Se la classe dirigente non c'è e al suo posto c'è una compagnia di ventura composta in gran parte da opportunisti privi dei fondamentali dell'economia, della Costituzione, del diritto e dell'etica politica oltre alle responsabilità di cui abbiamo scritto ieri, dobbiamo sottolineare come la scuola sia una delle componenti, la principale del degrado nazionale, delle difficoltà permanenti di affrontare le sfide del mondo contemporaneo.
Tra gli anni '60 e '70, un po' per la spinta autodistruttiva del Movimento studentesco con deriva brigastista, molto, troppo per l'ideologia che, in proposito, accomunava democristiani e comunisti.
Componente non secondaria, l'influenza di don Milani, il cui insegnamento fondamentale è costituito dalla solidarietà educativa, valore non negoziabile, il cui cascame deleterio tuttavia è costituito dalla sostanziale proposizione che la didattica deve andare al passo del più lento, del meno dotato. Un devastante insegnamento considerato una specie di dogma espressivo della carità cristiana dagli uni (i democristiani), un'asserzione rivoluzionaria per i comunisti che, attraverso questo sistema di proponevano di scardinare i metodi di selezione dei giovani e degli studi. A essi s'erano accodati i socialisti, portatori dell'ideologia -sentimental utopica- dell'allargamento della base scolastica accompagnata dall'alleggerimento degli insegnamenti.
Dare agli studi il passo dei meno dotati non è una misura di parificazione, di eguaglianza, ma un provvedimento punitivo per i più dotati, per coloro che avendo voglia di apprendere si collocano nell'esigua minoranza dei primi delle classi. Il deprimerli è un costo per loro e per la nazione che si priva dei talenti che ogni generazione offre alla comunità.
Opinioni, programmi, decisioni che sono confluite in una serie inorganica di riforme che hanno dato un colpo mortale alla Riforma Gentile che, al di là e a dispetto della damnatio di cui era stato colpito il filosofo Giovanni Gentile -che determinò il suo assassinio a opera di partigiani che volevano con lui abbattere uno degli esponenti del pensiero fascista- autore di una risistemazione degli studi che era necessario perfezionare non smontare.
Prima vittima, la scuola media di primo grado, privata di ogni capacità di orientamento e di formazione e diventata una fase di passaggio in attesa della naturale maturazione degli adolescenti, liberi poi di scegliere la scuola preferita, non la scuola più idonea per ognuno di loro.
Seconda sanguinante vittima, il liceo classico, considerato, proprio esso, la scuola delle classi dirigenti, l'unica che consentisse l'accesso a tutte le facoltà (oggi i limiti di accesso sono stati tutti aboliti in danno degli studenti che si trovano, impreparati, ad affrontare studi accademici che pretenderebbero adeguate integrazioni culturali) e in alcune materie una formazione quasi universitaria (ricordo bene come con la sola preparazione del liceo sostenni l'esame di Letteratura italiana con il padovano Giuseppe Toffanin conseguendo un tondo 30 e lode). In molte città d'Italia c'era un liceo classico prestigioso, la cui iscrizione era ambita: a Roma il Visconti, a Milano il Parini, a Napoli l'Umberto I e via dicendo.
Alla caduta ordinamentale, vanno aggiunti gli effetti del '68 e seguenti che hanno prodotto alcune generazioni di insegnanti poco preparati e politicamente orientati in senso antagonista.
Un moto, questo della politica italiana, opposto a ciò che accadeva nel mondo occidentale, nel quale il crescere della competizione mondiale ha spinto le autorità politiche a rendere gli studi più completi, più pesanti, più formativi.
Naturalmente, mano a mano che il tempo passa e le generazioni di insegnanti cambiano, c'è stato un miglioramento certo del corpo docente. Rimangono i problemi ordinamentali, quelli del riordino del sistema e dell'aggiustamento delle sue peggiori storture. Una delle quali, macroscopica, è rappresentata dalle lauree brevi. Furono introdotte da Luigi Berlinguer, ministro dell'università e autorevole esponente della commissione pubblica istruzione, che, dopo, chiese scusa agli italiani avendo percepito l'erroneità di alcune norme, laurea triennale compresa.
Ormai sono decenni di lauree brevi -né carne né pesce- e occorre solo riparare il riparabile. Per esempio, renderle strettamente funzionali agli studi successivi, cioè tali da poter essere considerate come i bienni di un tempo.
Rimane, in ogni caso, la questione scuola e università, cui si deve porre mano in modo non ideologico ma in funzione delle esigenze della società contemporanea e -scopo precipuo- della necessità di inserire nel mondo del lavoro gente adeguatamente formata.
Purtroppo, la questione rimane in secondo piano, quando dovrebbe essere il primo punto di ogni programma di governo. E del resto il livello di consapevolezza dei componenti del partito di maggioranza relativa è così scarso che, finché loro non torneranno al precedente anonimato (e minoranza), è meglio dedicarsi al solo approfondimento dei temi, in vista di una prossima legislatura sperabilmente un po' qualificata.
In questo caso abbiamo invertito l'ordine dei fattori. Preferendo aprire le danze con un pezzo forte. Una testimonianza di Domenico Cacopardo, già pubblicata dalla testata di cui è editorialista e benevolmente concessa alla replica sulla nostra testata on line.
L'autore è ciò che normalmente si definisce un grand commis de l'état, posto ai vertici di alcune delle più elevate entità amministrative, centrali e decentrate. Al cui servizio ha sempre posto il combinato di adeguata preparazione, di consapevolezze interpretative e di auspici in chiave riformatrice. Rispetto alle tendenze e ai cicli in atto.
