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Giornata della memoria/2

365 Giornate della Memoria ogni anno!

  28/01/2022

Di Redazione

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365 Giornate della Memoria ogni anno!

 

Proprio in coerenza per la nostra incoercibile idiosincrasia per l'abitudine a praticare “il passato lo giorno gabbato lo santo” proseguiamo la testimonianza ispirata dal focus Giornata della Memoria. Ribadiamo la nostra totale ed incondizionata disponibilità a dare spazio ed evidenza a tutti i contributi che abbiano come riferimento l'approfondimento e la divulgazione della memoria storica. Nelle precedenti uscite del focus abbiamo azzardato che per rendere un anno civicamente fecondo ed educante le Giornate della Memoria dovrebbero essere 365. 

Un auspicio questo che trova concreti riferimenti nell'azione concreta della Rete scolastica, di un sempre crescente numero di docenti operanti nella scuola media superiore, e, più recentemente, della Presidenza del Consiglio Comunale. Il cui titolare, avv. Paolo Carletti, ha formalmente proposto a tutti gli insegnati delle scuole secondarie di secondo grado di “portare le loro classi nella Sala dei Quadri di Palazzo Comunale, dove attraverso la lettura ragionata degli atti del Consiglio Comunale, avverrà una sorta di rievocazione dei primi due decenni del 900 (in cui, ad opera dello squadrismo, si sarebbe drammaticamente e violentemente posto fine all'impulso idealistico popolare di allargare l'agibilità delle istituzioni democratiche). L'iniziativa avrà cadenza settimanale (ogni venerdì mattina) e proseguirà sino alla conclusione del corrente anno scolastico.

Si ricorderà agevolmente che in certo qual modo le premesse di questo importante progetto furono delineate nel corso della Conferenza dell'11 dicembre scorso dedicata alla rievocazione della figura di Attilio Boldori che in quella sala, prima di essere massacrato dallo squadrismo farinacciano, aveva espresso buona parte della sua dedizione alla vita istituzionale. 

Alla presenza di una folta partecipazione di studenti liceali del Classico Daniele Manin, accompagnati e stimolati dalla vicepreside prof. Francesca Di Vita.  

Con questo numero de L'Eco del Popolo proseguiamo e concludiamo il reportage da Auschwitz iniziato nella precedente uscita. 

IL (nostro lontano) VIAGGIO DELLA MEMORIA 

Seconda e conclusiva parte del reportage da Auschwitz – aprile 1980

In quella temperie, la volontà di testimoniare “la memoria” aveva in buona parte lasciato alle spalle l'attrito frenante esercitato da un iniziale approccio, dalla parte sconfitta, se non del tutto ostativo sicuramente poco collaborante, come abbiamo osservato più su, nel dispiegamento della volontà, innanzitutto, di sapere, di preservare la memoria di quell'infamia, di salvaguardane le fonti fisiche e documentali. 

Non si era ancora se in presenza di un afflato di valenza mondiale; ma indubbiamente erano molto cresciuti l'impegno a preservare quelle sinistre locations e le opportunità per farne oggetto di sistemazione organica a scopo didattico. 

Gli indirizzi di armonizzazione scaturiti dalla nuova Europa, che voleva lasciarsi alle spalle le rovine e le atrocità del conflitto, avrebbe dovuto avere anche un significativo portato sulla capacità di convergenza verso comuni acquisizioni di valore etico, morale e culturale. Una precondizione necessaria all'accessibilità al circuito dei pellegrinaggi della memoria. 

Come sarà facile notare, per quanto questa cartina dell'orrore avesse interessato diffusamente tanto il territorio del Terzo Reich nel senso stretto della Germania quanto le annessioni pre-belliche e belliche, la regia della “soluzione finale” programmò una collocazione intensiva dei cosiddetti campi di lavoro in una logica geografica compatibile con una metabolizzazione non traumatica da parte di un'opinione pubblica già assuefatta alla disumanità del nazismo ed una location più appartata ai confini del Reich in progress. 

