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I ' m sorry

(rivolto agli immemori ed agli alienati)

  29/03/2020

Di Enrico Vidali

I+%27+m+sorry

Una premessa di ordine generale: l'aggregato di informatica, telematica web, social (e quant'altro di più sofistico che non riesco neanche a definire) è un po' come un coltello: lo puoi usare per affettare il salame ma anche per offendere.

Costituisce una formidabile opportunità per lavorare meglio e di più, per imparare più facilmente e diffusamente, per comunicare a vastissimo raggio ed in tempi reali.

Ogni tanto guardo melanconicamente le tre enciclopedie regalatemi da mia madre (a pagamento rateale e con grande sacrificio), che hanno costituito un importante sussidio didattico (una marcia in più per preparare le tesine) e che (senza costo, con orizzonti cognitivi sconfinati ed alla velocità più veloce della luce di Mazinga, ed arrivo alla conclusione di essere, per alcuni versi, arrivato troppo prima. Per non dire dei vantaggi, avvertibili specie di questi tempi da clausura e da messa in sospensione delle relazionalità comunitarie, di far continuare la vita (soprattutto, di quella che alimenta il sapere).

But… handly with care…(come ogni cosa). Perché (come il coltello che affetta il salame e che può sbudellare qualcuno) anche questo formidabile aggregato di opportunità é a doppio taglio e può causare effetti collaterali di significativa consistenza.

Non intendo fare in nessun caso un'intemerata didascalica ai consumers inappropriati di social (le cui performances pervasive hanno ormai disassato gli equilibri di uso del tempo se non proprio la gerarchia di interessi di molti e di chi scrive).

Per buona educazione ed indole relazionale, nonché per le discendenti opportunità (requisiti fondamentali per un comunicatore) si è obbligati a non vivere sulla proverbiale torre d'avorio.

Soprattutto, quando vieni inserito (benevolmente ma senza preventivo assenso) nei “gruppi”. Da quali è difficile-impossibile uscire, se non altro per non essere (con una certa ragione) definito portatore di spocchia.

La non breve premessa incorpora anche un fervorino-riflessione sulla tossicità, a lungo andare (ma se ne avvertono già le conseguenze), di un uso compulsivo del “pacchetto” imperante nel ciclo digitale.

Sono stimolato dalla riflessione del professor Marco Guzzi, che in una recente conferenza a Montecitorio segnalava alla percezione dell'indotto alienante delle pervasive cattive posture correnti in materia di modalità comunicative e di formazione di consapevolezze deformate e di manipolazione delle coscienze e dei discendenti comportamenti

Ci si è (giustamente!) lamentati della pervasività asfissiante degli ”inserti” dei non sempre subliminali “consigli per gli acquisti”, dispensati dalle emittenti private e pubbliche e dall'informazione stampata (alla quale paghiamo il prezzo del giornale aggravato dal prezzo implicito delle paginate pubblicitarie per cui trae profitto). Ci si lamentava (per il vero, una élite) quando non si prevedevano le conseguenze della rottura delle cateratte della comunicazione del ciclo web. Che ha elevato esponenzialmente l'alienazione e ha inventato pervasività accettate acriticamente ed impalcato nuove satrapie come gli influencer (e risparmio, per carità di patria, la diretta identificazione di un esempio cittadino).

Tutti, in questi tragici momenti, si appellano all'inderogabilità del “dopo”, soprattutto, nella deformata certezza che tutto, come il proverbiale gioco dell'oca, tornerà come prima.

Sbagliato! Assolutamente sbagliato! Soprattutto, nell'approccio culturale che pretende l'avvio di una rivoluzione. Per la quale, essendo di profilo civico-culturale, sarà necessario mettere in campo non già i forconi, bensì una forte predisposizione alle consapevolezze a cambiare registro.

A principiare dal ripudio totale degli “untori” dell'alienazione, che determina l'inquinamento delle menti e che deforma le consapevolezze.

Per proseguire con l'erezione di possenti barriere protettive attorno alla preservazione della capacità critico-percettiva. A cominciare dalla gestione del linguaggio e dall'impermeabilizzazione della psiche alle invadenze dei media e, soprattutto, dai pericoli insiti nell'uso deformato dei social.

L'abbrivio sarà anche lungo. Ma non potevamo esimercene. Perché stamani siamo stati involontariamente amplificatori di un caso classico di deformazione delle buoni intenzioni e del messaggio veicolato.

Abbiamo copia-incollato un video, inviato in ora ancora notturna da un caro amico, non più operante a Cremona ma in stretto rapporto con essa e con la cerchia amicale contratta negli anni di domicilio e di operatività.

