Infatti, bisognerebbe aggiungere, per una quasi impercettibile distinzione, che sulle coscienze, ormai isterilite, degli italiani scivola proprio di tutto. D'altro lato, secondo Churchill, il nostro popolo va alle partite con lo stesso spirito con cui andrebbe in guerra. E viceversa.
Di tanto in tanto, però, l'immaginario, enormemente dilatato da quel tormentone di ultima generazione che sono i social, sarebbe posto con le spalle al muro da eventi, suscettibili di interrogare le coscienze e di provocare testimonianze civili. Oltre ai forti deficit di cultura storica, viene in soccorso, affinché ciò non accada, il contributo, si fa per dire, dei media.
Capìta l'antifona dei vantaggi prodotti dalla lavorazione dell'evento, si sta sul pezzo il tempo strettamente correlato allo scoop e, soprattutto, lo si offre nei profili di banalità di una domanda stremata dal cedimento dei livelli del sapere.
La premessa è per presentare, ovviamente secondo il nostro modesto punto di vista, un accadimento che mai avremmo (ingenuamente) pensato di poter ragionevolmente incrociare (almeno nella scansione temporale della nostra residua permanenza in vita).
Deludendo il nostalgico parterre de roi sabaudo, vale a dire, come lamenta e sospira il redattore del quotidiano cremonese, “senza neanche un picchetto militare” (gesto che sarebbe stato d'ordinanza del galateo storico istituzionale se il comandante in capo dell'esercito non se la fosse, come la gran parte dei regnanti del centro Europa occupata dall'invasore nazista, filata all'inglese), alla chetichella sono tornati sul patrio suolo i resti mortali della penultima copia regnante al Quirinale.
All'imprevisto (ma, considerate le potenziali ricadute insite nella “fine dell'esilio” del 2002, non imprevedibile) evento, coperto da un allucinante alone di segretezza, si è riservato uno sforzo ermeneutico incongruo al suo significato, storico e civile.
Ad eccezione delle grandi testate, che in ogni caso non hanno resistito a corredare i servizi della piega glamour/gossipara da decenni riservata dalle pagine patinate ai cascami delle dinastie, la notizia è prevalentemente impattata in una mediazione soft.
La sorella Maria Gabriella (forse la più intelligente dei tre figli di Umberto e Maria José) che briga, evidentemente attraverso canali di alto livello, perché le salme dei nonni rientrino (al riparo di improbabili profanazioni islamiche) nel patrio suolo. Di nascosto (ça va sans dire) dell'erede Vittorio Emanuele (che sarebbe IV). Destinazione, una location defilata del Piemonte. Rifiutata dai circoli sabaudi intransigenti che rivendicano nel Pantheon la sede definitiva, Ma gioiosamente salutata dal sindaco di Vicoforte, nella cui giurisdizione ricade il santuario. Il quale, al pari del collega di Predappio, confida nell'indotto dell'appeal turistico.
Ma venendo a noi, confidiamo che non ci saremmo insinuati, né in testa né in coda, nella notizia, se l'abbrivio dell'articolo “Savoia un ritorno quasi segreto”, non fosse stato “Il tempo creerà le condizioni”.
Attribuito a Nenni, intorno alle prospettive stimate, cinquant'anni fa, di traslare i resti mortali del penultimo regnante al Pantheon.
Goffi, dopo aver dato atto all'allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri di un profilo socialista e repubblicano intransigente, sembra quasi voler correlare le premesse di questo scalcinato rientro alla maturazione dei tempi storici necessari, vaticinata da Nenni.
Molto probabilmente, senza volerci impancare ad interpreti del pensiero nenniano, il leader socialista avrà voluto riferirsi alle prospettive di modifica di quelle norme transitorie, che avevano giustamente ostracizzato la continuità dinastica.