Sarebbe risultato più agevole, come suggerisce l'itinerario di Andrini, il contatto con i “campi” collocati nell'Europa centrale; mentre possibile era, ma entro il limite dei rapporti internazionali di quell'epoca in cui l'Europa era divisa dalla “cortina”, quello rivolto ad Est. 

E ad Est c'era il campo di Auschwitz divenuto, per le reali dimensioni oltre che nell'immaginario collettivo, il capofila simbolico della mappa dell'orrore. 

Concorse a tale percezione destinata ad una condivisione universale anche l'indotto didattico scaturito dalla divulgazione delle circostanze in cui, il 27 gennaio 1945, avvenne, ad opera della LX Armata del generale Kurockin, la liberazione del campo. Il valore, universalmente riconosciuto di tale liberazione, costituì un efficace corollario dell'epica della resistenza di Stalingrado. Che, il secondo dei tre grandi, avrebbe, già a partire dalla conferenza di Teheran, non disinteressatamente divulgato, anche grazie al supporto di storici e memorialisti di scuola sovietica, come punto di svolta decisivo non solo della guerra sul fronte orientale ma di tutto il secondo conflitto mondiale. 

Del carattere non astrattamente didascalico della narrazione sovietica si potrebbe avere una chiave di lettura deformata, se si riuscisse a separare tale temporanea testimonianza di puro afflato ebraico dai successivi cicli repressivi dedicati alle ancora significative comunità israelitiche presenti nei territori dell'URSS e di tutto quanto era stato ricompreso in quella che Churchill, il 5 marzo del 1946, definì “cortina di ferro scesa sull'Europa”. 

Sia come sia l'universo sovietico si applicò, praticamente a partire già dalle ultime battute del lungo e sanguinoso conflitto, alla testimonianza sia della demonizzazione del male supremo sconfitto sia del proprio determinante ruolo (suscettibile di accreditarlo, sulla base tanto di effettivi ruoli quanto di amnesie sulle circostanze di una pregressa opacità nei rapporti tra Reich ed URSS). 

Nel 1947 il parlamento polacco deliberò la creazione di un memoriale-museo che comprese l'area di Auschwitz I e Auschwitz II. Nel 1979 il sito venne dichiarato patrimonio dell'umanità dell'UNESCO. La denominazione iniziale Auschwitz Concentration Camp verrà ufficialmente cambiata in Auschwitz Birkenau - German Nazi Concentration and Extermination Camp (1940-1945) nel 2007, su richiesta della Polonia.  

Conseguentemente l'establishment polacco, in quell'epoca egemonizzato da una nomenklatura di osservanza filosovietica, ben presto si acconciò idealmente, nonostante un retroterra non totalmente immacolato in materia di preservazione dalle contaminazioni dal nazionalismo e dall'antisionismo, e si attrezzò concretamente a diventare l'epicentro per eccellenza della testimonianza dell'orrore della Shoa. 

Una testimonianza, che si sarebbe avvalsa di un encomiabile sforzo sul terreno di preservazione fisica e di organizzazione di un percorso di ostensione orientato in parte secondo standards pedissequi e, per alcuni versi, da slanci filologici. 

Se si avrà la bontà, per chi non ha mai avuto l'opportunità di una visita, di analizzare approfonditamente della brochure da noi acquisita oltre quarant'anni fa (il cui testo qui alleghiamo in versione digitalizzata), si avrà la percezione della complessità di quello che ad Auschwitz/Oswiecim è diventato un enorme mausoleo. Capace di fornire un quadro complessivo delle finalità per cui il campo fu creato e delle articolazioni funzionali. All'interno di tale impostazione, l'intelaiatura espositiva, rappresentativa di quella che fu la filiera dello sterminio di ebrei, di oppositori, di diversi (basata su 191 ettari di superficie complessiva), è stata arricchita dall'apporto rappresentativo delle specificità nazionali, da cui tale catena maggiormente attinse. 

