalizzazione dei timidi tentativi di autoriforma, si ripete dentro il modello socio-economico comunista, sarebbe stata sistematica. Come era stata pacifista la primavera del 68, altrettanto incruenta sarebbe stato il contrasto popolare alla repressione.
Il movimento democratico e popolare cecoslovacco avrebbe fronteggiato gli invasori con l'arma della non violenza, di cui il suicidio di Jan Palach avvenuto il 19 gennaio del 1969 rappresentò il più alto profilo.
È trascorso mezzo secolo da quei fatti; ma i profondi cambiamenti intervenuti a partire dal successivo ventennio, coinciso con la caduta del Muro di Berlino, hanno in qualche misura derubricato il loro significato.
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