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Il ciclone del 24 gennaio 2015 di Cremona

Passato sul Foro Boario e su viale Trento Trieste, pesa ancora sulla sicurezza e sulla coscienza civile della città?

  10/04/2015 19:32:00

A cura della Redazione

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È degli ultimi giorni la notizia di significativi sviluppi nelle indagini, attivate dalla Magistratura e dagli organi di polizia, sui disordini e sulle violenze che, a fine gennaio, tennero sotto scacco la Città.

Nell’ultima settimana di quel mese, come ben si sa e si ricorda, si verificò, infatti, una tale concentrazione di fatti criminosi da fornire cospicua materia al lavoro degli inquirenti, nonché alle riflessioni della politica e dei cittadini.

Riavvolto il nastro di quelle drammatiche sequenze, proviamo anche noi, con razionalità e senza pregiudizio alcuno, ad esaminarle; alla ricerca di un senso per tutta la vicenda, che possa per il futuro salvaguardare la vita democratica e, ad un tempo, tranquillizzare la comunità.

Sotto tale punto di vista, la conferenza-stampa, con cui il pool impegnato nelle investigazioni ha annunciato primi concreti epiloghi, costituisce un fatto indubbiamente positivo.

Le indagini erano iniziate già subito dopo la “scazzottata” del fine derby Cremona/Mantova; la cui coda aveva mandato in ospedale un esponente del Dordoni, postosi con altri “a difesa” del Centro Sociale Autogestito dall’assalto di un manipolo di CasaPound.

Sarebbe divenuto l’incipit convenzionale, la circostanza/detonatore di una striscia in grado di provocare troppe ferite, tanto smarrimento, molte domande per una sostanzialmente piccola comunità come Cremona. Proiettata, forse suo malgrado ed in pieno contrasto con la stereotipata immagine di tranquillità, di serenità, di eleganza e, quindi, di appeal, in un cono di sinistra notorietà mediatica. Come vedremo rivisitando le sequenze ed alcuni fermo-immagine dei fatti, quell’incipit, in realtà, galleggiava da tempo su un poco rassicurante sub-strato di precedenti, trascurati o minimizzati.

La pacifica testimonianza, tanto simbolica quanto disertata, dei “palloncini bianchi” in Piazza Cavour, avvenuta in un pomeriggio domenicale freddo ma radioso, aveva potuto indurre qualcuno a pensare, o almeno a sperare, di archiviare il ciclo dell’Emilio. Il (cinquantenne) “ragazzo”, marito e padre di tre figli, che da qualche decennio, si è riservatamente saputo, testimonia, con gesti non esattamente gandhiani, una personale versione dell’antifascismo e dell’antagonismo radicale.

Fu anche aggiunto (ma lo spunto non è stato raccolto e noi non siamo stati in grado di verificarlo) che il Visigalli, a testimonianza del fatto che una certa interpretazione della violenza politica sembra funzionare a porte girevoli, avrebbe esordito nell’ opposto radicalismo.

Sempre ufficiosamente e, quindi, senza supporti fattuali (che competono semmai alle indagini), si sussurrò, per molti giorni ed in ambienti contigui ai centri sociali, che l’utensileria usata per metterlo quasi in fin di vita sarebbe provenuta, non già dal kit degli aggressori, bensì dall’arsenale amico.

La dimissione clinica del ferito ha chiuso il profilo emotivo che, più o meno strumentalizzato, ha fatto da miccia agli scenari successivi; mentre resta assolutamente aperto (anche se le annunciate acquisizioni investigative ritagliano significativamente i confini dell’ignoto) il capitolo delle responsabilità e del loro sanzionamento.

Va subito detto che, per quanto la “sorpresa” dell’agguato abbia suscitato qualche riserva almeno sul livello di “attenzionamento” di un nevralgico teatro per l’ordine pubblico, gli organi di polizia non erano mai stati con le mani in mano.