Un anno dopo il riconoscimento, da parte dell'UNESCO, di rango di patrimonio dell'umanità, il complesso museale si sarebbe arricchito del Memoriale italiano di Auschwitz destinato a celebrare tutti gli italiani caduti nei campi di concentramento nazisti; nonché monumento di valore artistico eccezionale. Fortemente voluto dall'ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati), la sua realizzazione avrebbe compendiato una pluralità di apporti sul piano culturale ed artistico capaci di far confluire testimonianze di grande valore del 900, tra cui quelle di alcuni ex internati. Il progetto architettonico, del 1979 (il monumento sarebbe stato inaugurato nel 1980) è dello studio BBPR, in particolare di Lodovico Belgiojoso, internato a Mauthausen, con cui collaborarono Peressutti e Alberico Belgiojoso, e inserisce nel primo piano del Blocco 21 di Auschwitz I una spirale ad elica all'interno della quale il visitatore cammina come in un tunnel, rivestito all'interno con una tela composta da 23 strisce lunghe circa 60 metri dipinte da Pupino Samonà, seguendo la traccia di un testo scritto da Primo Levi. Dalla passerella lignea che conduceva il visitatore nel tunnel sale la musica di Luigi Nono, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Nelo Risi contribuì alla realizzazione con la sua competenza di regista. Ovviamente, si comprenderà, che abbiamo parlato del progetto e della sua versione esecutiva, inaugurata nel 1980. 

Come è facilmente immaginabile, Il Padiglione Italia, giunto ad Auschwitz non tra i primi contributi alloctoni, si sarebbe ben presto distinto per l'originalità del suo messaggio e per l'autorevolezza del suo retroterra artistico e culturale. 

Il problema, considerato che in quei primi anni ottanta la Polonia era saldamente integrata nel Patto di Varsavia e nelle discendenti organizzazioni controllate da Mosca, il problema era arrivare ad Auschwitz. 

Cosa non del tutto impossibile, anche se molto meno facile di quanto fosse arrivare a Dachau, Mauthausen, Buchenwald. Occorrevano il passaporto ed il visto, in cui fosse specificata la causale di un viaggio che non fosse di solo diporto. 

Dal punto di vista politico non erano assolutamente chiare le premesse o minimali avvisaglie, per quanto l'odio antisovietico fosse avvertibile anche nei gesti della normale quotidianità, di quel collassamento verticale del sistema che sarebbe avvenuto meno di dieci anni dopo. 

E per quanto non passassero inosservate le potenziali controindicazioni ad una lunga protrazione del vassallaggio imposto da Mosca. 

Per stemperare tale incoercibile idiosincrasia, ispirata più da motivi religiosi e nazionalistici che da anticomunismo, si era, talvolta, allungato il brodo della sottomissione mettendo in campo, ad esempio, con Wladyslaw Gomulka, una sedicente versione “liberale” della nomenklatura di osservanza comunista. 

A determinare l'assenza di un rassicurante requisito di stabilità avrebbe concorso una molteplicità di fermenti. In primis, il papato di Karol Wojtyla, che, a dispetto dell'arretratezza dottrinaria, avrebbe innescato la miccia a breve combustione per il collassamento del blocco sovietico. In secundis, quel combinato disposto tra quella autorevolissima cathedra, basata a Roma ma avvertibile anche nei pori della pelle a Cracovia ed in tutta la nazione polacca, ed i suoi terminali elettrizzati (e non solo perché il loro referente era effettivamente un operaio elettricista), indirizzati a bruciare le tappe di un profondo cambiamento in senso anti-sovietico. 

Di veramente comunista, nella Polonia del 1980, avvertirvi la trasandatezza, la diffusa povertà, l'allentata coesione nell'etica della responsabilità, la presenza invasiva dell'esercito e della polizia. 