Diciamo subito di non essere stati nelle prime file dei supporters degli sviluppi che avrebbero portato nel 2002 alla cessazione degli effetti dei commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione (divieto di ingresso e di soggiorno nel territorio italiano per gli "ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti...).
Così come la notizia dell'arrivo delle salme esattamente non ci riempie di gioia. Per l'approdo in sé, per le modalità e per gli equivoci che sottende.
Le motivazioni di una “riconciliazione”, che erano evidenti in quella modifica costituzionale (di passaggio, si noterà che la Costituzione, più bella del mondo, resiste all'intoccabilità rigorosamente sotto l'impulso del nulla), sono sembrate funzionare in automatico anche per la cessazione dell'embargo delle salme.
Ma quale “riconciliazione” ci può essere se, come giustamente scrive Goffi “la memoria nazionale non è affatto condivisa né riconciliata”, gli eventuali partners dell'operazione, destinata alla coesione delle basi storiche ed etiche fondanti della comunità nazionale, sono arroccati negli avamposti del “non tradire e non restaurare” e se i beneficiati monarchici della clemenza repubblicana cominciano il giorno dopo con la negazione o quanto meno la minimizzazione delle colpe dei Savoia. Una dinastia, che, al di là dell'interessata retorica sui meriti della patria unificazione, si è distinta per un profilo predatorio nei confronti del filone democratico del Risorgimento e per un'incontrovertibile, piglio reazionario di tutto il ciclo post-unitario.
Oh, indubbiamente, pesa sulle percezioni degli italiani (degli italiani che ancora si possono permettere qualche scampolo di coscienza civile) i segmenti ad alta intensità didascalica della fuga, sommariamente narrata, del Re Sciaboletta a Brindisi. Rembember le sequenze (più pregnanti di un saggio storico) del film Stardust, in cui la soubrette Dea Dani e il comico Mimmo Adami in cui incrociano la real vettura diretta a Brindisi?
Che già di per se stessa, al di là di qualsiasi inaccettabile negazionismo, dice sufficientemente, più che della fellonia di un supposto padre della patria, della totale assenza di cardini etici e morali, correlati ai doveri della massima carica.
Non solo fuggì, ma, come considera oggi sul Corriere Elena Aga Rossi, lasciò senza ordini le forze armate, in Italia ed all'estero. Ed, aggiungiamo, noi, l'intero Paese in balia di eventi nefasti ed incontrollabili.
Scrive il (sempre bravo) redattore de La Provincia di “meriti del primo quindicennio di regno”. Quali?
Ricordiamo che Vittorio Emanuele III ereditò lo scettro dal padre Re Umberto I, ucciso il 29 luglio 1900 a Monza ad opera dell'anarchico Gaetano Bresci.
Seguendo il nostro impulso, scriveremmo volentieri “giustiziato” dall'anarchico Bresci. Da non violenti (anche se in questo caso, recalcitranti) non possiamo permettercelo. Ma indubbiamente se l'ordinamento, che, all'epoca, prevedeva (per i comuni mortali) la pena di morte, avesse previsto la massima pena per i delitti dei regnanti, l'atto dell'anarchico sarebbe stato più che giustificato.
Tutto il regno umbertino fu costellato, unitamente ad una marcata commistione tra politica antipopolare ed impronta affaristica, dai perni che, al di là della retorica patriottica interessatamente inoculata anche negli stati popolari, avevano ed avrebbero, a partire dall'autoritarismo, contraddistinto l'intero ciclo sabaudo.
Parallelamente ai fermenti popolari in atto in tutta Europa, anche in Italia si andavano diffondendo le idee egualitarie e la spinta all'organizzazione politica di massa. Nella primavera del 1898 da Milano partì una protesta, prontamente estesasi a tutto il territorio nazionale, ampiamente giustificata dalle miserevoli condizioni di vita dei ceti popolari che erano i veri protagonisti dell'espansione economica indotta dalla rivoluzione industriale.