Da subito, infatti, la lente era stata posta su una sorta “di quattro più quattro“ (tanti erano e sono gli indagati degli opposti contendenti in campo). Circostanza che pure avrebbe potuto rimandare all’immagine di un tennistico no contest, suscettibile di indirizzare il duello, impunemente o quasi, ingaggiato ormai da anni dagli opposti antagonismi, verso un tie brack inesauribile.

Indubbiamente, aveva lasciato perplessi il primo epilogo del lavoro investigativo, riverberato da ipotesi di reato poco più che bagatellari.

Ma evidentemente la tattica investigativa, low profile e poco o punto sensazionalistica, aveva in pancia un lavoro da passisti. Se è vero come è vero che, subito dopo le performances violente e vandaliche di sabato 24 gennaio, ci si sarebbe trovati di fronte ad una escalation di investigazioni, imparagonabili con la fase immediatamente successiva ai disordini. Fatte di perquisizioni, di sequestri e di interrogatori, che hanno impegnato numerosi agenti e che hanno orientato concretamente il lavoro degli inquirenti verso l’ipotesi accusatoria di rissa aggravata (per dieci dell’ambiente dell’estrema destra e per cinque dell’area antagonista) e (contro ignoti) di tentato omicidio (altro che “scazzottata”!).

Con il che le basi investigative venivano inequivocabilmente incardinate nel segmento, da cui la striscia dei successivi reati aveva preso le mosse.

È logico pensare che anche questo troncone di accertamento dei fatti del dopo-partita del 18 gennaio approderà, prima o poi, a qualche svolta processuale.

Parallelamente, il complesso lavoro degli inquirenti si è andato applicando anche all’altro, più corposo e laborioso, relativo ai disordini veri e propri. La cui complessità, rapportata alla vastità dei fatti, lascia presagire non già snodi repentini ed eclatanti, ma realisticamente acquisizioni graduali ed importanti. Le comunicazioni scaturite dalla conferenza-stampa, che ha visto in Questura la “squadra investigativa” impegnata anche nel delicato ed utile versante della comunicazione (il procuratore capo Roberto di Martino, il pm Fabio Saponara, il questore Vincenzo Rossetto, il vicequestore vicario Gerardo Acquaviva, il dirigente della Squadra mobile Nicola Lelario, il dirigente della Digos Angelo Lonardo e il comandante dei vigili Pierluigi Sforza) inducono a ritenere che le indagini siano, comunque, arrivate al cuore della vicenda.

Vi sono arrivate, non solo con ipotesi accusatorie, ma anche con concreti passi di rilevanza processuale: l’arresto, operato dalla polizia, di due habitué dell’altro centro sociale autogestito (ospitato come il Dordoni dal patrimonio immobiliare comunale), il Kavarna.

Per i due ventenni “ristretti” si profila l’accusa, non lieve, di devastazione e saccheggio di uffici pubblici (in particolare il Comando della Polizia Comunale, addirittura penetrato da uno dei due) e privati (le agenzie assicurative, le banche, gli uffici immobiliari, i negozi commerciali). 

Il Procuratore-capo di Martino, uno dei valenti magistrati negli ultimi anni approdati al Tribunale di Cremona (tra cui va citato il giudice Guido Salvini che nella settimana clou dei disordini non aveva fatto mancare un’autorevole interpretazione dei fatti e degli ulteriori potenziali pericoli), ha chiosato: “È una risposta della città a fatti intollerabili”. Lo stesso procuratore, che si avvale nel complesso ed impegnativo lavoro di giovani ma preparati magistrati, ringraziando le forze dell’ordine per “l’equilibrio durante la manifestazione”, ha aggiunto anche un “Bisogna tenere conto del fatto che si doveva tutelare il bene fisico delle persone”. Su ciò, diciamo subito, vorremmo esprimere qualche sommessa riflessione e perplessità.

Innanzitutto, sottolineiamo in questa dichiarazione la sintonia del Procuratore col comune sentire di una comunità stordita, avvilita, smarrita dalla gravità di fatti che ne hanno profondamente turbato le aspettative di serena convivenza.