Che, a seguito della fondazione non autorizzata del sindacato indipendente Solidarnos (Solidarietà) avrebbe messo in campo un proprio autorevole esponente, il generale Wojciech Jaruzelski, il quale nel dicembre 1981 avrebbe instaurato la legge marziale. 

Insomma, tali erano le premesse e lo scenario di quella nostra partecipazione dell'inaugurazione del Padiglione Italia, avvenuta nella metà del mese di aprile 1980 e presieduta dal Ministro degli Esteri in carica, on. Giulio Andreotti.  

La delegazione italiana fu significativa anche se, dato quanto illustrato, non numerosissima. Era stata costituita a base di moral suasion dall'ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati), che si era rivolta principalmente all'ANPI, ai Sindacati ed alle istituzioni locali governate da giunte di sinistra. 

Vi aderì la Provincia di Cremona, all'epoca governata dalla giunta PCI-PSI presieduta da Franco Dolci, che allo scopo delegò l'assessore provinciale Massimo Parlato, il consigliere dc Giorgio Boccelli, il vicepresidente dott. Bellisario. Che, a seguito di un imprevisto, rinunciò, venendo (ma solo per non perdere la quota già versata) sostituito da chi scrive. 

Il cui entusiasmo per l'inaspettata opportunità era reso incontenibile dalla circostanza di un istruttivo approccio all'oltre-cortina di ferro e di un inimmaginabile contatto con le risultanze di una tragedia planetaria, fin lì oggetto di impegnati approfondimenti storici e politici, ancorché sempre presente, come linea- guida attrattiva, nelle suggestioni infantili. 

Ai tempi della nostra fanciullezza, era strenuamente praticata una disciplina religiosa che non si faceva riguardo a definire in tutto l'anno liturgico e con marcata preferenza nel ciclo pasquale quelli che più tardi sarebbero stati definiti, in temperie di dialogo interreligioso, “i nostri fratelli maggiori”, “i perfidi ebrei”. 

Una definizione che non solo non si faceva riguardo di rilasciare poco cristianamente un'ingiuria, ma che testimoniava l'adesione ad un perno fondante del credo cattolico. 

Circostanza che metteva in ambasce una infantile coscienza in crescita, confusa di fronte all'obbedienza del precetto religioso, da un lato, e, dall'altro, all'attendibilità dei convincimenti trasmessi nell'ambiente famigliare. 

In tale frequentazione ricadeva, con cadenza domenicale, il contatto con lo zio Piero (fratello del nonno), residente stabile nella città ambrosiana, ma desideroso di non recidere le radici. 

A parti invertite (vale a dire quando, per ragioni di lavoro, ne era impossibilitato) lo zio Piero era raggiunto in via Eupili 8, nell'alloggio di servizio annesso alla scuola ebraica. Nel cui ambito, al lordo delle generiche impressioni di un bambino in età scolare, il parente, originario di Pizzighettone ma approdato al capoluogo meneghino, doveva essere (si ripete, all'ingrosso) una specie di tuttofare. 

Non risultò mai chiara (se non nei sottintesi) la ragione per la quale un tranviere dell'ATM avesse lasciato un posto sicuro per approdare negli organici ausiliari di una comunità minoritaria, dal 1938 destinata a discriminazione e poi ad un destino di sterminio. 

Non potremo più chiedere conto di tale scelta. Vero è che dai racconti dell'interessato quanto dal contatto diretto da occasionale visitor il sottoscritto si era fatto un'idea ben diversa dalla vulgata della “perfidia”. Sarà stato un mondo nuovo; ma, insomma, si era potuto testare sul campo, pur dal contatto sporadico, la veridicità della narrazione dello zio relativamente allo spessore culturale e sociale della comunità ebraica e, soprattutto, alle caratteristiche di una scuola avanzata, nata come risposta all'ostracismo antiebraico. Come ha ricordato qualche giorno fa sul Corriere il prof. Sergio Harari, a fine 1938 la comunità israelitica aveva dovuto attrezzare, pena la perdita totale del diritto all'istruzione per le sue giovani generazioni, una completa struttura scolastica, dall'asilo all'università. 