Il video riporta integralmente il breve, ma educativo indirizzo di saluto, del premier albanese Edi Rama, rivolto all'Italia ed ai medici ed infermieri di Tirana che opereranno a Bergamo. “Non abbandoniamo gli amici in difficoltà. Noi non siamo ricchi ma neanche privi di memoria, non abbandoniamo mai gli amici in difficoltà. Questa è una guerra che non si vince da soli. L'Italia vincerà questa guerra anche per noi, per l'Europa e il mondo intero"

La circostanza che il giovane premier sia a noi accomunato (al netto delle distanze e delle specificità dei contesti) dagli stessi ideali socialisti può orientare verso uno scolastico nesso di coerenza.

Ma non è certamente questo il profilo prevalente di un'esternazione che ci ha commosso e che ci fa vedere con minore cupezza sia le probabilità di resilienza da questa catastrofe sia la permanenza di un substrato di umanità.

Che è o dovrebbe essere il maggior ingrediente della ricetta per parare il colpo subito e per prendere le misure di ciò che ci attende in prospettiva ed apprestare i correttivi.

Purtroppo, le tecniche diffusive sono, nella loro essenzialità/stringatezza, tiranniche. Il whatsapp, pensato per quattro o cinque intimi è finito ad un paio di destinatario in più (collettivi), sortendo un effetto di cui mi dolgo e mi scuso. Erga omnes e verso gli interlocutori non intenzionalmente vocati.

Soprattutto, mi dolgo di aver alimentato un “confronto” splafonato dall'iniziale apprezzamento del gesto degli amici albanesi su spazi più ampi. Che, sia chiaro, appartengono al libero arbitrio ed, in qualche misura, testimoniano della permanenza di una certa vivacità dialettica e culturale.

Fatta l'involontaria frittata chiedo di partecipare al forum.

Mettendo sotto il riflettori dell'approfondimento due questioni.

La prima riguarda un'opportuna e forse utile revision delle vicende dei flussi migratori di inizio anni Novanta dalla dirimpettante sponda delle aquile.

Quei flussi, prima e diretta conseguenza della caduta rovinosa del regime comunista più ottuso e più repressivo (andrebbe ricordato che a Cremona per più di vent'anni ci fu un gruppo gemellato al comunismo di Enver Oxha), avrebbero agito come snodo, liberatorio di popoli oppressi ed in cerca di libertà e di promozione socio-economica, nella “libera”circolazione.

Fenomeno conosciuto per la costante pressione sugli States da parte del Sud del mondo; ma quasi trascurabile per l'Italia.

Anche se, ovviamente, era percepibile la tendenza di settori della popolazione albanese a trasmigrare verso un Paese ritenuto, anche grazie all'indotto dell'emittenza televisiva, fratello ed accogliente (dedotto dai messaggi impliciti delle dilaganti trasmissioni quizzarole, che rendevano tutti ricchi).

Avamposti albanesi, in particolar modo studenti, religiosi e intellettuali, erano già residenti in Italia dal dopoguerra.

La caduta del regime comunista fece da innesco sia agli ammassamenti sui porti d'oltre Mediterraneo sia a partenze di massa.

La punzonatura del fenomeno migratorio di proporzioni bibliche si ebbe il 7 marzo 1991, con l'arrivo a Brindisi di 27.000 migranti, affamati, laceri, soprattutto certi di conquistare, come avrebbe ben messo in pellicola Gianni Amelio a Lamerica. Il secondo grande arrivo di massa avvenne l'8 agosto dello stesso anno, con l'attracco nel porto di Bari di un mercantile partito da Durazzo, il Vlora, con ventimila migranti a bordo.

Questa avanguardia di un popolo dolente, reso esausto da mezzo secolo di “cura” nazional-comunista, ma decisamente fiero e soprattutto determinato a riscattarsi, costituiva un fatto decisamente nuovo nello scacchiere europeo. Una CEE non ancora ridenominata UE ma già avulsa da qualsiasi consapevolezza di solidarietà e di gestione in un'ottica più vasta, quasi non s'accorse.

I primi vu cumprà clandestini li vedevi nelle periferie degli aggregati metropolitani e sensibilmente sulle spiagge intenti a vendere cianfrusaglie.

