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Crisi del centro-sinistra: uscire dal cubo, deinde philosophari ut vivere

Premessa ineludibile. L’Eco del Popolo, ancorché (moralmente) sequel della testata del PSI cremonese che fu, non è, nei contesti attuali organo di niente e di nessuno

  02/03/2019

A cura della Redazione

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Premessa ineludibile. L'Eco del Popolo, ancorché (moralmente) sequel della testata del PSI cremonese che fu, non è, nei contesti attuali organo di niente e di nessuno.

Chi scrive, dovendosi qualificare, è un apolide socialista alla ricerca di una patria (che non c'è più), in cui sia possibile esercitare il proprio diritto/dovere di cittadinanza politica (orientato in senso socialista). Di cui non si intravvede, essendo l'orizzonte ostruito da ciclopici rottami, neanche una labile prospettiva di materializzazione.

Insomma, siamo messi né più né meno come quella (azzardiamo!) moltitudine di aspiranti militanti alla ricerca di un punto di riferimento ideale e di agibilità militante (urca che parolona!) suscettibile di disincagliare l'impasse e di rimodulare una (decente) offerta di socialismo, a terzo millennio avviato.

Ulteriore premessa. L'afflato, sommariamente descritto, è probabilmente comune a molte altre condizioni individuali. Che, però, costituiscono un potenziale serbatoio di impulsi, forse, differenziati nelle motivazioni e aspettative (personali). Per essere, più che chiari, chiarissimi, dichiariamo di appartenere alla fattispecie (aristocraticamente) descritta da Cacciari: siamo già ricchi del nostro!

Nel senso che abbiamo di che vivere decorosamente, non abbiamo ambizioni, siamo appagati e, ultimo ma non ultimo, interveniamo (scusate la presunzione) con la cognizione di causa (derivante dall'età, dalla lunga consuetudine sul pezzo, dal costante aggiornamento fatto anche di buone letture) e nell'intento di fornire spunti e riflessioni, corroborati da salda obiettività di analisi e da intenti edificanti.

Per quanto, non vivendo sulla proverbiale torre d'avorio e non avendo sterilizzato i sentimenti, ogni tanto siamo abbagliati dalle lucciole, foriere di una affievolita lucidità, che il sentimento, appunto, agogna ma che la realtà si incaricare di brutalizzare.

Qualche mese fa (4 marzo 2018), per dirne una, incocciammo, a petto dell'inversione di tendenza nell'accesso ai seggi, in un'errata lettura del nesso di causalità tra quel fenomeno (peraltro circoscritto) e la lievitazione dei consensi al centro-sinistra (smentita, come ben si sa, da risultati disastrosi).

Nei tempi più attuali, contraddistinti dalla caduta della tradizionale fidelizzazione e dell'insorgenza di una marcata mobilità, non ci faremo ipnotizzare dalle lucciole nel trarre auspici dall'esito del rinnovo dei governi regionali. Che, al contrario, costituisce per altri, alla ricerca di auspici poco congrui alla realtà, incontrovertibili deduzioni da gettare nel dibattito (e nella pugna)

È per questa non breve (come, peraltro, non succinta sarà l'analisi seguente) premessa che, nell'affrontare questa riflessione, partiremo da un abbrivio realistico fino alla spietatezza. È passato quasi un anno dalla catastrofe elettorale del 4 marzo. E poco più di due da quella che, con il referendum istituzionale, l'ha preceduta ed incardinata.

Ma, in aggiunta ad una poco commendevole ed edificante consapevolezza, la sinistra poco o niente ha fatto per capirne le reali cause e per attivare le contromisure. È stata per mesi e mesi ipnotizzata dal baratro. Parliamo della sinistra tradizionale e di quella nuova, entrambe identificate (nonostante che la seconda si sia mimetizzata nelle vesti di radicalchiccheria) con l'establishment, i potenti, i ricchi, la casta, ed entrambe destinate ad una sconfitta, in tutte le sue declinazioni e coniugazioni.

Il PD ne è stato il principale percettore. Il filotto di rovesci, che, per quanto pesanti, costituirebbero un fatto fisiologico nella liberaldemocrazia, ne ha, invece, messo a nudo una fragilità strutturale, (nell'impianto progettuale e nel format associativo), già presente nella fondazione e diventata vieppiù evidente nel prosieguo. Soprattutto, sempre più severamente rimarcandone l'incongruente correlazione tra lo speech/telling riformista ed una pratica del tutto avulsa da realistiche letture dei cambiamenti in corso.

La reazione, da parte dei diretti interessati (che continuano a fornire interpretazioni, se non proprio di comodo, certamente ispirate ad alibi in chiave di auto assoluzione e, chapeau, di scarico sull'avversario) all'uno-due da knockout, non si è posta sin dall'inizio e (nonostante Assemblee, Direzioni, Congressi e Primarie e nonostante ancora vistosi campanelli ammonitori) si sta colpevolmente trascinando sin qui. Ecco perché, interpretando rumors e sentiments intuibili nella maggioranza silenziosa del campo del centro-sinistra e, soprattutto, volendo essere partecipi della ricerca di una via d'uscita da questa crisi (che arrischia di tramutarsi in un défault epocale della nostra area di riferimento) ci sentiamo di fare un discorso, ispirato dalla scelta di partecipare (non nominativamente) alla Primarie di domani, dalla lucidità (che deriva dalla condizione di non invischiati in mene intendenziali), dal vantaggio di aver militato per mezzo secolo in un partito (diversamente dai portatori della golden share del patto di sindacato alla base della fondazione e della gestione del PD) per cui la riflessione su risultati elettorali, sempre (si parva licet) incongrui ai meriti, talvolta punitivi e talvolta catastrofici), fu pane quotidiano.

Insomma, accampiamo una certa competenza in materia di rovesci elettorali. Che ci consente (o addirittura ci obbliga) a rappresentare, ai diretti aventi causa e ai loro junior partners (categoria alla quale severamente iscriviamo la nomenklaturina socialista da un quarto di secolo impegnata in ruoli ancillari) la cruda realtà.

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