Sono quelle cose che, quando ti entrano (se ti entrano) nell'immaginario dell'età evolutiva, difficilmente escono nel prosieguo dal radar dei convincimenti. 

Dai quali fui influenzato nell'approccio al contatto diretto con quello che era stato il teatro della tragedia ebraica del 900. 

Il cui epicentro, rappresentato dalla visita alle testimonianze fisiche dell'Olocausto, costituì comprensibilmente un momento di forte partecipazione emotiva. Di cui, a distanza di decenni, permane quella forte traccia, che áncora irreversibilmente le nostre consapevolezze al dovere morale di testimoniare quanto stiamo affermando. 

Resta di quell'esperienza il cuore centrale di un contatto emotivo totalizzante, in più ampio contesto di conoscenze inedite. Favorite da una innata curiosità nei confronti di scenari conosciuti per letture. 

Il viaggio si prese una settimana di tempo, dovuto a mezzi di trasporto non esattamente supersonici (un Fokker militare riconvertito ad uso civile), a scali intermedi inimmaginabili nel presente, a trasferimenti interni impegnativi, a qualche pausa a disposizione (utilizzata dal sottoscritto per una visita in compagnia dell'amico dott. Massimo Parlato alla casa natale di Chopin a Zelazowa Wola). Ma quella settimana continua, anche dopo quarant'anni, a dispensare un ricordo delle impressioni fatte emergere dal contatto con la realtà sociale e lavorativa di un paese, che la retorica ideologica continuava ad incastonare nel paradiso comunista. 

Di quell'esperienza resta, infine, il rammarico per la sorte toccata a quel Mausoleo Italiano di Auschwitz che, nell'aprile del 1980 (ne fa fede una copia dell'edizione del 15 aprile di Tribuna Ludu il quotidiano del Partito Operaio Unificato Polacco), suscitò in chi scrive un fascino straordinario. 

Che non solo non è stato attenuato dal lungo tempo trascorso, ma ha concorso a cementare i fondamentali di appartenenza al campo ideale ed alla testimonianza della solidarietà e dell'amicizia al popolo israelita, tanto discriminato e violentato e poi risorto nella terra promessa. 

Nel prosieguo degli anni la sintonia almeno ideale con quel contatto non fu mai né recisa né attenuata. In qualche modo alimentata dai reports dei conoscenti che si recavano al mausoleo di Auschwitz dopo di noi. 

Negli anni più recenti ci pervenivano segnali di trascuratezza del Padiglione Italia. Oggetto di sollecitudine da parte dell'Accademia di Brera, che intraprese un intenso lavoro basato sull'impegno dei dottorandi interessati, e con la promozione costante di iniziative per la conservazione del monumento nel luogo per il quale era stato progettato. Nonostante questa campagna di salvaguardia fosse estesa e determinata, la direzione del campo, improvvisamente e senza preavviso se non proprio inaspettatamente, chiuse definitivamente il Padiglione. 

La spiegazione fu che il governo polacco e la direzione del Museo puntassero ad un restauro che lo rendesse omogeneo agli altri padiglioni italiano agli altri, che presentano varie testimonianze della Shoah. Senza, tuttavia, fugare il sospetto che la cifra “politica” del Padiglione Italia non fosse più in sintonia con l'”evoluzione” della Polonia post-comunista, approdata ad un sovranismo dettato dal nazionalismo reazionario. 

