Per quanto in qualche modo condizionato dall'“invadenza” delle priorità mediatiche dei pezzi forti (la coda pandemica e, soprattutto, la “guerra” – con buona pace di Putin) lo scenario ordinario del sistema liberaldemocratico diffuso (per nostra fortuna) nel mondo occidentale non perde i ritmi di verifica del consenso popolare e di rinnovo del mandato elettivo.
Solo due settimane fa la verifica democratica ha riguardato il campione per eccellenza, che è la Francia; vale a dire uno dei prevalent partners comunitari dotato da oltre mezzo secolo del modello “semipresidenzialistico”. Che, ancorché non pedissequamente esportabile, ha fornito per un lungo periodo incontestabili buoni tagliandi di funzionamento. Niente è immutabile (soprattutto, in politica). Ma indubbiamente il modello plasmato da De Gaulle, sulle ceneri della agonizzante Quarta Repubblica e sui rottami di un impianto colonialistico non più sostenibile, ha dimostrato efficienza e vitalità. Fino al punto di ispirare la riorganizzazione dei campi politici.
A merito del sistema va iscritta anche la tenuta dell'impianto delle prerogative liberaldemocratico, recentemente più che in passato, significativamente messo sotto schiaffo dai montanti populismi, di destra e di sinistra.
Lungi da noi la tentazione di scodellarne qui la riproposizione sic et simpliciter. Ma indubbiamente non v'è chi non veda che l'unicità del nostro modello di parlamentarismo estremo è ad un tempo la conseguenza e la causa del sistema bloccato.
Nei meccanismi dell'ordinamento e nell'evoluzione e riorganizzazione della struttura dei protagonisti della democrazia.
Diciamo che, in aggiunta ai due castighi biblici ricordati nell'incipit la tenuta del sistema, diversamente dal mezzo secolo intercorrente dal collaudo del secondo dopoguerra, una certa tendenza della politica ad avvitarsi su sé stessa ha prodotto quell'ingovernabilità e quella tendenza alla scomposizione ben visibili.
Da noi più che nelle altre realtà del mondo occidentale.
Che, evidentemente, deve essere dotato di meccanismi auto correttivi, suscettibili di preservare il sistema quando la tendenza al collasso si avvicina troppo al baratro.
È il caso della consorella transalpina, dove, sia pure detto con molta semplificazione, il campo democratico ha salvato le cuoia dal montante pericolo destrorso. E dove, proprio per effetto dei meccanismi insiti nella prerogativa affidata di prima mano al corpo elettorale, ha prevalso nettamente una tendenza preferenziale contro i salti nel buio e quindi per la continuità di governance. E con essa il segnale a ricomporre gli schieramenti all'insegna di affinità scanditi dal sentiment popolare.
L'impressione (e qualcosa di più di un'impressione) è che si stia correggendo quel piano inclinato che, in coincidenza con la Brexit e con l'avvento del Trumpismo, sembrava indirizzato ad una stagione di netta prevalenza di schieramenti che definire conservatori è poco.
Gli accadimenti mondiali in atto e quella sorta di “troppo pieno” segnalato dal venir meno della sostenibilità della versione politica della turbo finanziarizzazione globalizzata stanno influenzando, come si diceva, l'innesco dei retrorazzi.
Se è vero che in Francia è andata e sta andando come si è visto e in quasi tutte le realtà occidentali (a partire dalla Casa Bianca), sottoposte al vaglio elettorale (con l'eccezione dell'Ungheria) è in corso una dinamica di alternanza favorevole ad una “remuntada” degli schieramenti liberaldemocratici e, come si diceva un tempo, “progressisti”.
Dire “socialisti” sarebbe azzardato. Ma indubbiamente un incoraggiante inversione di tendenza (fino a qualche mese fa favorevole all'asfaltatura delle dottrine politiche e dei movimenti artefici di più di mezzo secolo di stabilità, progresso, benessere) è manifesta con modalità non omologabili a visioni stereotipate, ma percepibili.
Torneremo sull'argomento in un breve prosieguo.
E da noi, dove il sistema è più che mai in panne e dove si attende il responso dell'elettorato tra meno di un anno, che succede e che succederà.
Da noi, innanzitutto, manca (almeno nel quadrante a noi congegnale) la base di partenza che dovrebbe essere un'offerta politica congrua e coerente e un campo organizzato e condiviso. Che non può essere, ovviamente, l'offerta di un PD, la cui scalcinatezza muove a compassione anche i più antipatizzanti.
Quell'ircocervo che è stato ed è il prodotto della sommatoria degli eredi dei protagonisti della prima repubblica non regge alle prove di un giudizio storico pur benevolo e, soprattutto, arrischia di concorrere all'asfaltatura di quelle che sono le basi fondanti di un equilibrio, che, tra luci ed ombre, ha retto.
Non sarà una riforma del sistema elettorale alla 24ma ora della vigilia della chiamata alle urne a cambiare gli addendi. Soprattutto, se questa genialata pensata per rinviare sine die la rendicontazione delle proprie inadeguatezze, non facesse neppure cenno, come dovrebbe, all'ormai ineludibile riforma strutturale dell'ordinamento e della politica.
E se si provasse (a sinistra) ad osare l'inosabile, come potrebbe essere almeno un accenno al ripristino di un tratto distintivo di un campo progressista sostenibile?
Ci ha provato, in Francia, Carole Delga, presidente della regione francese Occitania (che ha votato contro il cartello del Melenchon) il cui endorsement è stato: “la costruzione di una forza di sinistra generosa, seria, ambiziosa e tollerante. (e.v.)
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