Smarrita, soprattutto, dall’assenza, all’orizzonte, di presupposti incontrovertibili che aiutino a comprendere le ragioni di tanta violenza.

Smarrita dalla difficoltà, forse dall’impossibilità, di definire, come si dovrebbe, le responsabilità di chi vi è ricorso (ed abitualmente vi ricorre come se Cremona fosse teatro abilitato); ma anche di chi non l’ha adeguatamente prevenuta e contrastata.

Smarrita dalla problematicità ad identificarsi in un riferimento, in una guida sicura in grado di sormontare le criticità, manifestatesi così brutalmente.

In questo senso dirà pure qualcosa il fatto che, dopo le titubanze del non ci vado o vado e mi tengo in disparte (che ripercorriamo nella scheda allegata a questo dossier), l’establishment politico-istituzionale aveva pensato di metabolizzare le avvisaglie in un (impossibile, data l’inconciliabilità delle opposte versioni date alla categoria dell’antifascismo) afflato, paraistituzionale ed ecumenico. La conseguenza fallimentare della presunzione di poter assorbire ed incapsulare in un format unitario ed istituzionale la risposta “antifascista” alla sortita di Casapound, avrebbe mandato in pezzi la coesione del ceto dirigente; dando la stura a recriminazioni, rimpalli di responsabilità, improbabili e miserabili regolamenti di conti politici.

La comunità, deducendo da tale fatto, poteva stare serena o doveva cominciare a preoccuparsi di siffatta strategia di contenimento? 

Quale, senza più ombra di incertezza, è quella che ha ispirato la risposta ed il contrasto a fatti chiaramente eversivi e che, anche alla luce del recente incontro istituzionale sull’ordine pubblico, presieduto (a riprova della fondatezza dell’allarme, da un lato, e, dall’altro, della consapevolezza dei vertici politici) da ben due Sottosegretari di Stato, sembra, in senso più generale, ispirarne le linee-guida.

 

Nessuno, ci mancherebbe!, chiede a nessuno di “fare Tarzan” o di usare la criptonite di Mandrake. Nessuno, soprattutto di fronte allo sconcerto suscitato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, postula maniere forti o peggio ancora gesti che preludano ad una sorta di militarizzazione del contrasto (conflitto?) in atto tra una comunità, che ha il dovere di preservarsi dal punto di vista della sicurezza dei cittadini, delle attività economiche e, soprattutto, dei cardini della convivenza e della democrazia, e di quel combinato teorico-pratico fai-da-te. Che sottende alla supposta legittimità di “una evidente reazione a un’aggressione fascista che ha ridotto in fin di vita un ragazzo di Cremona” (definizione dei fatti graziosamente offerta dallo scrittore Erri De Luca nell’intervista al Corriere della Sera del 27.01.2015).

E che, men che meno, può far spallucce di fronte all’auto-assolutorio azzardo ermeneutico dei “ragazzi del Dordoni”: “La devastazione di cui si parla coincide con il danneggiamento delle vetrine di qualche banca e assicurazione. Che non pagheranno certo i contribuenti. Nessun negozio (ndr - se si eccettua l’anomalo saccheggio del LD antistante il Dordoni che nella notte del 24 gennaio ha ospitato un centinaio di “manifestanti – ndr), nessuna automobile.”

Sin dal primo intervento, L’Eco del Popolo ha voluto mantenere una lettura ed una narrazione degli elementi in campo ispirati, entrambi, alla necessaria separatezza dei livelli, quello politico e quello giudiziario. Separatezza che, però, non deve, come verremo ad osservare, inclinare all’incomunicabilità.