In omaggio a nuove linee guida dettate dal Museo Statale di Auschwitz, dovette essere smantellato perché giudicato, come opera d'arte, non più coerente con i nuovi allestimenti di taglio pedagogico-illustrativo scelto dai governi polacchi. Lo sfratto fu formalizzato il 21 ottobre 2014, ma «grazie alle pressioni di ANED, il Ministero dei Beni culturali autorizzò l'Istituto centrale del Restauro e l'Opificio delle pietre dure di Firenze a realizzare lo smontaggio dell'opera per rimuoverla dal Museo» operazione che fu fatta nel 2015, con il trasferimento poi a Firenze all'inizio del 2016. La dura reazione dell'associazione degli ex deportati nei campi nazisti si è espressa tramite le parole del presidente Dario Venegoni che ha non solo evidenziato una sorta di censura delle autorità polacche verso l'opera dell'Aned ma ha criticato anche l'operato di tutti i governi che si sono succeduti in Italia dal 2008 in poi, che nulla hanno fatto per difendere quel patrimonio culturale italiano sulla deportazione: «nessuno dei governi che si sono succeduti dal 2008 a oggi ha ottemperato all'elementare dovere di difendere quell'opera d'arte, rilevante bene culturale che ha onorato l'Italia nel mondo, dal tentativo di una prevaricazione politica su un'opera di cultura. Una prevaricazione tanto più grave, in quanto attuata da un paese nostro partner nell'Unione Europea» e ancora «L'ANED, proprietaria esclusiva del Memoriale, ha rigettato e rigetta con riprovazione ogni tentativo di riscrivere la storia e ogni ipotesi di censura dell'opera, che va salvaguardata nella sua integrità, nel rispetto del progetto originario» Il memoriale ha potuto trovare la sua nuova collocazione fiorentina grazie alla Regione Toscana che ha finanziato il progetto che è stato redatto e realizzato dalla Direzione Servizi Tecnici del Comune di Firenze, per ricollocare l'opera. Il Comune di Firenze, con un finanziamento della Regione Toscana, sta inoltre elaborando un progetto per il percorso educativo che si snoderà al piano terra dell'EX3, con l'intento di narrare la storia che la stessa opera ripercorre attraverso tele dipinte, testi e musica (si tratta infatti di una opera corale e multimediale), ma anche con l'obiettivo specifico di attualizzare nuovamente il messaggio di difesa della democrazia e di lotta alle dittature e al razzismo attraverso la memoria e la storia. Si tratta di un impegno che la Regione sta portando avanti, soprattutto attraverso il lavoro di formazione con le scuole, fin dagli anni Duemila. Il Memoriale è stato ufficialmente inaugurato l'8 maggio 2019. È operante. Del che diamo le seguenti sommarie coordinate. 

Memoriale italiano di Auschwitz  

Via Donato Giannotti 75/81  

Visite gratuite con percorso guidato su prenotazione Partecipazione gratuita, prenotazione obbligatoria 

pubblico: info@musefirenze.it 055 2768224 

scuole: didattica@musefirenze.it 055 2616788 

Le gallerie
Trybuna Ludu
Trybuna Ludu
l'ingresso al Memoriale Italia386
l'ingresso al Memoriale Italia386
Auschwitz campo 2
Auschwitz campo 2
Memoriale italiano di Auschwitz a Firenze
Memoriale italiano di Auschwitz a Firenze
Ingresso complesso via Eupili 8
Ingresso complesso via Eupili 8

Dall'archivio L'Eco Forum dei lettori

  lunedì 16 agosto 2021

Su "Senza se e senza ma: sono pulsioni fascistoidi"

Riceviamo da una nostra cara lettrice di Vicenza e molto volentieri pubblichiamo

  domenica 13 febbraio 2022

Forum Collage

“Giorno del ricordo 2022”, “Cremona Avvelenata”

  sabato 13 giugno 2020

Iconoclastia ad effetti (anche) retroattivi

Risposta ad un nostro gentile lettore

  venerdì 5 novembre 2021

Leonida Bissolati

Ringraziando la nostra affezionata lettrice/collaboratrice, Clara Rossini, la pubblichiamo e la commentiamo

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