Adesso che, nonostante quella “r” a completamento della qualifica professionale, non ha del tutto gettato la tonaca della testimonianza civile alle ortiche, dedica il risultato di una notevole sedimentazione di conoscenze ad un editorialismo, diciamo, colto e consapevole.
Ogni tanto, su sua concessione, facciamo come Mario Ruotolo (il postino secondo cui “le poesie non sono di chi le scrive ma di chi gli serve”) e pubblichiamo sulla nostra testata alcuni suoi lavori.
I cui perni sono prevalentemente correlati alle tematiche emergenti e di tanto in tanto, invece, sono fuori timing e, soprattutto, fuori dal coro delle interpretazioni conformistiche.
Al di fuori delle quali decisamente si diventa passibili di verdetto di politically incorrect. Il menu dei temi esclude l'esercizio del pensiero se non proprio critico almeno privo di subalternanza su alcuni temi (che non accenniamo neanche per sommi capi, tanto si intuiscono).
Meno di questi capisaldi del radicalismo “civile”, ma ancora all'indice della piena espressione del pensiero, è la scuola, con il suo portato di diritti e doveri e di incidenza nell'economia dell'inserimento civile e nella crescita complessiva della società.
Domenico Cacopardo ha come sempre il pregio di snobbare la pruderie della sinistra au caviar e di cogliere il sentiment diffuso, soprattutto nella gente che, pur non testimoniando pubblicamente, si informa e riflette.
È il caso della nostra lettrice di Vicenza (e nostra compagna di studi) che ci scrive
“Grazie per i link che mi hai inviato, mi sono stati di aiuto per approfondire il disastro guerra in Ucraina. Mea culpa lo dobbiamo fare, soprattutto i politici (Berlusconi, Salvini) ora però è il momento dell'aiuto e della accoglienza. Gli ucraini: donne, bambini, vecchi e malati con dignità ci chiedono sostegno e un luogo sicuro dove stare. Tutti però pensano di ritornare alle loro case, una volta che il loro Paese sia stato liberato dall'invasore Putin. Bravo, hai una scrittura scorrevole e chiara che ti fa capire fino in fondo il concetto. Requisito sempre più raro questo, anche nel giornalismo di livello. Non improbabile conseguenza della scuola di oggi che ha un livello di insegnamento molto basso. Il sei politico ha tolto la voglia agli studenti di approfondire, ha appiattito la creatività ed il desiderio di conoscenza. Per fortuna le mie figlie hanno fatto in tempo, prima della riforma, ad avere brave maestre e si sa che le elementari sono le fondamenta dell'istruzione. Ora sono PhD e hanno un ottimo lavoro professionale. Penso alle mie nipotine, che futuro avranno?”
Alla lettrice-corrispondente ed ex compagna di studi ho privatamente risposto quanto qui riprendo, spero, per l'utilità di un più generale approfondimento.
Dopo l'editoriale di Cacopardo non ci sarebbe molto da dire. Ma può essere fecondo attingere anche dai percorsi introspettivi.
Scorrevole e chiara, definisce C.L. la nostra cifra comunicativa. Molti lettori dicono benevolmente il contrario: sei lungo e complicato. Li lascio dire e li ammonisco circa il dovere di alzare la soglia dell'attenzione. Devono impegnarsi loro ad affinare le risorse interpretative. Specialmente su argomenti (il nostro prevalente menu di approfondimento) che vanno preservati dalla metrica dei social.
Senza fare lo snob, questa è la nostra immodificabile offerta, che, a quanto si può constatare, unifica la cifra stilistica di tutti coloro che contribuiscono a questa testata.
Non cambiamo non per tigna ma per coerenza e per rispetto della nostra formazione di cui saremo eternamente grati a nostri docenti. Al cui ricordo corre la nostra mente.
Ci ha insegnato a comprendere i testi scolastici. Allora non si apprezzava molto ma oggi i loro insegnamenti si rivelano fondamentali. Non tanto dal punto di vista nozionistico, quanto per l'acquisizione degli strumenti interpretativi; a cominciare dai capisaldi della lingua e della letteratura. Grandi educatori! Con loro abbiamo fatto un mezzo liceo classico. Ragioneria era un ottimo aggregato di discipline. La politica ci aveva un po' svagato. Ma avremmo ben presto avuto occasione di accorgerci del piccolo tesoretto di conoscenze quando nel dicembre 1965 si sarebbe affrontato l'esame di ammissione a sociologia a Trento. Un'ecatombe. Rapporto 1 a 50. Chi scrive e un altro ragioniere (poi diventato direttore di un'importante azienda cremonese) entrarono. Contarono molto la prova scritta di italiano e l'orale di discipline economiche. Il diploma di allora equivaleva all'attuale triennio universitario. Quella scuola non c'è più da decenni. Prima è vero c'era una scuola “autoritaria e nozionistica”. Ma si imparava. Eh...tutto cominciò dalla sinistra del 6 politico. E, per quanto mossi da buoni sentimenti, da certe testimonianze post montessoriane. Esponenzialmente dilatate dalla scuola di Barbiana. Ok per il pensiero critico e contro l'autoritarismo. Ma se non studi e resti un asino, non emanciperai mai. Tutt'al più avrai il reddito di cittadinanza. Tempi difficili questi. Che dovrebbero mettere in discussione i testacoda conformistici degli ultimi decenni. La resilienza civile riparte dell'educazione. (e.v.)