Ma, ça va sans dire, diventerà ineludibile la rivisitazione delle sgangheratezze di cui ha dato prova, salvo qualche lodevole eccezione, l’intero sistema politico-istituzionale locale. Nel poco convincente tentativo di fornire una versione congruente per una performance (dovuta ad inesperienza, supponenza, sottovalutazione, solito spirito ecumenico) da minimo sindacale, il primo cittadino Galimberti, forse il più ammaccato da un’esperienza dagli esiti (per i poco accorti) imprevedibili, venne a sostenere: "Nessuno, ribadiamo nessuno, ha permesso questo corteo pieno di violenza. L'autorizzazione di tale manifestazione non rientra giuridicamente tra le competenze del Comune di Cremona. La risposta sarà immediata, durissima e i colpevoli dovranno assumersi le proprie responsabilità. Ora pensiamo a risolvere i danni provocati e soprattutto riprendiamo con forza il cammino intrapreso per il rilancio della città. Avvoltoi e sciacalli smettano in questo momento di speculare e, come abbiamo fatto noi, giorno e notte negli ultimi giorni, e anche oggi, accanto alle istituzioni democratiche e alle forze dell'ordine della città rimettiamoci tutti insieme a lavorare per un città democratica, città della pace".

Inequivocabilmente, il prof. Galimberti non barava, quando (forse un po’ Cicero pro domo sua) sosteneva che l’inopinata autorizzazione della manifestazione non era uscita dal Palazzo Comunale. A voler essere ancor più precisi, non v’era neanche entrata. A ribadirlo sono stati gli stessi autogestiti del Dordoni. Che fornivano una versione semplice semplice dell’iter autorizzativo: “Noi abbiamo mandato un fax alla Questura con il tragitto che poi è stato reso pubblico. La Questura l’ha ricevuto. Ne ha preso visione, ma noi non abbiamo ricevuto risposta.”

Tutto qui?, verrebbe da esclamare, rapportando l’essenzialità del percorso amministrativo all’enormità delle conseguenze dell’evento (per la cronaca pare, scene da Peppino e Totò, che gli organizzatori non abbiano ricevuto risposta semplicemente perché la richiesta di autorizzazione a mezzo fax fu spedita, anziché alla Questura, ad una tabaccheria).

L’opposizione politica e consigliare fa il suo mestiere. Ma prendersela con il giovane professore, diventato Sindaco, in quel momento non era né giusto, sul piano delle effettive responsabilità, né producente, per il superiore interesse della comunità cremonese tutta.

Che, in una temperie così critica, aveva e tuttora avrebbe bisogno di massima coesione. Che non appare esattamente assicurata da un ceto dirigente contraddistinto da un downgrading inarrestabile (che interessa non solo la politica ma tutta la filiera dirigente). La Giunta Galimberti, contraddistinta da testimonianze civili sicuramente specchiate, è, in senso generale, figlia di un alito di presunzione e di pretenziosità.

Va sicuramente, almeno nella presente circostanza, riconosciuta la dedizione personale del primo-cittadino. Ed anche un certo coraggio, visto che ha seguito lo sviluppo delle drammatiche vicende nel suo epicentro. Affiancato, oltre che dai solerti dirigenti della Polizia Comunale, anche dall’assessore alla Sicurezza. Ora bisogna intenderci bene sull’accezione “sicurezza”. Perché, se il Prof. Galimberti per essa intende la sollecitudine nei confronti dei piccoli reati predatori, dei pericoli di fuga di gas negli alloggi degli anziani, del bullismo (premesso che anche su questo terreno la situazione della città non è esattamente tranquillizzante), allora l’opzione della professionalità del prescelto (una stimata funzionaria provinciale del settore della promozione turistica) va benissimo. Ma, anche se nessuno nasce imparato e nessuno e nulla escludono che la signora Manfredini possa nel tempo acquisire il rating dell’indimenticato sindaco di New York Giuliani, la situazione attuale indurrebbe ad alzare lo sguardo verso la realtà. Segnaliamo che, alla fine del suo secondo mandato, il Sindaco Corada non occasionalmente affidò la delega per la sicurezza ad una valente personalità, già alto dirigente della Polizia di Stato.