I proto-sovranisti erano agli esordi ed erano decisamente calamitati dall'idiosincrasia per i migranti interni (terroni). Un'idiosincrasia poi slittata sull'emigrazione esterna; che avrebbe fatto, anche grazie l'inconsideratezza del bacino degli “accogliamoli tutti, anzi andiamo a prenderli così non naufragano”, la fortuna elettorale di una testimonianza politica (che diversamente, in quegli anni, avrebbe dovuto applicarsi a dettagliare la sostenibilità del “federalismo”, dell'autonomia e, volendo e potendo, del secessionismo.

Lo snodo con effetti da far tremare i polsi trovava impreparata l'Europa, il cui establishment influenzato dalla sala di regia dei poteri finanziari si dimostrò, più che altro, proteso a far girare la macchina del mercato senza limiti.

Intanto, sciaguratamente allargando il parterre comunitario a 28 partners, includendovi, in aggiunta al nucleo fondativo, cani e porci, interessati non già a consolidare il Patto di Ventotene e dei grandi europeisti Schuman, Adenauer e De Gasperi ma a scroccare il trikle down di elargizioni diffuse.

E lasciando sostanzialmente l'Italia sola a gestire un fenomeno dalle complicazioni esponenziale.

Per nostra fortuna, in quei primi anni 90, sopravviveva (ancora per poco) una sala regia (istituzionale) capace di leggere i fenomeni epocali e ad applicarvisi con una certa immediatezza e competenza.

Per fortuna nostra e per fortuna dei fratelli albanesi; che avrebbero trovato un'accoglienza mirata ed un'integrazione (a casa nostra e, con maggior successo, a casa loro).

Invito (non certo per impulso di auto sponsorizzazione personale) a leggere i due “paginoni” allegati che Cronaca mi commissionò (con la collaborazione di Agostino Melega) per un approfondimento postumo, vent'anni dopo.

Non riguardano solo l'impatto sul nostro territorio di quella trasmigrazione (che per Cremona fu cospicua); ma compendiavano uno sforzo analitico assistito dall'impulso ad alzare lo sguardo.

Per fare quel servizio incrociai le mie conoscenze con il riscontro di alcuni protagonisti di quello snodo. Tra cui il rimpianto Gianni De Michelis, all'epoca ministro degli Esteri del gabinetto Andreotti; con il quale mise a punto non solo il tamponamento di una situazione potenzialmente esplosiva ma, cosa più importante, un progetto strategico di convergenza e di cooperazione di grande spessore strategico.

Già, ma dopo sarebbe venuta (a parte la virtuosa parentesi di Napolitano) una stagione di civile servant di quarta serie. Le cui imprese ci hanno portato qui.

Ad approdi, resi drammatici da una contingenza a loro in addebitabile, ma suscettibili di moltiplicarne gli effetti devastanti.

L'Italia è, come ben si sa, un popolo di eroi, navigatori ecc…ecc.; ma, soprattutto, di immemori e di alienati, spudorati.

Due categorie antropiche che confidano nell'assistenza dell'effetto del “chiodo schiaccia chiodo”.

Con il che delibiamo il linkage tra le conseguenze tratte del gesto del premier Edi Rama a nome del popolo albanese e le riflessioni che dovremmo fare sulle percezioni tratte (per essere chiari, tutt'altro che arbitrariamente) da molti partecipanti all'approfondimento innescato dal video.

I profughi albanesi trent'anni fa non li andammo a prendere. Come per i casi successivi avrebbero spudoratamente preteso alcune ong, fiancheggiate da un certo collateralismo politico catto-comunista sulla spinta della sicumera didascalica radicata nella certezza che ci “avrebbero pagate le pensioni di un popolo eccessivamente senescente e avrebbero accettato i lavori rifiutati”.

Rifiutati da ampie fasce sociali approdate alle inoppugnabili certezze di un paese ricco. Che come tale: 1) non deve respingere i fuggitivi dalle guerre, dalle dittature, dalla fame (categorie autodissoltesi di fronte alla ben più grave prospettiva di contrarre in Europa il coronavirus); 2) deve metabolizzare fino in fondo le conseguenze di una sedimentazione culturale che ha portato alla quasi totale dipendenza del Sud dal Pil prevalentemente prodotto in altre aree vocate e ad accreditare l'idea che per le nuove generazioni, sussidiate dal reddito di cittadinanza, sia legittimo rifiutare lavori (agricoltura, collaborazione domestica ed assistenziale a domicilio, turni notturni festivi e domenicali in fabbrica e nella distribuzione); 3) sia assolutamente consono pretendere (dopo che per un quarto di secolo, a colpi di dilapidazione degli incassi derivanti dallo smantellamento delle Partecipazioni Statali cedute a condizioni di sconto ai sodali e ad una spesa dilapidatrice al di sopra delle possibilità insite nella decelerazione produttiva ed una allarmante perdita di competitività, si è disassato il sistema economico-finanziario nazionale) che a metter mano all'emergenza siano gli altri coi conti a posto.