Anziché assecondare politiche equitative, sul piano economico e sociale, la corona mise in campo, tra il 6 e il 9 maggio i cannoni del generale Bava Beccaris. Schierati nelle piazze e nelle vie della capitale morale per uccidere.
Ne seguì una strage; se risponde al vero la stima di 120 morti ed oltre 400 feriti, solo a Milano.
Impossibile conteggiare l'esito della carneficina scatenata dalla repressione dei moti di protesta che coinvolsero l'intero Paese. Anche il territorio cremonese ne fu interessato. Da veementi proteste popolari contro la fame dilagante e contro la repressione esercitata da un ossessivo ed esteso apparato militare, poliziesco e burocratico e da una risposta repressiva ancor più veemente.
Che avrebbe mietuto le vite di due insorti a Soresina. Come corollario di una repressione a vasto raggio, come scrive Emilio Zanoni in “Il movimento socialista di classe nel cremonese”, che si nutrì ben presto di arresti, di diffide, di processi e condanne, di soppressione delle elementari prerogative liberali e democratiche, di gesti di scardinamento dell'associazionismo sociale e politico. E che non risparmiò neppure la prerogativa parlamentare; fino all'arresto di deputati parlamentari. Tra cui Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Andrea Costa, Leonida Bissolati, Carlo Romussi, Paolo Valera.
Ribadisce nel citato saggio Zanoni: “ I ceti medi progressisti erano offesi dall'agitar di sproni dei generali di Umberto e dalla non sottaciuta volontà di questo monarca di instaurare una monarchia militare proprio nell'anno in cui si celebrava il cinquantenario dello Statuto”. E proprio allo scopo di evitare che l'oblio cali su queste patrie pagine, ci faremo carico di organizzare nel prossimo maggio (120° delle vicende) una rivisitazione storica della repressione dei moti popolari del 1898.
L'11 agosto 1900 Umberto succedeva sul trono, giurando fedeltà a quello stesso Statuto nell'aula del Senato, davanti ai due rami del Parlamento.
Ne avrebbe fatto strame, assecondando l'esito della “marcia su Roma” che sarebbe stata poco più di una pagliacciata se i poteri dello Stato avessero affrontato convenientemente i loro doveri di difesa della democrazia.
Ne avrebbe fatto strame 38 anni dopo quando, capovolgendo l'indirizzo tutto sommato innovativo dello Statuto in materia di libertà religiose che sdoganò la comunità ebraica, con le leggi razziali si allineò al nazismo.
Poiché siamo scevri dal manicheismo, non possiamo certamente ignorare alcuni sprazzi di modernizzazione della nazione. Tardivi, limitati e sempre circoscritti in un'ottica mai veramente liberale ed equitativa. In ogni caso il saldo del lungo regno resta sommerso dall'enormità delle nefandezze. Che furono alla base dell'ostracismo decretato dalla Costituente. E che dovrebbero restare come pietra miliare per il rifiuto di qualsiasi prospettiva di “riconciliazione” che fondi sulla manipolazione storica e sulla contaminazione delle fonti morali della Repubblica.
È un mettere le mani avanti. Semmai qualcuno, come temono la comunità israelitica e la presidenza dell'ANPI, pensasse di poter tollerare la sceneggiata delle parti in commedia della famiglia (alcuni membri accettano la soluzione minimalistica, altri pretendono il Pantheon), in vista, appunto, come pretende il mancato re Vittorio Emanuele IV, della concretizzazione della prerogativa di tumulazione nel tempio realizzato da Marco Vipsanio Agrippa dove dovrebbero riposare “tutti i principi Savoia che hanno regnato”.
I conti con loro (e con i Savoia che non hanno regnato, pur non rinunciando al contributo di discredito del Paese) sono stati fatti il due giugno.
D'altro lato, come si sarebbe potuto pretendere che l'Egitto di farsi carico in aeterno di siffatti personaggi? Ahinoi, ce li siamo dovuti riprendere. Ma finisca qui.