I fatti di fine gennaio non possono, infatti, non costituire un test di tenuta per un governo cittadino, che, pur non avendo in tale ambito una funzione esclusiva o preminente, era partito con grandi ambizioni. Indubbiamente, il suo ruolo di riferimento comunitario diventa essenziale. Sappia, facendo tesoro dell’esperienza, esserne degno e congruo.

Per alcuni aspetti, pur dimostrando di voler essere parte attiva negli avvenimenti, ha appalesato, però, serie difficoltà nel rapportarsi alla cittadinanza. Almeno a livello di percezione della realtà e, soprattutto, di corrispondenza tra annunci e concretezze.

Ma, se si rapporta la consapevolezza della priorità della sicurezza (che invero latita un po’) rispetto alle visioni psichedeliche o da figli dei fiori di quell’ Assessora alla partita, che nel 2008 fu la massima teorica della via più morbida, (quella secondo cui «è meglio spiegare che Cremona è una città vivibile e sicura») fino a pagare l’incongruità con l’avocazione della delega, non è azzardato sperare che il coerente prosieguo sia sulla buona strada.

Indubbiamente, i fatti di fine gennaio spostano la questione su un versante ben più impegnativo, che presuppone l’entrata in campo di ben altri apparati e di ben altre competenze.

Ciò che, a nostro sommesso e rispettoso avviso, appare decisamente inaccettabile è la collocazione del ruolo di regia politica, proprio da sempre dell’istituzione locale, in una dimensione ausiliaria, se non addirittura irrilevante.

L’istituzione locale e la politica locale, entrambe interpreti (o dovrebbero) dei sentiments popolari non possono e non devono interferire o pensare di sostituirsi ai ruoli statali; ma devono costituire il punto di riferimento e di mobilitazione della cittadinanza in contesti, in cui l’attacco alla convivenza democratica ed alla sicurezza travalica il livello di guardia.

Il giovane professore-Sindaco ed i suoi giovani collaboratori, forse all’epoca intenti ad apprendere l’arte scoutistica di accendere il fuocherello sfregando i legnetti, ignorano che la stabilità democratica già fu sotto attacco in scenari pregressi, ben più perniciosi degli attuali.

La saldezza delle istituzioni, posta sotto attacco dai rigurgiti neo-fascisti, come dagli estremismi antiparlamentari, dal fiancheggiamento alle formazioni terroristico/eversive, seppe prevalere sulle contrapposizioni politiche e su ogni altro interesse.

Giunte di diverso assetto e vertici di diversa appartenenza politica si posero, in un unico afflato, alla testa della difesa della democrazia e della salvaguardia della serena convivenza.

I Comitati della difesa antifascista e della democrazia, con grandi leaders-amministratori, per citarne simbolicamente solo alcuni, come Zanoni, Dolci, Manfredi (interfacciati con grandi Questori come Moro e Zagari, e da grandi Prefetti, come Barile, che, pur non cremonesi, seppero trapiantare la loro dedizione nel cuore del territorio) divennero riferimento per le inquietudini popolari, per la mobilitazione di massa, per il sostegno dell’azione degli organi dello Stato impegnati in una difficile missione.

Grandi uomini, grandi leaders, grandi amministratori, grandi civil servants, che, nell’assoluto rispetto della Costituzione, seppero essere interpreti dei sentiments della cittadinanza e, ad un tempo, capaci di collaborare con gli organi periferici dello Stato. In una dimensione di sostegno, ma anche di stimolo.

Si può dire altrettanto del rapporto corso all’acme dei fatti lamentati ed esecrati?

Pur nel rispetto di funzioni così delicate, non possiamo esimerci dal rimando a gesti e dichiarazioni sorprendenti, per il loro distacco dalla realtà della cittadinanza; in un momento in cui la gente avvertiva il superamento dei livelli di guardia.