Hanno, in passato, attinto alle mammelle europee come noi? Vero, ma, secondo gli standards fissati anche col concorso di inqualificabili nostri rappresentanti a Bruxelles, hanno i conti in ordine. E, come direbbe un economista nato sulla sponda destra dell'Adda, it's economy, stupid!

Ci si deve acconciare a posture sconvenienti (per conformistica acquiescenza)? Assolutamente no! Anzi, se servisse, merde ai crucchi ed alle virago incomprensibilmente (per quota rosa?) collocate (ad evidente servizio degli occulti danti causa) in nodi nevralgici dei poteri continentali.

In questi drammatici momenti è avvertibile, anzi è palpabile la pretesa del ponte di comando di poter contare su un'informazione, se non proprio mendace e prona, in qualche modo embedded.

Siamo i primi ad avere la consapevolezza (diversamente da coloro che per un quarto di secolo hanno approfondito le divisioni per inqualificabili mire di ritorni elettorali) che, nella situazione data, va accentuato il senso di convergenza e condivisione attorno allo sforzo improbo degli incaricati di ruoli decisioni ed operativi.

Ma, questo, come fanno percepire le esternazioni plaudenti del premier Giuseppi all'informazione territoriale ed il conferimento di informazione di rango “scientifico” (sc..sc..scientifico, avrebbe azzardato il Peppe detto "Er Pantera" dell'audace colpo dei soliti ignoti ad una testata locale (alla quale va anche il nostro sostegno per il considerevole impegno informativo) non può in alcun modo essere esimente del pieno dovere di rispetto delle prerogative di una stampa indipendente e portatrice di una deontologia di totale aderenza alla verità.

La nostra testata, autogestita ed autofinanziata, intende essere, pur nella consapevolezza dei propri limiti di audience, assolutamente garante di ciò.

E, come di tanto in tanto ci chiede qualche followers, non ci sottraiamo a qualche dolorosa riflessione sulle prospettive.

A cominciare dalla stime sulla fine del flagello che non sembra affatto prossima. Né qui in Italia né in Europa. Resterà latente a lungo nel mondo. Per questo fatto non consentirà nessuna ripartenza in simultanea. Che sarebbe volano sinergico fondamentale per la crescita delle potenzialità dei consumi, per i quali è però condizione utile e necessaria un forte aumento del PIL. Con cui metabolizzare l'ingente aumento della spesa e del debito. La ricetta keynesiana è vanificata dall'insostenibiltà del debito (quando fu elaborata ed attuata non c'era un così diffuso debito statale). Camminiamo sul filo del rasoio. L'iniezione di spesa agirà come una droga a tempi brevi. Come già si vede qui in Italia, l'aspettativa è da bandwagoning: restare sulla giostra e fare cresta sulle elargizioni. A spese dello Stato nazionale e dell'UE. Chi è messo meno male resisterà alla morte. Per renderci credibili dovremmo almeno introdurre una patrimoniale localizzata sulle successioni parassitarie. Il vero problema è che non c'è né esatta contezza del baratro né percezione della dell'inaggirabile ristrutturazione dei perni del sistema economico. Riequilibrando il peso tra finanza, economia manifatturiera funzionale al turboconsumismo, da una parte, e potenziamento della health e green economy. Ovviamente con ancoraggi di sostenibilità. Per come è messo questo mondo debosciato, poco meno che un'illusione. Di più si ritiene che, ahinoi, la politica sia impreparata come azionatrice di una sistemazione teorica del profondo cambiamento e, soprattutto, come classe dirigente candidata a gestirlo. Al di là di tutto, bisognerebbe accorciare la filiera del comando e della rappresentanza del potere legislativo. Ma su questo versante torneremo con una trattazione più specifica. Anticipando, però sin d'ora, che la discontinuità è d'obbligo e che il cambio di registro non deve concepito in termini di continuità di ruoli della classe dirigente, che porta responsabilità e che appare visibilmente in deficit di ossigeno progettuale.

La rimodulazione di idee strategiche e di perni gestionali non può non partire dall'etica e dalla professionalità di quelli che, con un certo conformismo, vengono definiti “eroi”.

Vale a dire il vasto fronte di professionalità e di volontariati, senza del quale la tragedia in corso si sarebbe avvitata.

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