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4 marzo: c'è anche la Lombardia

L’opzione di concentrare la chiamata alle urne il rinnovo del Parlamento e di alcune Regioni costituisce, sia per la complessità delle problematiche poste sul tappeto (che richiederebbero una specifica ponderazione) sia per la babele che è diventata questa campagna elettorale e che ha dilatato smisuratamente un problema già complesso di lucida consapevolezza, un’evidente controindicazione.

  02/03/2018

A cura della Redazione

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L'ECOPOLITICA 4 MARZO: C'È ANCHE LA LOMBARDIA!

L'opzione di concentrare la chiamata alle urne il rinnovo del Parlamento e di alcune Regioni costituisce, sia per la complessità delle problematiche poste sul tappeto (che richiederebbero una specifica ponderazione) sia per la babele che è diventata questa campagna elettorale e che ha dilatato smisuratamente un problema già complesso di lucida consapevolezza, un'evidente controindicazione.

Ne discende che il confronto su giudizi a consuntivo e programmi futuri, destinati a formare elementi conclusivi del voto sul rinnovo della composizione di un organo legislativo e gestionale di primaria importanza qual è la nostra Regione, è stato sacrificato dalla tendenza dell'election day a catalizzare l'attenzione più che sui progetti sugli schieramenti.

A ciò hanno concorso la spirale di contrapposizione dettata dalla posta in gioco, a sua volta conseguenza dall'esasperata leaderizzazione/personalizzazione delle dinamiche politiche, e, diciamolo francamente, dall'accentuazione della mediocrità del ceto che ad esse si applica. Mediocrità che da anni ingenera una colpevole tendenza se non proprio alla banalizzazione certamente ad una semplificazione del narrato di questioni che, invece, per responsabilità civile, pretenderebbero un'offerta politica chiara ma, come suggerisce il professor Giuseppe De Rita, adeguata a problematiche complesse.

Le ritorsioni polemiche di attribuzione della responsabilità dei limiti performanti rivelano una drammatica carenza di coesione civile ma anche la totale assenza di un dovere di interdipendenza istituzionale.

Lo scaricabarile, come si diceva un tempo, tra le diverse espressioni politiche ed i diversi livelli amministrativi; che l'un l'altro si incolpano delle responsabilità di cattive gestioni.

Tale fatto non costituisce virtuosa testimonianza civile, suscettibile di frastornare l'opinione pubblica, ma anche di infliggere un ulteriore colpo all'immagine internazionale del sistema Italia.

Indubbiamente ha intrigato molto la suggestione di risparmiare risorse attraverso la concentrazione del rinnovo plurimo. Ma in un sistema in cui la politica spreca immotivatamente danaro pubblico tale resipiscenza di sobrietà getta un'ombra preoccupante sulla priorità dell'obiettivo di creare scenari di trasparenza, in cui la selezione degli eletti faccia premio sulle consapevolezze dell'importanza delle questioni sul tappeto quanto sulla piena conoscenza dei loro contenuti.

Tali premesse dovrebbero costituire sempre il sicurvia per un virtuoso combinato di partecipazione civile dal “basso” (come si diceva un tempo) e di testimonianza didascalica da parte del ceto politico. Sempre, si ripete, dovrebbe essere così. Per di più quando, come nella fattispecie, si è in presenza di un inestricabile accumulo, la cui soluzione viene affidata a quella sorta di incanto su “pacchi” chiusi offerta dalle logiche dello schieramento.

In realtà, come si premetteva, tale accumulo, figlio di bassi livelli performanti, nasce dalla complessità di questioni di cui la struttura ordinamentale costituisce un'interfaccia inadeguata.

Tutti i temi caldi (sicurezza, immigrazione, contrasto alla povertà, investimenti) vedono da sempre (in particolare da quando i superiori livelli di governo han perso il contatto con la realtà del Paese) i Comuni (i loro organi ed i loro operatori elettivi) in prima linea. (De Bortoli).

Al punto da diventare il vero avamposto dello Stato; avamposto su cui si scaricano le aspettative di intervento e le tensioni derivanti dalla frustrazione popolare per le mancate o limitate risposte.

D'altro lato, tale prospettiva era già in carico a quell'impostazione delineata dalla cultura della “Repubblica delle autonomie”, che faceva implicitamente dell'unità di misura comunale il presidio comunitario del territorio.

Se le cose stavano e, col tempo, sempre più diventavano così, ha senso che il rapporto tra superiori ed inferiori livelli dell'ordinamento costituiscano una specie di piramide capovolta? In cui la gran parte dei poteri e delle risorse costituiscano prerogativa del Governo e delle Regioni mentre a carico dei Comuni ci sia questa eccezionale concentrazione di aspettative (non facilmente dribblabili dato il rapporto diretto con la popolazione) contrappuntata da un'esiguità di attribuzioni formali e soprattutto una vistosa carenza di adeguate risorse.

Fa comodo ai poteri centrali identificare nella propria periferia un terminale cui affidare la risposta pubblica alla realtà del Paese in un'ottica opaca di funzioni di fatto che fa dell'istituzionale comunale e provinciale (accertata la sua permanenza sia pure in quadro di colpevole incertezza e di insufficienza di risorse per compiti rimasti inalterati) ingenera marasmaadditando questo terminale istituzionale come vittima sacrificale dell'insoddisfazione popolare. Che andrebbe giustamente indirizzata ai superiori livelli istituzionali.

Se le cose stanno così (e così stanno!) l'election day, finendo per sterilizzare il focus delle questioni regionali, costituisce soprattutto per noi lombardi, costituisce e costituirà ancor di più negli sviluppi l'occasione mancata per una scelta consapevole. In tale dimensione è del tutto evidente la tendenza ad omologare le questioni del territorio regionale (quasi fossero una trascurabile, scontata appendice) nel perno esclusivo delle visioni generali.