Pressato dagli organi di informazione, latori dello sconcerto dell’opinione pubblica per quanto era inequivocabilmente alle viste e pretendeva risposte più energiche, il capo di gabinetto della Prefettura, (Corriere della Sera) quasi sussurrava: “Al momento non è prevista alcuna comunicazione da parte del Prefetto. Quanto accaduto sarà valutato a mente fredda. Posso dire che c’è soddisfazione per come è stato gestito l’ordine pubblico, alla luce di quanto si è ipotizzato alla vigilia del corteo. Certo, c’è anche preoccupazione per l’entità dei danni arrecati.”

Il suo diretto superiore, il Prefetto (ovvio referente in sede locale del competente Ministero dell’Interno, che pare avesse impartito rigide direttive di una strategia di alleggerimento)) fu perentorio solo su un fatto secondario per la gestione tecnica (ma primario per la mobilitazione popolare): “Non è questo il momento di parlare del Comitato “ (ndr: della Sicurezza).

Cercati, nuovamente, dal Corriere “Tacciono Prefetto e Questore. Dalla base, poliziotti e carabinieri ripetono con crescente stanchezza gli ordini del Ministero dell’Interno: non reagire. Sabato volavano pietre e bombe carta. Quattro feriti lievi. È andata di lusso”.

La conferenza-stampa dei giorni scorsi, diciamolo francamente, riporta un po’ le cose sulla terra, nella dimensione della realtà.

Il segnale positivo che ne promana, come abbiamo già sottolineato, riconduce, per la sua essenzialità e per la sua aderenza allo spirito di piena appartenenza degli organi dello Stato alla comunità, però, alla consapevolezza (anche a futura memoria) degli aspetti di criticità o, se meglio piace, di incertezza sul terreno della tutela dell’ordine pubblico.

Con il che non ci riferiamo esclusivamente ai fatti di fine gennaio nella nostra città; che pure, sotto tale profilo, hanno offerto uno spaccato, limitato ma realistico, di un clima generale di esitazione.

Si percepisce sempre più frequentemente un auto-assolutorio e, nel migliore dei casi, interpretativo: “Non si può impedire la libera circolazione, potevamo intervenire soltanto se avessero cominciato a manifestare come avevano minacciato. Così invece abbiamo dovuto attendere e spingerli nelle strade laterali per non coinvolgere altri cittadini. Difendiamo le scelte compiute perché sono servite ad evitare che la situazione potesse degenerare”

Le immagini di vandalismo, a Cremona ad opera dei black blok dei centri sociali e più tardi a Roma ad opera dei tifosi olandesi, sono devastanti. Soprattutto, perché trasmettono all’Italia e al mondo l’immagine di un Paese in cui tutto è lecito, in cui ogni istinto può essere sfogato, in cui la certezza della pena cede alla certezza dell’impunità, in cui lo Stato non è in grado di proteggere sufficientemente.

I Questori sbagliano a dire che non si può fare diversamente da quanto si è fatto: sbarramenti in testa e in coda dei “cortei” (che rompono lateralmente), tattica di contenimento (che significa: rompano e devastino pure, si sfoghino), sacralità del principio “tutto, purché non ci scappino morti e feriti”.

Come se lo Stato non dovesse trasmettere sicurezza anche solo a livello di sensazione. Come se lo Stato non dovesse garantire la libertà di circolazione (in sicurezza e tranquillità) di tutti i cittadini (manifestanti e soprattutto non). Come se lo Stato non avesse anche in carico la tutela dei beni privati e pubblici. Questa tattica rinunciataria trasmette più o meno fondatamente un segnale di inadeguatezza a tutelare tutto quanto e, soprattutto, costituisce una sorta di manleva per i malintenzionati, che applicano la “testimonianza” e concentrano il proprio armamentario, quasi sempre preponderante rispetto al dispiegamento delle forze dell’ordine, in scenari urbanisticamente ristretti. Dove la loro concentrazione si rivela sovente. In sovrappiù alle conseguenze di tale disparità, lo Sato e chi lo rappresenta nelle piazze, quasi avessero inguaribilmente contratto “la sindrome della scuola Diaz” operano, da qualche tempo, con il freno a mano tirato.

Un minimalismo di interpretazione di obiettivi e di modalità operative, che si priva delle opportunità di intelligence e di collaborazione tra le varie armi e di un lavoro preparatorio a vasto raggio, che abbia come precondizione l’impossibilità, per l’antagonismo, di concentrazioni, così problematiche da affrontare.

Da anni si parla di ordine e di si sicurezza. Ma, vuoi per imperizia vuoi per (interessata) sottovalutazione, i fattacci (nella fattispecie di quelli di fine gennaio a Cremona) trovano quasi sempre impreparato chi dovrebbe intervenire e prevenire.

Può essere amara e cinica vulgata pensare che le tragedie siano meno terribili se riescono ad insegnare qualcosa.

Su tale terreno si dovrebbe partire da due ineludibili consapevolezze.

La prima riguarda necessariamente la capacità di preventiva, corretta lettura della realtà; rifuggendo dal comodo addomesticamento dei pericoli in funzione esorcistica, quando non dall’irresponsabile occultamento della realtà.

Mentre, come abbiamo visto, sin dall’inizio prevaleva una versione minimalistica di fatti di inaudita gravità.

La seconda consapevolezza, altrettanto ineludibile, è che è scaduto il tempo della compiacenza (per non dire addirittura della psicologica sottomissione) al nichilismo, che, nella circostanza, ha preso le mosse dalla delegittimazione della testimonianza permanente di una versione illuministica dell’antifascismo, ispirata dal ripudio del totalitarismo, dell’autoritarismo, del razzismo, ma anche della violenza. Rendendo così impari il contrasto tra la legalità e l’illegalità.

Se si esce da questo equivoco, allora i profili, le dimensioni, gli obiettivi dell’antagonismo, espressosi a Cremona diventano più nitidi e realistici.

“Emilio resisti”, per le forze e per le modalità messe in campo, è una manifestazione-feticcio o rappresenta un salto di qualità dell’antagonismo su terreni di lotta più decisi.

«… that is the question …» dice Amleto nel celebre soliloquio.

Noi propendiamo senza esitazione per una versione che rende compatibili entrambi gli obiettivi.

Se rivisitiamo accuratamente le acquisizioni degli inquirenti non possiamo che rinvenirvi elementi che, per consistenza e natura, rendono trascurabile la motivazione della “risposta antifascista”.

Intanto perché l’antagonismo ha fatto confluire su Cremona forze, talmente consistenti ed articolate, da indurre a ritenere, come abbiamo anticipato, che la risposta puntasse a travalicare gli ambiti territoriali.

“Il committente” locale, per le dinamiche della “manifestazione”, difficilmente potrà sottrarsi alla responsabilità di avere incanalato lo slogan lungo un preordinato obiettivo prevalentemente “militare“.

Ma c’è qualcosa di più che emerge dal lavoro inquirente; che, da un lato, smentisce l’occasionalità della piega presa dagli eventi e, dall’altro, qualifica la vera natura dei Centri Sociali Autogestiti.

Sorti, secondo una vulgata ad usum delphini, come chance di socializzazione a base ludico-musicale; in realtà impegnati per il perseguimento di ben altri traguardi educativi.

Non è dato sapere se la condizione dei due giovani “ristretti” emersa durante le investigazioni costituisca fatto eccezionale ovvero se rappresenti la cifra comune di molti frequentatori del CSA.

Indubbiamente, il profilo tracciato da chi ha indagato non lascia spazio ad un’immaginazione sociologica.

Sono senza lavoro e non attivi nello studio. Cionondimeno, hanno un cursus honorum non irrilevante: partecipazione a manifestazioni illegali, rave party, invasioni di terreni ed edifici, deturpamento, imbrattamento, droga, ricettazione e furto. Così su di loro si sono espressi i relatori della conferenza-stampa.