Come ben si sa, l'importanza dei due livelli istituzionali sottoposti a rinnovo è, alla luce dell'interdipendenza determinata dall'eccezionalità degli scenari attuali, quanto meno equivalente.

Né si potrebbe temerariamente argomentare che le questioni del rapporto tra Regione e Stato e della specificità lombarda siano già state esaurientemente analizzate ed indirizzate a sintesi nel corso del Referendum di autunno.

La cui inanità (e spreco) è quanto meno dimostrata ad abundantiam dalla limitatezza di quegli obiettivi colti, riconosciuti anche a Regioni che non avevano intrapreso il percorso referendario.

Che la Lombardia sia qualcosa di più e di diverso dalla descrizione retorica della “locomotiva” sarebbe, d'altro lato, dimostrato sia da uno scenario continentale sconosciuto all'epoca della formulazione retorica sia dalla consapevolezza che, di fronte alla difficoltà dell'intero sistema-paese ad uscire dal declino con ricette strutturali, il progetto di una Lombardia, adeguata al mantenimento/accrescimento della propria eccellenza e possibile tributaria di un  benefico trickle down su tutto il Paese, meritasse una procedura partecipativa diversa.

Diversa dagli spazi angusti in cui il confronto è stato confinato da questa campagna elettorale; diversa dalle visioni di corto respiro che hanno orientato la gestione dell'ultimo quarto di secolo.

L'establishment, che ha governato la maggiore entità territoriale dell'Italia (ed una delle maggiori del Continente), ripresentandosi al giudizio del corpo elettorale con la baldanza di chi se la suona e se la canta, dimostra oltretutto di non essere neanche sufficientemente consapevole della vera natura delle problematiche generali e dei disequilibri interni alla stessa Lombardia.

Il centro-destra, la cui rimozione dalle responsabilità di governo oltretutto gioverebbe molto alla salute della democrazia sul terreno dell'alternanza rigeneratrice, si presenta, invece, all'appuntamento con le urne con un profilo di colpevole continuismo.

Confidando nell'effetto traino determinato dall'aspettativa performante della coalizione di destra.

La situazione, al contrario, meriterebbe maggiore ponderazione ed un approccio orientato da analisi aggiornate.

È quel che ci sembra di rilevare nella candidatura Gori. Nel cui pannel si rinviene lo sforzo per proiettare l'analisi sul sistema-Lombardia oltre gli stereotipi.

Innanzitutto, la Lombardia non costituisce entità uniforme. Siamo in presenza di un aggregato articolato per specificità territoriali. L'eccezionalità dell'area metropolitana milanese non può essere assunta come caratteristica rappresentativa dell'intera entità lombarda.

Il terreno su cui la gestione del centro-destra si è rivelata maggiormente carente è rappresentato dalla totale trascuratezza di fornire idee ed alimento a quella che dovrebbe essere la missione precipua della Regione: la crescita armonica in un quadro di riequilibrio del territorio e delle vocazioni.

Al contrario, dalle Giunte Formigoni  in poi, il trend gestionale si è dimostrato assolutamente privo di capacità programmatoria ed ha orientato una destinazione delle risorse (in senso strutturale e gestionale) che ha penalizzato le aree periferiche.

Assommando a tale indirizzo iniquo gli effetti di una politica di “ottimizzazione” delle strutture preposte all'erogazione dei servizi, che si è rivelata di estrema mutilazione della dotazione delle province già periferizzate.

Nel campo sanitario-ospedaliero-assitenziale;come nell'infrastrutturazione viaria in cui il combinato di carenza di risorse per la manutenzione ordinaria e straordinaria si è saldato alla totale assenza di uno sforzo per attenuare l'isolamento.

Vige a carico, in particolare del Sud Lombardia (e di Cremona, trattata peggio di qualsiasi altra entità provinciale) un pregiudizio fatto di sottrazione di risorse e spoliazione di servizi decentrati.

Nello slogan “Fare meglio” di Gori Presidente si rileva quanto meno la tendenza ad invertire l'ottica deformante che ha sin qui guidato le visioni e, soprattutto, i fatti di un quarto di secolo prerogativa del centro-destra.

Come abbiamo recentemente dato conto, la Comunità Socialista Provinciale condivide la scelta del PSI di essere parte attiva e convinta del cartello di testimonianze che sostengono la candidatura di Gori, che nel ruolo di Sindaco di Bergamo ha dimostrato forti e costanti agganci a culture riformiste.

Tra i supporters si evidenzia l'impegno del raggruppamento Insieme (PSI, VERDI, AREA CIVICA). Capolista del raggruppamento è Paolo Carletti, segretario provinciale del PSI. Che porterà nell'esperienza di candidato (e si spera di eletto consigliere) le consapevolezze maturate anche nel ruolo di consigliere comunale di Cremona. Tra queste emerge l'impulso ad interpretare una visione più ampia dell'intero territorio provinciale. Che forse è mancata negli approdi del partito maggiore della coalizione, che ha invece privilegiato scelte orientate quasi esclusivamente da logiche interne.

Questa maggiore aderenza della candidatura di Carletti ad una visione di servizio delle testimonianze dei politici investiti di mandato fa del suo profilo un'occasione di valutazione e preferenza al di fuori degli steccati tradizionali.

È una segnalazione che rivolgiamo agli ambienti dem delusi dalla scelta di privare di rappresentanza l'espressione delle diverse aree della provincia.

A sostegno della candidatura del giovane avvocato socialista è venuto, in mattinata, il pronunciamento del decano dei socialisti cremonesi, Mario Coppetti, che ogni anno (dal 1944) rinnova l'adesione al PSI.

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