Se, come hanno affermato i difensori, i due casseurs, oltre che essere gracili, non si sono mai occupati di politica (ammesso che la sistematica distruzione costituisca categoria ascrivibile alla politica), che frequentavano saltuariamente il CSA, che si occupavano solo di musica e che si sono trovati intruppati loro malgrado nella manifestazione, allora non è arbitrario dedurre che nel CSA le attività ludico-ricreative costituiscono uno specchietto per allodole. Attraverso cui si attirano giovani sprovveduti, che poi vengono attrezzati per attività di ben diversa natura.

Di due una: o i due giovani sprovveduti hanno mentito per un discarico od un’attenuazione di responsabilità oppure hanno spifferato la vera natura dei CSA.

Sotto tale profilo, al di là dei distinguo politici quasi da lana caprina, Kavarna e Dordoni sembrano affratellati da una sorta di patto di sindacato.

Fatto che, al di là della circostanza rappresentata dalla “manifestazione” del 24 gennaio (che li ha visti col classico “sorcio in bocca”) non dovrebbe sorprendere, se si pensa alla comunanza di modalità ed obiettivi di testimonianza. Talmente noti da esimerci da qualsiasi richiamo.

I difensori fanno il loro mestiere anche quando, per l’azzardo delle argomentazioni messe in campo, si avvicinano alla stravaganza.

Hanno suggerito ad uno dei due di scusarsi e ad entrambi di sostenere l’inconsapevolezza; mentre i vertici dei CSA la mettono giù dura (“L’antifascismo non si processa. Tutti liberi subito: la lotta non si ferma dentro quattro mura”). Evidentemente ignorando od escludendo l’eventualità che dal lavoro certosino degli inquirenti possano scaturire altri provvedimenti restrittivi.

Adolescenti, quasi ancora bambini, ma già sedotti dalla violenza inclinante a qualcosa di più.

Per loro vengono richiesti i “domiciliari” sulla base della loro fragilità e del percorso personale molto sofferto. In ottime mani, verrebbe da dire, pensando al capolavoro di educazione, completato montessorianamente dall’esperienza di disc jockey presso il CSA.

Per quanto per noi impossibile qualsiasi iato dai valori e dai principi del garantismo e dalla funzione redentrice dell’eventuale sanzione, non possiamo non segnalare che, scartata l’incidentalità della piega degli eventi protestata dagli organizzatori e dai difensori e presa in maggiore considerazione l’ipotesi della predeterminazione. Fatto questo che, se si ipotizzano ulteriori provvedimenti cautelari, non sarebbe irrealistica la fattispecie associativa.

Di fronte alla quale la mission della Civica Amministrazione di rendere concreta la volontà legale di escomio di una imbarazzante locazione (che, per la cronaca, si aggiunge alla lunga filiera di disastri della Giunta Bodini), assumere anche la connotazione etico-politica di bonifica di un sito fisico pernicioso sotto ogni punto di vista.

Per quanto il Comune non ne abbia titoli contrattuali diretti o indiretti, la stessa considerazione calza anche per la situazione di Casapound. A meno che si voglia continuare a fornire un assist recriminatorio agli antagonisti.

L’antifascismo non dogmatico, di cui ci facciamo testimoni, crede profondamente nello Stato Repubblicano e nei suoi organi preposti alla tutela della legalità (anche quando le loro performances si rivelano incerte). Ma crede, come abbiamo insistito, soprattutto nelle risorse di autodifesa della democrazia. Siamo alla vigilia della data più simbolica delle celebrazioni del 70° della Liberazione. Che a Cremona, proprio per la gravità dei fatti rivisitati e della permanenza del presupposto che possano ripetersi, deve trovare nella cittadinanza tutta, nelle sue espressioni politiche, sociali e culturali, nei suoi vertici istituzionali una risposta adeguata al significato della ricorrenza.

In allegato le forze politiche ed i fatti del 24 gennaio di Cremona

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